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Per oltre quattro secoli e mezzo in Cappella Sistina erano
riecheggiati cognomi familiari: dal fiorentino Medici al romano
Farnese e al partenopeo Carafa, fino ai recentissimi Pacelli, Roncalli,
Montini, Luciani. Per il 265° pontificato, (incluso quello dell’Apostolo
fondatore della Chiesa), lo spoglio delle schede aveva evidenziato
una lacerazione tutta interna al blocco italiano, con la contrapposizione
tra l’arcivescovo di Firenze, Benelli, e quello di Genova,
Siri. Venuta meno ogni possibilità di mediazione, i porporati
avevano fatto una scelta di rottura: dopo due giorni di conclave
e tre fumate nere, designarono colui che avrebbe preso il nome di
Giovanni Paolo II.

«Ma chi è questo Botiglia?», aveva chiesto
il cardinale Casariego, (età avanzata, udito non proprio
raffinato), rivolgendosi al collega che gli era contiguo e che inutilmente
aveva tentato di zittirlo, perché Wojtyla era uno scranno
più in là e aveva sentito tutto, divertendosi. «E
chi sarà mai questo qui?», si erano interrogati i romani
che gremivano Piazza San Pietro e che, recepito come africano il
non facile cognome del nuovo pontefice, avevano cominciato a rumoreggiare.
L’applauso arrivò, quasi liberatorio, solo quando la
radio e la televisione rivelarono che si trattava di un polacco,
nato a Wadowice e fino a qualche minuto prima vescovo di Cracovia.
Il meno noto dei porporati. Il più trascurato nelle biografie
preconfezionate ad uso delle edizioni straordinarie dei mass media.
Quello dato uno a mille dai bookmakers, perché nessuno avrebbe
scommesso su di lui uno zloty o una lira bucata. Il più diligente
(e dunque anonimo) dei prelati venuti dall’Est. Che da quel
momento, per germinazione spontanea, divenne il protagonista quasi
folcloristico di una lunga serie di aneddoti, che in qualche modo
ritagliavano frammenti emblematici della sua biografia.

Il primo me lo raccontò uno dei giovanissimi preti che
affollavano la Curia Metropolitana di Cracovia: Wojtyla era giunto
a Roma per la nomina a cardinale così tardi, che non trovò
nei negozi vaticani neanche un paio di calze, appunto, rosso-cardinalizie,
sicché durante il rito indossò le sole scarpe, particolare
che non sfuggì ai presenti, papa compreso. Un altro episodio
avrebbe preso il sapore della leggenda: Wojtyla era andato in pellegrinaggio
al santuario laziale della Mentorella, poi si era fermato a pranzare
in un’osteria di quelle senza la pretenziosa “H”
davanti; rimessosi in viaggio, era rimasto bloccato nell’auto
in panne, fino a quando un autista dell’Acotral, Candido Nardi,
da Colleferro, lo aveva preso a bordo del suo autobus nei pressi
di Guadagnolo, un borgo a una cinquantina di chilometri da Roma;
e poiché lo “zi’ prete” gli aveva spiegato
che doveva arrivare in Vaticano prima delle 13,30 (all’epoca
il Conclave era “sigillato”, chi non giungeva in tempo
restava irrimediabilmente fuori), fu costretto a saltare tutte le
fermate, fino a Palestrina, (raggiunta a tempo di record: 17 minuti),
dove venne intercettata la corriera diretta alla Capitale. Un miracolo
fece giungere quell’eterno ritardatario appena in tempo sulla
soglia della Sistina, dalla quale sarebbe uscito con la talare papale,
grazie all’ispirazione dello Spirito Santo, ai voti dei cardinali,
e all’aiuto provvidenziale di un conducente di autobus pubblici,
partecipe inconsapevole della genesi di un pontificato.

Nella natia Wadowice lo chiamavano Lolek, Carletto. Intelligente,
studioso, altruista, e goloso: «Nel bar vicino alla scuola
ne abbiamo combinate di tutti i colori», avrebbe confessato
molti anni dopo. Abitava al primo piano di una casa a ballatoio
al numero 7 di Ulica Koscielna, due stanze e cucina oggi trasformate
in museo. La sua cattedrale sorgeva in quella spianata che, intitolata
all’Armata Rossa, nel nome di questo fuoriclasse poi sarebbe
diventata Piazza Giovanni Paolo II. Le sue montagne erano quelle
di Zakopane, dove Lolek poteva montare gli sci di legno rigorosamente
polacchi, o usare la pagaia nelle solitarie discese in canoa lungo
i torrenti del versante settentrionale. (Amò sempre l’acqua
e la roccia. In Vaticano si fece costruire una piscina. E in Abruzzo
si recò clandestinamente almeno un centinaio di volte, per
respirare l’aria netta e per rigenerare le interne energie
tra i silenzi assoluti e le assolute solitudini di quell’asperrimo
Appennino).

Quando Lolek abbandonò la città natale, raggiunse
Cracovia e superò la linea d’ombra dell’adolescenza:
divenne Karol. Eppure Wadowice conservò sempre il sapore,
l’umore, la fiera impronta di Carletto; anzi visibilmente
la accrebbe, nel ’95, quando il simbolo della città
fu corretto: alle antiche insegne furono aggiunte le chiavi vaticane.
E anche questo sembra smentire le voci di una Polonia meno spirituale,
più attenta alla mondanità grazie a un’esistenza
che si va affrancando dalla povertà. Tutt’altro. Di
mercanti non se ne sono mai visti lungo la santissima direttrice
Wadowice-Cracovia, decine di chilometri che mettono in fila una
teoria infinita di santuari, da quello di Kalwaria Zebrzydowska,
dove ci sono le stazioni della Via Crucis, a quello della Misericordia,
dove Karol tornò più volte per «passeggiare
sul filo della memoria nei luoghi della giovinezza di Lolek».

Karol come rovescio della medaglia di Lolek. Questi, il monello
nelle strade di una piccola città; l’altro, il globetrotter
instancabile dei viaggi apostolici. Pochissimi ormai i testimoni
superstiti a Wadowice. Molti coloro i quali, sapendo far di conto,
hanno calcolato le distanze percorse da Karol nei cinque continenti:
venticinque volte almeno il giro del mondo, dalle capitali dell’Occidente
alle regioni dell’Islam e dell’Induismo, dagli Imperi
ai micro-Stati, in 129 nazioni, in 259 città italiane. Pellegrino
del mondo in quel miliardo di credenti che rappresentavano il suo
santuario vivente, fu votato più all’annuncio e alla
profezia che al governo dell’istituzione ecclesiastica; ma
con quattro rimpianti, racchiusi nei nomi della Russia del pavido
primate Alessio II, della Cina delle chiese cattoliche oppresse
dallo Stato ancora maoista, del Vietnam, che stermina i cristiani
degli altopiani, e dell’Iraq che, nel dopo-Saddam, ha scatenato
una carsica crociata anticristiana ad opera dei musulmani sciiti
e sunniti.

Tanto Lolek fu operaio, poeta, attore e drammaturgo, quanto
Karol fu teologo e filosofo. Le dimensioni spirituali del Grande
Polacco coinvolsero ragione, fede e intuizione poetica. E il nesso
di queste tre forze, nell’unità strutturale in cui
si trovano in Wojtyla, costituisce quello che Platone chiamava il
“dèmone” con cui l’uomo nasce e da cui
è accompagnato per tutta la vita. Si tratta di quella che
potremmo chiamare la cifra emblematica della spiritualità
dell’uomo, che James Hillman ha denominato “codice dell’anima”.
L’asse portante del poeta e del filosofo è quello che
considera l’uomo come persona, concetto che – occorre
sottolineare – nasce esclusivamente nell’ambito del
pensiero cristiano, è sconosciuto nell’ambito del pensiero
ellenico, e si è contratto in quello di “individuo”
in età moderna e contemporanea. Dunque, per Lolek e per Karol
una pienezza e una perfezione d’essere non si possono rendere
se non con la parola “persona”: «Dio, in senso
particolare, è Creatore della persona, poiché essa
in una certa misura rispecchia Lui stesso. Creatore della persona,
Dio è per ciò stesso fonte dell’ordine personalistico».
Il tema dell’amore ha uno straordinario rilievo negli scritti
poetici di Wojtyla, con al vertice questi versi che hanno un significato
profondo: «L’amore è una sfida continua. Dio
medesimo forse ci sfida / affinché noi stessi sfidiamo il
destino». Nella “Bottega dell’orefice” al
personaggio Adamo, simbolo dell’uomo, fa dire: «L’amore
non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero.
Ha il suo peso specifico. E’ il peso di tutto il tuo destino.
Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo
passa attraverso l’amore. Ecco perché si ritrova nella
dimensione di Dio, solo Lui è eternità». E alla
fine al personaggio Teresa fa ribadire: «…Creare qualcosa
che rispecchi l’Essere e l’Amore assoluto / è
forse la cosa più straordinaria che esista! / Ma si vive
senza rendersene conto».
Già Lolek aveva compreso che la soluzione di tutti i problemi
sta proprio nell’amore, perciò scriveva: «L’amore
mi ha spiegato ogni cosa, / l’amore ha risolto tutto per me
/ perciò ammiro questo Amore / dovunque Esso si trovi».
E in “Amore e responsabilità” c’è
una frase che tratteggia la figura morale e spirituale del Pontefice
(poeta e filosofo) in maniera perfetta, appunto nella dimensione
dell’“amore donativo”: «L’uomo giunge
alla conclusione che, per essere interamente giusto verso il Creatore,
deve offrirgli tutto ciò che ha in sé, tutto il suo
essere…». E’ quel che Lolek-Karol ha fatto per
tutta la vita, senza tregua e senza riserve. Parlando con Dio e
dicendogli: totus tuus.
Ebbe per la sua terra una fedeltà conradiana. E quando vi
si recò per la prima volta da papa, gridò soltanto
tre parole di fuoco: «Non abbiate paura!», determinando
la prima crepa profonda sul Gran Muro che per decenni aveva cinto
il male più pertinace del secolo. Perché era questa
la natura visibile del comunismo: non soltanto il progetto utopico
e mortifero di creare l’uomo nuovo e la Gerusalemme terrena,
non soltanto la violenza determinata di un’ideologia che del
progetto era stata nutrimento, ma soprattutto la paura nuda, usata
come arma fondatrice e come obiettivo strategico.
D’improvviso divenne chiaro che su null’altro si reggevano
quei regimi che avevano ucciso l’uomo nello stesso momento
in cui promettevano di salvarlo dallo sfruttamento, che avevano
scardinato l’economia, liquidato il senso delle leggi, distrutto
l’amore del lavoro, eliminato la decenza dalla faccia delle
terre soggiogate.
Fu espressione suprema di polonità e di Oriente, al punto
che neanche la curia romana riuscì ad avvolgerlo. Si commuoveva
quando parlavano della sua patria; si esaltava quando la visitava.
Lì era nata la sua vocazione, lì si era manifestata
la formidabile commistione di fede, spiritualità, senso della
storia, sapienza d’Europa. Lì aveva visto passare gli
immensi patimenti del Novecento. Roma fu faro di luce e bussola
interiore: nella Città Eterna era la tomba di Pietro; la
Città Eterna era il centro simbolico dell’universalismo
latino e del suo Corpus Juris, delle leggi che la Chiesa aveva salvato
riscoprendole intorno all’anno Mille, e che sono state il
fondamento della civiltà europea.
Del resto, Karol non aveva alle spalle una Polonia qualunque. Aveva
nei ricordi di famiglia la Polonia di Cracovia, la rispettabile
Polonia austroungarica dove Lenin si rifugiava dalle persecuzioni
zariste in atto a Pietroburgo e a Varsavia, dove l’ebreo scrittore
Joseph Roth era di casa, dove fiorivano i circoli risorgimentali
polacchi, ma anche serbi e croati. La copertura morale e diplomatica
che nei giorni dei genocidi balcanici egli aveva dato ai cattolici
di Lubiana e di Zagabria, oltre che ai musulmani della Bosnia, non
proveniva dal nulla: era riecheggiata prepotentemente da una conoscenza
– vorrei dire – “consanguinea” del problema.
Altro che Mitterrand. Altro che Bush senior. Il poeta Lolek seppe
generare Karol uomo di Stato e guerriero che nessuna astuta omissione
potrà mai farci ignorare, e al quale milioni di europei devono
oggi la libertà, e con la libertà anche la vita.
Scrisse un’ultima enciclica, ma senza adoperare le parole,
perché non ce n’era bisogno. La manifestò per
immagini in diretta, la prima delle quali venne in primo piano quel
13 maggio dell’81 in cui un lupo grigio assoldato dai servizi
bulgari in nome e per conto del Kgb sovietico sparò due colpi
di pistola in Piazza San Pietro, trafiggendo Lolek, il ragazzo che
voleva cantare insieme con centinaia di migliaia di papa-boys. Sopravvisse
Karol, l’Atleta di Dio che alla demolizione del corpo, per
quell’odioso agguato diventatogli lentamente ma inesorabilmente
nemico, avrebbe opposto un’ostinata resistenza.
Lo portò in giro per il mondo – martirio visibile –
quel corpo ogni giorno più piegato, ogni giorno più
tremante, ogni giorno più disobbediente. Un papa degno di
questo nome deve passare attraverso la sofferenza, era solito dire.
E per quella sofferenza implacabile, sopportata in silenzio, col
trascorrere dei giorni ogni passo diventava una sfida, ogni movimento
si traduceva in una mal rattenuta smorfia di dolore, ogni parola
si perdeva in una scabra eco ondulare.
Fu tragica e sublime, questa enciclica muta, nuda, e innocente dell’ignoto
prete dell’Est miracolosamente asceso al soglio del Principe
degli Apostoli: icona propria di un’incommensurabile Settimana
di Passione che fa rivivere la divina tragedia dell’“Ecce
Homo!”, il manifestarsi dell’essere umano nella sua
fragilità, nella sua esteriore debolezza, nel suo “sfiguramento
dolorante”; ma nello stesso tempo icona dell’uomo che
ha speso la vita intera per il Vangelo, cioè per tutti gli
altri uomini, amando fino all’estrema dedizione, perdonando
fin oltre i confini dell’umiltà. Prima di consegnare
la propria vita al Creatore.
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