Molti giovani
al Sud hanno ormai rinunciato a cercare un lavoro, sono usciti
volontariamente dal circuito
produttivo, se mai vi erano entrati.
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Gli occupati aumentano, i disoccupati diminuiscono. Il dato in
sé è positivo. E tuttavia, se c’è una
scuola di pensiero ottimista, che esalta la performance attribuendola
all’efficacia delle nuove norme in materia, ce n’è
un’altra che diffida, e vuole vederci chiaro, sospettando
che qualcosa non torni. In mezzo, c’è l’Istat,
con la fredda sequenza dei suoi numeri, secondo i quali nel terzo
trimestre del 2004 c’è stata un’inversione di
tendenza, protrattasi fino a fine anno, nel settore dell’occupazione,
che in Italia ha superato la cifra di 22,5 milioni, con un centinaio
di migliaia di occupati in più rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente. Si è trattato di posti di lavoro
occupati per la maggior parte da uomini.
Quanto ai disoccupati, l’Istituto di statistica ci informa
che sono stati un milione e 800 mila. Tasso nazionale pari al 7,4
per cento: un dato che è riscontrabile soltanto nei primi
anni Novanta. Infine, i dati di riferimento geografico: al Nord
la disoccupazione è pressoché fisiologica, pari cioè
al 4,1 per cento; al Centro si è attestata al 6 per cento;
ma al Sud è pari a circa il 15 per cento. Siamo informati
anche su aspetti complementari: cresce il lavoro autonomo e quello
in agricoltura, mentre cede, come accade da un po’ di tempo
a questa parte, il settore industriale.
Dati confortanti, si dice; senza tuttavia specificare per chi. Infatti,
se complessivamente la crescita è aumentata del 2 per cento,
nel Nord ha registrato un 15 per cento, e nel Centro un 12 per cento,
mentre nelle regioni meridionali – dove si concentra la maggior
quota di disoccupazione italiana – il crollo è stato
del 25 per cento. Dunque, nel Sud c’è una gran fetta
di popolazione attiva che non va considerata (o non si considera)
più “forza lavoro”, ed è uscita dal mercato.
Per sfiducia? Per malinconica rinuncia, o per vero e proprio sfinimento,
dopo lunga ricerca?
I commenti sono contrastanti. Essendo i più bassi dal 1992,
i dati sono ritenuti da alcuni confortanti, indicano che le riforme
del mercato del lavoro hanno dato risultati. Il titolare del dicastero
dell’Economia è di identico avviso: i dati dimostrerebbero
che le riforme strutturali realizzate stanno ottenendo risultati
lusinghieri. Quello del Welfare e del Lavoro argomenta questa tesi:
negli ultimi tre anni la disoccupazione in Italia è diminuita
costantemente, nonostante una situazione economica internazionale
molto negativa; l’Esecutivo ha avuto il merito di riformare
il mercato del lavoro dando vita a una legge che già da oggi
dimostra tutta la sua validità; questa nuova attitudine del
mercato del lavoro a recepire i pur timidi segnali dell’economia
va ora incoraggiata con la decisa applicazione della Legge Biagi,
sebbene molti contratti siano utilizzati per ridurne la portata
e alcune Regioni siano intenzionate a varare leggi che intendono
in parte contrastarla.

Di tutt’altro avviso chi la vede in modo differente: il tasso
di disoccupazione scende perché cala in modo impressionante
il numero di chi cerca attivamente il lavoro; questo, al netto dei
possibili effetti dei nuovi criteri di rilevazione dell’Istat,
segnala un grave scoraggiamento delle fasce più deboli della
popolazione, in modo particolare del Sud e sul versante delle donne;
se letti bene, i dati sulla forza-lavoro si intrecciano con quelli
di una crisi economica industriale che mantiene l’occupazione
ripartendola diversamente e pagandola meno, e proiettando comunque
sul futuro una sensazione di sfiducia. In altri termini: il calo
della disoccupazione non sarebbe di per sé un segnale sufficiente
per trarre indicazioni confortanti; e oltre tutto, non sarebbe neanche
vero che diminuisce il tasso di disoccupazione, è vero piuttosto
che aumenta il tasso di sfiducia soprattutto di donne e di giovani,
in particolar modo meridionali, nella possibilità di trovare
un lavoro che, dunque, non viene più neanche cercato. Suggella
l’Isae, l’Istituto di analisi economica del governo,
con un parere tecnico e critico: i dati diffusi dall’Istat
disegnano un quadro di frenata di crescita occupazionale.
Breve esplorazione nel corpo vivo della società meridionale,
quella più penalizzata nel Paese. Si può cominciare
da una Sabrina, baby sitter in casa di cinesi, a Campobasso, i nuovi
ricchi dell’area, troppo impegnati a mandare avanti la loro
piccola fabbrica di abbigliamento per potersi occupare dei propri
bambini. O da Diego, che trascorre le giornate dietro il banchetto
(e dentro il monolocale-bottega) di San Gregorio Armeno, a Napoli,
a vendere i celebri pupi napoletani per il presepio. O da Mariella,
che ha tirato i remi in barca e campa sulle spalle dei nonni leccesi,
che hanno una discreta pensione, per i quali cucina, fa le pulizie
in casa, e in cambio riceve quanto le basta per vivere. O da Carmelo,
laureato in Scienze politiche, decine di concorsi alle spalle, giardiniere
per forza di cose... E si potrebbe proseguire all’infinito.
Minimo comun denominatore delle loro storie, un profondo scoramento,
la rinuncia ormai radicata a trovare un posto di lavoro vero, di
quelli che abbasserebbero realmente i livelli indicati dalle cifre
dell’Istat, riguardanti l’Italia e il suo Mezzogiorno.

Spiega il professor Domenico De Masi, sociologo del lavoro: il
fatto è che quei numeri sono drogati, e dimostrano ancora
una volta, se mai ve ne fosse bisogno, l’allargamento della
forbice fra le statistiche e la realtà. Per due motivi: primo,
il tasso di disoccupazione sembra più basso che nel passato
perché, come si fa negli Stati Uniti, nell’elaborazione
dei dati si fanno rientrare anche le attività più
precarie, infime, di cui i giovani devono accontentarsi; possiamo
dire, insomma, che ci stiamo americanizzando anche sotto questo
aspetto. E secondo motivo: molti giovani al Sud hanno ormai rinunciato
a cercare un lavoro; sono usciti volontariamente dal circuito produttivo,
se mai vi erano entrati. Bisogna essere sinceri: come si può
credere seriamente che un ventenne pensi al suo futuro in termini
positivi se abita in territori spesso lasciati a se stessi, privi
di infrastrutture portanti, tiranneggiati dalle mafie, abbandonati
dagli investitori, con forza endogena scoraggiata da burocrazie
sovrapposte e da fiscalità esose?
Marcella di Foggia un lavoro autentico lo ha cercato a lungo e a
lungo lo ha sognato. La sua storia è identica a quella dei
giovani che si sono inoltrati e infine persi nella giungla dei contratti
interinali, atipici o parasubordinati. Come Giovanni di Matera,
ex co.co.co., che per due anni, in realtà, ha svolto lavoro
nero senza limiti di orario per un compenso che non superava i seicento
euro al mese. O come Luciana di Catanzaro, che non ha un titolo
di studio, in un mondo nel quale il titolo di studio è svalutato,
ma te lo chiedono anche per fare il netturbino: aveva cominciato
nel solito call center, contratto a termine, dieci ore di fatica
al giorno, nessuna garanzia sul futuro, niente ferie, niente assistenza
sanitaria, insomma lavoro nero, cessato dopo cinque mesi, al termine
dei quali l’hanno buttata fuori, e ora spera di sposare qualcuno
che un lavoro vero ce l’abbia («l’amore verrà
poi»), che le dia un po’ di sicurezza.
De Masi è pessimista: «Ci sarebbero due possibilità
per dare un futuro ai giovani meridionali: l’emigrazione e
la riduzione dell’orario di lavoro nelle aziende. La prima
sarebbe un autentico disastro per lo sviluppo delle regioni meridionali.
La seconda è impraticabile per la folle politica delle imprese
che, contrariamente a quanto dovrebbero fare, l’orario di
lavoro tendono ad allungarlo». Ecco: abbiamo cercato tutto
questo, risvolti umani compresi, ed esplorazioni antropologiche
incluse, fra le statistiche. Non abbiamo trovato nulla. Non solo
fra le statistiche, dove probabilmente dati del genere non rientrano,
o è difficile rilevarli; ma soprattutto nei commenti ai dati.
Quando si tratta del Sud, si secca l’inchiostro nelle penne
dei corsivisti, si inaridisce la vena, per altri versi persino varicosa,
dei rubrichisti. Niente di nuovo sotto il sole.
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