Astore condanna luso strumentale della
religione fatto dal Borbone e dalla maggior parte del clero.
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In apertura del volume di studi su Francesco Antonio Astore: lintellettuale
e il patriota lo storico Giuseppe Giarrizzo si pone il quesito se
levento della Rivoluzione partenopea del 1799 abbia rappresentato
«un passo decisivo del Risorgimento», oppure, in quanto
rivoluzione passiva, abbia condotto il Mezzogiorno a «privarsi
della sua naturale classe dirigente»; per concludere:
Dai fatti del 99, soprattutto se lattenzione si sposta
dalla capitale alle province, è possibile datare la rivelazione
della nuova classe politica meridionale, per cui risulta smentita
la tesi della frattura, e confermata invece quella del significato
storico della rivoluzione come atto di nascita del Mezzogiorno contemporaneo
(Considerazioni sulla Rivoluzione napoletana del 1799).
Il tema è davvero scottante alla luce del presente, la cui
vicenda politica sembrerebbe voler non soltanto bloccare il processo
storico in senso progressivo, ma addirittura risospingerlo indietro
di un paio di secoli. Tempestivo dunque il più articolato
intervento (La rivoluzione napoletana del 99, tra Europa,
Napoli e Terra dOtranto) di Mario Proto, che muove da
un attacco a fondo contro chi, oggi, nega lesistenza della
questione meridionale, la quale invece, sulla base dei Rapporti
Svimez, resta più grave di prima, e dunque va ripensata sulle
tracce di quel tragico avvenimento, al quale è seguito «un
tratto lungo di storia locale e nazionale» che ha visto il
brigantaggio e la pratica corruttrice del moderatismo e del trasformismo.

Dettagliata è poi lanalisi del programma politico
dei riformatori napoletani, sulla scorta delle indicazioni fornite
dal Galanti e ancor più dal Palmieri, il quale, dal profondo
Sud, nelletà dei lumi, dimostra di saper coniugare
fisiocrazia e liberismo, Quesnay e Smith. Lappartenenza del
Palmieri alla classe nobiliare, a giudizio di Proto, non costituiva
di per sé «un importante impedimento ad immaginare
progetti di riforma che colpissero sia i privilegi che la resistenza
al cambiamento». Dalla ricognizione del pensiero di Genovesi,
Filangieri, Cuoco, il nostro studioso desume gli elementi per individuare
«le basi politiche dellarretratezza meridionale».
La complessa e, per certi aspetti, amletica figura di Astore è
largomento di Francesco Paolo Raimondi nel saggio Francesco
Antonio Astore fra illuminismo e tradizione, la cui tesi di
fondo ruota intorno al sostanziale moderatismo del suo grande conterraneo,
sospeso come a lui pare tra illuminismo (che è
superamento violento dellancien règime) e tradizione
(che è supina accettazione dello statu quo): tesi intrinsecamente
contraddittoria. Infatti se nella storia del Mezzogiorno di fine
Settecento, i riformatori, che si riconoscono più o meno
nelle idee illuministe, spianano la strada alla rivoluzione, non
si può non concludere che ladesione del riformatore
Francesco Antonio Astore alla causa della repubblica del 99
lo connota di giacobinismo in re (senza perciò immaginarlo
un Robespierre), se non in verbis, cui si appella il Raimondi per
la sua tesi.
I convincimenti di Astore in fatto di fede religiosa restano nella
intimità della coscienza, nel «foro interiore»,
che Raimondi invece vorrebbe esibire a sostegno della sua tesi del
presunto moderatismo politico astoriano. Sussiste, certo, unoggettiva
«testuale ambiguità», che Raimondi ha buon gioco
a riscontrare nelle opere di Astore; ma questa ambiguità
è da supporre non va ricondotta al momento
drammaticamente magmatico di quello scorcio di secolo nel Mezzogiorno?
È lo stesso Raimondi a fornire la riprova, nel rinvenire
in Astore, sulle orme della documentazione epistolare (diligentemente
raccolta da Giuliana Iaccarino, presente nel citato volume degli
Atti), un «pessimismo cupo al limite del medioevale contemptus
mundi».

Come conciliare allora tale pessimismo cupo con lutopia rivoluzionaria
che vide Astore non spettatore ma tra i protagonisti delle vicende
napoletane? Sia pure, Astore, «un genovesiano in ventiquattresimo»,
ma ciò non gli inibisce gli slanci di fede politica rivoluzionaria.
Non si presume, con queste mie modeste considerazioni, di avere
sciolto il nodo che, psicologicamente, riporta anche il nostro riformatore
a quanto il Manzoni ebbe, nel suo romanzo, a constatare circa «il
guazzabuglio del cuore umano».
Si è però convinti che Astore, come i Briganti, come
Ignazio Ciaia, come Ignazio Falconieri, avverte, distinto,
la necessità di una svolta nella storia sociale del Mezzogiorno,
sui cui tempi e modi non ci si poteva che affidare alle illusioni
suscitate dalla Rivoluzione Madre, lAmazzone bella
della Musa carducciana.
Condivisibile appare invece il giudizio di Raimondi sullastoriana
Filosofia delleloquenza:
Sovrabbondante e prolisso fino allesasperazione, il testo
pare privilegiare più le parole che le cose sovraccaricandosi
tra laltro del peso di quella noiosa erudizione che viene
rimproverata agli altri;
e ciò con una singolare punta di acredine paesana. È
assai meno condivisibile laltro giudizio sul Catechismo repubblicano,
testo emblematico del giacobinismo astoriano: «non
si trovano [presume Raimondi] né segnali di autentica passione
politica né indizi di seria riflessione teoretica»,
con la finale liquidazione salomonica della «improvvisa svolta
del 99»:
lidea repubblicana non era nellAstore veramente sentita
e si riduceva ad una vuota cornice, ad una pura scorza esteriore
entro cui lelemento veramente vitale rimaneva lo spirito religioso
(ibidem).

Insomma, Astore sarebbe da annoverare tra «i martiri della
fede cattolica» e non tra i martiri della «rivoluzione»,
se egli affrontò la morte per un«idea repubblicana
non veramente sentita». Quella di Astore sarebbe stata, insomma,
né più né meno «voluptas pereundi».
Mi si permetta il richiamo ad un mio scritto su Astore del lontano
1981 (LAlbero, n. 65, pp. 29-65), nel quale cercavo di spiegare
le oscillazioni del comportamento di Astore con la considerazione
che gli eventi del 99 partenopeo «sono di tale problematico
ed eccezionale spessore che nellimpatto con essi non reggono
le comuni misure di un giudizio moralistico sulle azioni umane».
Più lucida la relazione di Gino Rizzo (Sulla Guida
Scientifica), nel riprendere e risolvere i due problemi sin
qui tenzonanti tra il sì e il no: ossia linserimento
accidentato del pensiero astoriano nellalveo dellilluminismo
napoletano e la convinta, pur se tardiva, condivisione, con i genovesiani,
degli ideali rivoluzionari che lo porteranno al sacrificio estremo.
Scrive Rizzo:
LAstore allindomani della rivoluzione francese si faceva
attento interprete dei timori e delle preoccupazioni di larghi strati
della cultura cattolica napoletana, che egli riproponeva, con appassionato
e partecipe fervore, nei modi dellorganico sistema filosofico-culturale
(Guida Scientifica), su diffuse e avvertite posizioni di forte chiusura
e netta intransigenza antilluministica. E pur tuttavia i conti con
il secolo illuminato e filosofico non potevano chiudersi
con questa prospettiva così severa e unidirezionale. LAstore,
al termine della Guida Scientifica, non poté esimersi dal
tessere le lodi di quel suo secolo. Si tratta di accertamenti di
gran peso
Tutti riconducibili al fondamentale riconoscimento
di quella antidogmatica tensione conoscitiva che era stato il costante
humus della cultura settecentesca e della quale lo stesso Astore
era stato risentito e partecipe testimone sin dalla data del suo
trasferimento a Napoli.
Ci si giustifichi la lunga citazione perché, come a me pare,
fa giustizia di certo gusto iconoclasta che serpeggia in altri interventi
compresi nel volume degli Atti. E non meno energica è infine
la rivalutazione del consenso astoriano alla causa rivoluzionaria:
Quale vistosa testimonianza della personale adesione alla Repubblica
napoletana con piena consapevolezza ideologica, aveva pubblicato
Catechismo repubblicano e una traduzione del De diritti e
de doveri del cittadino di G. Bonnot de Mably, inneggianti
ai princìpi della rivoluzione francese ribaditi e condivisi;
e dunque:
nuovi ideali, nuovi principi, nuovi progetti erano sorti [
]
e lAstore li condivise, appassionatamente, con speranze di
rigenerazione politico-culturale, sino alla morte.
Sulla medesima linea dinterpretazione si è mosso di
recente Leonardo La Puma, che ripropone in edizione critica il Catechismo
repubblicano, con ampia esaustiva Introduzione e relativa ricca
bibliografia (Piero Lacaita Editore, 2003).
Infine Giuliana Iaccarino, con il bel saggio sulla Svolta
del 1799, dovrebbe, a mio parere, porre fine allinsistenza
sulle ombre e richiamare lattenzione piuttosto
sulle luci che si irradiano dalla personalità
culturale e ideologica di Astore. Numerosi e autorevoli sono gli
studi della Iaccarino, opportunamente segnalati da La Puma, dalla
esplorazione e decrittazione dellepistolario astoriano inedito,
di straordinario interesse per affondare lo sguardo nel «guazzabuglio
del cuore umano», allindagine sul rapporto tra lintellettuale
di Casarano e i lumi del Settecento.

Dallanalisi del Catechismo repubblicano, la studiosa rileva
le peculiarità che lo staccano dagli altri Catechismi diffusi
in quegli anni, per la «fondamentale esigenza di alfabetizzazione
ai nuovi principi rivoluzionari». A proposito, poi, della
traduzione di Mably, la Iaccarino sottolinea la profonda diversità
delladesione di Astore agli ideali della rivoluzione da quella
ateistico-materialistica di altri giacobini attivi nella Repubblica
napoletana, perché, nel Catechismo, le proposte da lui formulate
sono «in perfetta linea con le solide certezze cattolico-romane»,
da sempre professate.
Al tempo stesso, tuttavia, come opportunamente qui si chiarisce,
Astore condanna luso strumentale della religione, fatto dal
Borbone e dalla «maggior parte del clero», sicché,
in definitiva, il suo giacobinismo (e il lemma non produca
effetti schizofrenici) nella interiorità della coscienza
dello «zelante cattolico» non confligge con lestremismo
del programma ufficiale della Repubblica. E ciò anche in
forza della fermezza tetragona del «vero savio che prende
il Mondo (stoicamente) come viene, e come va, riflette come da unalta
torre i fenomeni che gli si presentano».
Un contributo di riflessione, forse decisivo, fornisce Gino Pisanò
(Francesco Antonio Astore e gli illuministi salentini nella
Napoli dellultimo Settecento), col suo richiamo ad unimportante
lettera del 22 dicembre 1798 (resa nota dalla Iaccarino) dellAstore
al concittadino e suo estimatore Giovan Battista Lezzi, nella quale
gli confidava, a cuore aperto, le proprie disavventure domestiche,
che lo avevano ridotto «al colmo della disperazione e delle
disgrazie di ogni genere»; lo implorava quindi di intervenire
presso persone «potenti», che, con lassunzione
di qualche incarico, o in altro modo, gli permettessero di «ritornare
da morto in vita e farmi vivere a me stesso a dispetto della mia
sorte funesta».
In seguito poi allepilogo tragico della vita di Astore, il
Lezzi aggiunge, in coda alla lettera stessa, una singolare glossa:
Linfelice autore di questa lettera, forse per la miseria [
],
si prestò alle mire dei patrioti e quindi a finir la vita
con un capestro. Sapea di tutto, fuor che quello che era necessario
a sapersi.
Icastico il commento di Pisanò: «Il Lezzi volutamente
(perché convinto) ingenerava nei contemporanei il dubbio
che ladesione dellAstore agli eventi del 99 fosse
stata meditata e consapevole». Dubbio che in Benedetto Croce
diverrà certezza, e prima ancora «fra biografi coevi
e di poco seriori» alla tragedia della Repubblica.
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