Perché per
Carmelo Bene
la terra non ha tempo, oppure ha quel tempo che è del mito:
un tempo che non è.
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Quando Carmelo Bene ritorna alla sua terra lo fa con una fuga,
uno spaesamento, lo fa con la tensione sua, di sempre, verso l’estraneità
ad ogni luogo, verso l’inappartenenza ad ogni tempo.
Ritorna mentre sta fuggendo, dunque: da ogni dimora, da ogni vincolo,
da tutto quello che in qualche modo può rappresentarlo in
un’immagine, che può delimitare in una situazione storica
il suo essere per l’arte transtorica.
Quando Carmelo Bene ritorna, lo fa nel corso di un viaggio in un
poema: ‘L mal de’ fiori (Bompiani), nel quale
ancora dice – ribadisce –: «Noi non ci apparteniamo.
E’ il mal de’ fiori / Tutto sfiorisce in questo andar
ch’è star / inavvenir / Nel sogno che non sai che ti
sognare / Tutto è passato senza incominciare / ‘me
in quest’andar ch’è stato».
Un poema dal linguaggio vertiginoso, vorticoso; somma e combinazione
di lessico e di forme; uno sprofondamento nell’espressione
ad un tempo sofisticata e viscerale; un arrampicamento con le mani
nude che graffiano i conci della torre di Babele.
Quando Carmelo Bene torna al Salento, lo fa con la lingua del Salento,
lingua dialettale – più propriamente un idioletto –
affidata ad una voce di follia, ad un monologo che assorbe moduli
popolari e sperimentalismo.

E’ una lingua dell’eccesso. Forse Carmelo Bene vuole
dimostrare proprio questo: che nella fase di una civiltà
tra due millenni, nella temperie culturale e nell’universo
linguistico del presente, nel progressivo svuotamento semantico
dei linguaggi, nella massificazione di codici e registri, il dialetto
non può essere altro che parole: realizzazione espressiva
puramente soggettiva, lingua di dentro profonda e ancestrale, opposizione
ad un appiattimento morfologico e lessicale, ma anche traduzione
di un processo di pensiero che scarta dai percorsi lineari e s’immerge,
sprofonda, in una dimensione temporale deformata, in un oltre e
un altrove in cui reale e irreale, ragione ed emozione, sono senza
differenza, in cui il senso logico e cronologico è completamente
scardinato e sostituito da un flusso di sensazioni consce e inconsce,
da una mescolanza di verosimile e inverosimile, concretezza e astrazione,
memoria del linguaggio e reinvenzione del linguaggio attraverso
la memoria.
Quando Carmelo Bene ritorna alla sua terra incontra la desolata
esclamazione di un rammarico, un senso di malessere e di disagio,
un’espressione di rifiuto, una negazione dell’hic
et nunc: «Ahi! nu ‘parlamu d’osce marammie».
Ma oggi non è soltanto il giorno che si vive; oggi è
una condizione dell’esistere. E marammie racchiude
e rappresenta la coscienza di una decadenza, di un disfacimento
del destino.
Tra le cose che sono – e anche tra quelle che sono e non sono
– tra il soggetto e la terra c’è solo questa
lingua alterata, questa alternanza di esserci e di fuoriuscire da
sé, questo innestarsi della conoscenza delle cose su una
preconoscenza del linguaggio appreso da innumerevoli bocche di innumerevoli
madri che hanno abitato la terra.
Così le parole si generano e si consumano in un capogiro
di immagini: malinconia di rose bianche; un’anima dimentica
di sé come una luna dentro una nuvola fuori da ogni cielo;
stelle che si avvertono sulla pelle e non si vedono; un vento che
riempie il cervello; forme d’ogni genere che si ammassano.
Quando Carmelo Bene ritorna alla sua terra, incontra una voce delirante,
smaniosa, un io parlante lacerato, dissociato, che tira fuori il
suo linguaggio dal magma della terra, da una profondità astorica,
da un fiume di senso in cui scorre l’acqua purissima e il
fango dell’origine.
E allora non c’è nessun ritorno, forse. E’ il
fenomeno di una simbiosi, l’identificazione soltanto con una
parola lirica e pietrosa, modulata e singhiozzante, assurda paradossale
mimetica stralunata levigata e scheggiata da punteruoli d’altre
lingue, risonanze colte, lacerti aulici, metafore popolareggianti.
Allora essere e linguaggio sono una cosa sola: essere e linguaggio
si distaccano progressivamente dai propri contesti di appartenenza
per confrontarsi soltanto con se stessi o tra di essi, per farsi
nient’altro che testi: il corpo è un testo come e quanto
la parola, come e quanto è un testo il suono delle sillabe,
la catena dei versi, il ritmo regolare.
Il confronto tra il testo del corpo e il testo della parola produce
un dissidio e una dissonanza al livello della potenzialità
dell’espressione.
Perché la parola ha coscienza di non riuscire a dire l’essere
del corpo, e il corpo soffre l’impossibilità di essere
parola, di potersi dire in modo autonomo, di potersi raccontare
compiutamente, da sé, per sé, con una autoreferenzialità
che è dimostrazione dell’irripetibilità dell’essere.
Quando Carmelo Bene ritorna alla sua terra incontra solo una lingua
senza tempo: perché per Carmelo Bene la terra non ha tempo,
oppure ha quel tempo che è del mito: un tempo che non è.
Per Carmelo Bene ha senso solo il tempo del mito; solo nel mito
è possibile abitare una terra e una lingua, incontrare (o
ritrovare, quando si ritorna, perché comunque una volta si
ritorna) la terra e la lingua dell’origine, quella terra e
quella lingua che aderiscono alla natura dell’essere come
nessun’altra terra e nessun’altra lingua riescono a
farlo e possono farlo. Quando Carmelo Bene ritorna ha soltanto desiderio
di confondersi, di annullarsi, di dissolversi in quella voce straniata,
di stringersi tutto in una parola che racconta – e che canta
– il dolore della memoria e la pacata disperazione per un’arte
che vive nella stupefatta passione di un destino senza inizio e
senza conclusione.
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