Era allora che nei cannocchiali degli assedianti si
stagliava la scena surreale di una
regina che ballava con i soldati, al modo di una
ragazzina durante una sagra di paese.
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Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, era nato
a Napoli nel 1836, primogenito di Ferdinando II. Sua madre, Maria
Cristina di Savoia, morì quindici giorni dopo averlo messo
al mondo. Poco amato dalla seconda moglie del padre, Maria Teresa
d’Absburgo, Francesco crebbe nel culto della madre (che chiamava
“Santa”): fragile di carattere, chiuso, estremamente
religioso, si trovò impreparato quando, nel 1859, all’età
di 23 anni, salì al trono, alla morte del padre.
Maria Sofia di Baviera, che sposò nello stesso anno, ne aveva
diciotto. Il loro breve regno era destinato a soccombere agli eventi
del Risorgimento. Incalzato dalle truppe garibaldine e piemontesi,
avvilito dalle diserzioni militari e dai doppi giochi di corte,
Franceschiello (come lo chiamavano i napoletani), nel novembre 1860
si rifugiò nella città fortificata di Gaeta. L’assedio
alla fortezza che lo ospitava durò 93 giorni. Poi il re si
arrese e le Due Sicilie vennero annesse al Regno d’Italia.
Francesco trovò rifugio a Roma, presso Pio IX; poi, dal 1870,
a Parigi. Morì nel 1894 ad Arco di Trento, dove faceva tappa
mentre era diretto con la moglie in Baviera.
Se matrimonio felice era stato, lo si doveva all’abnegazione
di Maria Sofia, in un certo senso “vedova” con marito
vivente, sebbene straordinariamente bella e con temperamento più
mediterraneo che absburgico. Il giovane re di Napoli era invece
popolare per la sua estrema semplicità: per lui comandare
era una sofferenza, senza l’ombra dell’ebbrezza legata
al potere. E maggior sofferenza era consumare un matrimonio da tempo
rato, al punto che per un’interminabile serie di notti si
infilava tra le lenzuola del letto coniugale quando la moglie dormiva
e sgusciava fuori all’alba, prima che lei si svegliasse. E
tuttavia lei lo amava lo stesso, lo considerava buono e spiritoso,
degno comunque di lealtà e di devozione da parte di sudditi
largamente beneficati, in un Reame che spesso suggeriva l’idea
di una terra più pittoresca che potente.

L’assedio di Gaeta riscattò la mortificante situazione
della giovane coppia: fu in quella piazzaforte che l’ultimo
re di Napoli volle illuminare con un raggio di gloria il tramonto
di una dinastia che era durata 126 anni. E a infondergli coraggio
c’era lei: non aveva avuto la possibilità di essere
romantica in amore, lo fu in battaglia, tra il fumo dei cannoni,
i moribondi, le esplosioni, i cavalli impazziti, proprio come nelle
stampe che si diffusero in quelle drammatiche settimane in tutta
Europa.
Tutte le gazzette continentali titolavano sull’“eroina
di Gaeta” e i giovani aristocratici raggiungevano Maria Sofia,
combattevano al suo fianco, soprattutto si innamoravano di lei.
Gli stessi ufficiali piemontesi, se riconoscevano la leggendaria
regina che ispezionava a cavallo una batteria, facevano sospendere
il fuoco. Spesso, infatti, i proiettili avevano colpito dei depositi
di polveri e di munizioni, facendoli saltare in aria, e provocando
orrende stragi tra i soldati e gli stessi civili. Come ha ricordato
nella biografia di questa donna straordinaria lo storico Arrigo
Petacco, la popolazione gaetana sopportò ogni dolore, tollerò
tutte le ristrettezze, accettò ogni privazione, ma rimase
fedele ai Sovrani fino all’ultimo momento.
Tre mesi d’assedio e la guarnigione decimata ma non domata.
E a quel punto, Maria Sofia inventò una strabiliante tecnica
controffensiva. Faceva schierare sui bastioni le fanfare, che dapprima
intonavano l’inno borbonico di Paisiello, poi valzer e mazurke:
quindi, stretta al marito, ordinava fuoco a volontà, un tiro
preciso e violento che sorprendeva le postazioni piemontesi. Era
allora che nei cannocchiali degli assedianti si stagliava la scena
surreale di una regina che ballava con i soldati, al modo di una
ragazzina durante una sagra di paese. E subito dopo ricominciava
l’inferno su Gaeta, raggiunta dalle artiglierie che da terra
e dal mare rovesciavano sulla città migliaia di proiettili.
Tre mesi d’assedio, e la regina che curava i feriti, leniva
le sofferenze dei moribondi, ispezionava di giorno, ma anche di
notte, i bastioni e infondeva coraggio ai difensori, li esortava
a difendere il loro re e il loro onore contro le camicie rosse comandate
da un fuorilegge e contro le truppe piemontesi al servizio di un
re cugino di Francesco, e pertanto due volte traditore, per l’aggressione
unilaterale e per i vincoli di parentela violati.
Tre mesi d’assedio e i difensori esausti. Giungevano voci
di massacri perpetrati dai “liberatori” in altre regioni
del Reame. Da una leggendaria cittadina delle Marche, Civitella,
veniva l’eco di una resistenza oltre ogni limite umano, mentre
altri lealisti battevano le campagne, dando la caccia ai filogaribaldini,
assalivano le cittadine e i municipi passati al nemico, mettevano
a ferro e a fuoco i palazzi e le tenute isolate di chi aveva favorito
l’invasione piemontese. Ma Napoli era caduta, la capitale
che un secolo prima era stata la prima città d’Europa
era finita in pugno ai mercenari di Garibaldi e ai lazzari per i
quali il saccheggio e la violenza erano preludio ed epilogo di ogni
avventurosa conquista.
Tre mesi di eroismi inenarrabili, di lotta per la vita o per la
morte, di difesa accanita di ogni palmo di mura, di ogni breccia,
di ogni eccidio prodotto dal fuoco concentrato delle artiglierie
nemiche. E infine, per necessità di sopravvivenza, l’inizio
delle trattative per la resa. All’alba del 14 gennaio 1861,
la capitolazione: Maria Sofia, la regina che aveva fatto propria
la causa di un Regno che le poteva restare estraneo, e del quale
era diventata un simbolo, l’audace e generosa regina del Sud,
splendida nel suo pallore, sfilò accanto al marito fra una
folla di popolani rotti dall’emozione, mentre gli ufficiali
borbonici spezzavano con rabbia le spade. Era la fine del Regno
napoletano, con l’ultima bandiera borbonica che sarebbe stata
ammainata di lì a poco anche nella martirizzata Civitella,
ultimo orgoglioso bagliore dei lealisti del Sud.
L’impotenza del marito era stato il primo, segreto calvario
di Maria Sofia. Il secondo era stato vissuto durante l’assedio
gaetano. Il terzo, forse più intimamente infernale di tutti,
l’ex regina lo avrebbe vissuto di lì a poco, ad opera
di un’impostura montata contro di lei da chi si nascondeva
nell’ombra dell’anonimato.
I due sovrani, ospiti nel palazzo del Quirinale offerto dal Pontefice,
avevano trascorso a Roma soltanto pochi mesi, quando scoppiò
lo scandalo: una serie di fotografie che ritraevano Maria Sofia
in pose oscene. Incredulità e sconcerto negli ambienti romani
e nelle corti europee: l’arte della foto era nata da poco,
ma insieme con essa era nata la bassa tecnica del ricatto tramite
i fotomontaggi. E infatti di abili fotomontaggi si trattava, sicché
ben presto si scoprì la modella (una donna di facili costumi)
che aveva (inconsapevolmente) prestato il suo corpo. Ma chi c’era
dietro la macchinazione? Forse gli stessi piemontesi, che intendevano
screditare l’impavida giovane regina che incarnava ancora
gli ideali borbonici; la malinconica giovane regina che –
costretta all’esilio – continuava a far innamorare fior
di aristocratici europei? Non si sarebbe saputo mai. E’ certo,
come ha osservato Arrigo Petacco, che se Garibaldi fu l’eroe
del Risorgimento italiano, Maria Sofia fu la nobile eroina che gli
si oppose con determinazione.

Francesco II era letteralmente disfatto dall’infame vicenda,
ma sarebbe stato ancor peggio se avesse scoperto il primo (e con
ogni probabilità unico) tradimento della moglie: Maria Sofia
aveva conosciuto un attraente ufficiale belga, e insieme con lui
aveva trascorso momenti felici, galoppando per la campagna romana
e facendo picnic sull’erba, classici ingredienti delle infedeltà
d’alto bordo.
Tre mesi dopo, la regina era stata costretta a recitare la scena
del mal di petto. In realtà, era rimasta incinta, e ciò
comportava due conseguenze: non poteva attribuirne la causa al marito;
non intendeva causare al re, sempre innamorato, un dolore così
forte che lo avrebbe distrutto. Perciò decise di rifugiarsi
nella natia Baviera, dove la famiglia non si sarebbe formalizzata
più di tanto. Sofia avrebbe voluto seppellirsi in un convento,
ma il parentado impose il suo ritorno a Roma, a vicenda conclusa.
Sofia accettò, a una condizione: confessare tutto a Francesco,
al quale avrebbe chiesto se la rivoleva ancora.
Nacquero due gemelle, che crebbero in terra bavarese, fino a quando,
raggiunta l’età del matrimonio, vennero fornite di
buona dote e accasate con gentiluomini di rango.
Sofia era tornata al Quirinale. Francesco, dal canto suo, rimasto
all’oscuro di tutta la vicenda, pazzo di solitudine e privo
d’iniziativa, l’avrebbe comunque ripresa. Dopo la vacanza
bavarese e la “salute” riacquistata dalla regina, riprese
l’antico amore, casto, sincero e profondamente innaturale
che aveva legato la coppia dai tempi del Reame a quelli del primo
esilio.
Qualcosa, tuttavia, era cambiata in lei. Col passare dei mesi sentiva
sfiorire la giovinezza, cadere tutte le illusioni, spegnersi tutte
le speranze. Napoli e i suoi palazzi, le sue strade, il suo mare
e i suoi giardini; Napoli che era stata capitale europea e che aveva
avuto una storia più che secolare di fedeltà borbonica;
Napoli la cui immagine ai piedi del fumante Vesuvio continuava a
occhieggiare da tutti i giardini d’inverno delle terre centrali
e orientali del Vecchio Continente, era ormai una meta irraggiungibile,
un sogno che si dissolveva giorno dopo giorno, un’illusione
ottica che si allontanava nel tempo e nello spazio.
Dunque, non c’era più alcuna ragione per restare fra
le stanze stupende del Quirinale, in quegli ambienti che ricordavano
antiche e gloriose potenze, in nome di un’esistenza che per
una regina senza regno non aveva più alcun senso. Si sentiva
una maceria della Storia, un detrito scagliato contro il nulla da
un destino avverso. E considerava che forse soltanto la solitudine
avrebbe potuto salvarla dall’insignificanza di quei giorni
senza alcuna passione e del vuoto che le stava divorando l’anima.
Perciò decise di allontanarsi definitivamente da Roma e da
Francesco, e comunicò questa decisione a sua sorella, Sissi,
la celebre e bellissima consorte di Francesco Giuseppe, imperatore
d’Austria-Ungheria.
Costei intervenne con due mosse che sul momento parvero vincenti.
Scrisse una lettera a Francesco, nella quale, dopo averlo messo
in guardia sui rischi che correva il suo matrimonio, sosteneva con
rude ma efficace franchezza che i “doveri” del re non
potevano «esaurirsi nelle preghiere», alle quali Francesco
ricorreva nei momenti di sconforto, vale a dire più volte
al giorno. Inoltre, fece un “regalo misterioso” al cognato:
in realtà, si trattava di un gran letto matrimoniale, che
si rivelava un eloquente invito a dedicarsi ai “doveri”
naturali cui lo richiamava un matrimonio celebrato da gran tempo.
Francesco completò quel regalo con un piccolo intervento
chirurgico, che lo mise in condizione di onorare finalmente la “prima
notte”. E il sorriso si riaccese sulla bocca di Maria Sofia.
Nacque una bambina, ma gracile, e predestinata: morì dopo
appena una settimana, gettando nella disperazione la giovane madre
che, affranta, abbandonò per sempre Francesco. Il quale,
a sua volta, dopo il miracoloso exploit, ormai consapevole di non
avere più eredi, ripiegò sulle sue devozioni, sulle
sue superstizioni e sulle sue nostalgie.
Accaddero fatti storici rilevanti. La breccia di Porta Pia consegnò
Roma ai piemontesi e a quanti la volevano capitale d’Italia.
Alla fine del secolo il regicidio di Umberto I sembrò anticipare
i colpi di pistola che, a Sarajevo, avrebbero spalancato gli abissi
del primo sterminio mondiale. In odio a casa Savoia, Maria Sofia
fomentò rivolte e guerriglie nel Sud, nel nome di una riconquista
che non si sarebbe verificata, perché venne stroncata nel
sangue dai bersaglieri nelle lotte antibrigantaggio, come furono
definite allora e in seguito da una storiografia impudicamente compiacente
e non veritiera. E comunque l’odio di Maria Sofia non cessò
neanche di fronte alla fine dei fuochi di guerriglia che avevano
incendiato le Calabrie e la Basilicata, il Sannio e la Capitanata,
il Cilento e l’Abruzzo e – più feroci di tutti
– il Molise. L’ex regina del Sud giunse a farsi affascinare
persino dagli ambienti anarchici, che le spremettero un mucchio
di soldi, senza venire a capo di nulla.
E ci furono degli episodi che sono rimasti tuttora misteriosi, e
che la cultura del sospetto ha attribuito – quasi sicuramente
senza alcun fondamento – all’attività antitaliana
e antisavoiarda di Maria Sofia. Alla vigilia dello scoppio della
Grande Guerra, in due porti del Sud la marina italiana subì
uno scacco che le cronache storiche preferiscono ancora oggi ignorare.
Una nave corazzata saltò in aria nel bacino portuale di Brindisi,
e un’altra esplose nel porto, anch’esso militare, di
Taranto. Certamente, si trattò di due atti di sabotaggio
perpetrati da elementi filoaustriaci, con l’intento di indebolire
le forze navali destinate ad agire in particolare nel Mare Adriatico,
dove, provenienti dal porto di Trieste e dalle isole sub-istriane,
navigavano le unità della flotta austriaca. Si trattò
di elementi locali al soldo di Francesco Giuseppe? Erano giunti
negli arsenali adriatico e ionico agenti austriaci, con l’ordine
di attaccarvi le maggiori unità italiane alla fonda?
Le inchieste subito aperte non giunsero ad alcuna conclusione. E
poiché una mente organizzatrice doveva pur esserci stata
dietro le due clamorose azioni, si mise in giro il nome di Maria
Sofia, capro espiatorio dell’incapacità degli indagatori
di venire a capo delle due vicende. Sta di fatto che le due unità
corazzate furono messe fuori combattimento per tutta la durata della
guerra, insieme con una terza, anch’essa corazzata, saltata
su una mina dalle parti di Scutari. La marina sabauda aveva perso
la guerra prima di cominciarla. E ci sarebbe voluto del tempo, e
molto coraggio, per pareggiare i conti, con l’affondamento
di potenti unità navali austriache operative in Adriatico.
Si spostò in lungo e in largo per l’Europa, l’ex
regina del Sud. Che rimase, come sempre, affascinante, brillante,
determinata nei giudizi, se è vero, com’è vero,
che ormai anziana, incontrato a Parigi Giovanni Papini, anch’egli
spirito puntuto e lingua sferzante, e intellettuale orgoglioso di
un suo fresco “saggio filosofico”, lo incenerì
con una battuta: «Per essere filosofi bisogna aver vissuto
a lungo e aver sofferto molti disinganni: credetemi, non è
il caso vostro!». E comunque il mito di Maria Sofia sarebbe
rimasto luminosamente legato a due misteri, tuttora irrisolti: la
tenerezza per cui per tanto tempo riuscì ad amare un marito
impotente; e lo slancio con il quale sposò la causa di un
Reame che le era estraneo, diventandone, ribadiamo, il simbolo più
nobile.
Bella, audace, generosa, come sapevano essere soltanto le eroine
dei feuilletons non soltanto di quell’epoca. Ma autentica.
Coerente e vera. Sfortunata protagonista nel tramonto di una monarchia
che sarebbe stata rivalutata, e piuttosto timidamente, soltanto
dopo circa un secolo e mezzo. Con storie di una Storia rivisitata
che si apre faticosamente la strada fra gli stereotipi, i luoghi
comuni, le distorsioni che hanno velato a lungo – deformandola
– la verità che apparteneva ai popoli del Sud e a quelli
della Penisola. E forse non soltanto a loro.
Il fatto politico in sé, (la scomparsa del più antico
Stato della Penisola, e l’annessione del Sud), ebbe rilevanza
europea, ovviamente. Ma anche la reazione legittimista, con le stesse
deviazioni brigantesche, si inseriva in una tradizione continentale.
Avrebbe notato Francesco Saverio Nitti, in seguito, che «ogni
parte d’Europa ha avuto banditi e malviventi». E in
alcuni Paesi dell’Europa centrale il brigantaggio era stato
per secoli una vera istituzione, «e i banditi della Germania
in brutalità e ferocia hanno segnato pagine assai più
sanguinose delle nostre». Ma vi era un Paese in cui il brigantaggio
era esistito sempre, simile a un immenso fiume di sangue e di odio,
cui erano affluiti tutti i rivoli del dolore, dell’ingiustizia
e della delinquenza; vi era un Paese in cui per secoli una monarchia
si era basata sul brigantaggio: il Sud. Anche le monarchie più
potenti non erano riuscite a estirparlo del tutto dal Reame. Tante
volte distrutto, tante volte risorto, e spesso più prepotente.
Del resto, è noto che nulla aveva contribuito allo sviluppo
del brigantaggio più della immoralità profonda della
dominazione spagnola, durante la quale venne meno ogni fede pubblica
e privata. In alcuni casi, tutt’altro che rari, gli stessi
baroni partecipavano al brigantaggio, o apertamente lo proteggevano,
sia per autodifesa sia per sete di guadagno. Durante quella dominazione,
nel 1559, fu possibile a un celebre fuorbandito, Re Marcone, andare
realmente a prendere possesso della città di Crotone e battere
le truppe regolari. Alla fine del secolo XVI Benedetto Mangone,
Marco Sciarra e Battinello erano i veri arbitri in alcune province.
E non poche volte si videro i briganti spingersi in gran numero
fin sotto le mura di Napoli, bloccare la capitale e mettere in pericolo
la sicurezza del governo.
Anche prima i banditi erano stati spesso una forza politica, di
cui i sovrani si erano serviti contro i baroni e i baroni contro
i sovrani. Ma durante la dominazione spagnola, vale a dire per più
di due secoli, non c’era stata guerra combattuta con le forze
interne del Regno in cui una delle parti nemiche non avesse adoperato
i briganti. Province intere, per secoli, furono al di fuori di ogni
legge, sotto la dominazione o l’influenza diretta o indiretta
dei banditi, sotto la persecuzione di un ordine feudale trapiantato
a Sud e in Sicilia dai Normanni.
Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole. Maria Sofia faceva ricorso
alla tradizione: assoldava briganti, mentre complottava con i legittimisti
per la riconquista del Reame. Diserzioni, infedeltà, ruberie,
doppi giochi di oscuri personaggi fecero cadere l’illusione
e accrebbero l’odio e il disprezzo dell’ex regina del
Sud per casa Savoia. Altro non potendo fare, lungo i sentieri del
tramonto.
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