Non c’è un solo italiano che sia soddisfatto di come,
da sempre, vanno le cose nel suo Paese. Ma chiunque manifesti
l’intenzione di cambiarle, finisce impallinato come lestofante.
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Fra le aberrazioni della nostra cultura collettivista e dirigista
c’è la convinzione che diritti soggettivi naturali
(alla vita, alla libertà, alla proprietà) e diritti
sociali (alla copertura pubblica dei bisogni collettivi, quali la
scuola, la sanità, le pensioni) siano incompatibili e che,
per tutelare i diritti sociali, sia necessario limitare i diritti
soggettivi. Di qui la subordinazione di questi ultimi all’utilità
sociale, all’interesse collettivo, al bene
comune e quant’altro. La convinzione ha prodotto una
triplice distorsione, al tempo stesso concettuale e politica.
Prima: l’identificazione/assimilazione fra idea di benessere
e idea di libertà; quest’ultima non dipenderebbe dall’assenza
di impedimento e di coercizione, ma dal possesso di determinate
risorse. Seconda: il conseguente snaturamento del concetto di welfare;
che assume, di conseguenza, il carattere di pre-condizione della
libertà “sostanziale” (economica e sociale prima
che politica) rispetto a quella “formale” (costituzionale)
liberale. Terza: l’attribuzione al sistema fiscale di una
funzione sociale, egualitaristica, attraverso l’equa “redistribuzione”
della ricchezza prodotta.
In realtà, più benessere non genera più libertà.
Chi dorme al Grand Hotel non è più libero di chi dorme
sotto i ponti. E’ pur vero che un detto “progressista”
dice che la sola libertà che hanno i meno abbienti è
proprio quella di dormire sotto i ponti. Ma, a ben vedere, la stessa
libertà ce l’hanno anche i più abbienti, quelli
che dormono al Grand Hotel. La sola differenza fra i due è
che questi ultimi dormono più confortevolmente; non che godono
di una maggiore libertà. Il problema di una società
“aperta” e competitiva è, allora, di fare in
modo che tutti possano dormire in un letto, non che tutti dormano
al Grand Hotel o tutti sotto i ponti, secondo una concezione utopisticamente
egualitaristica e illiberale della convivenza civile.

Il welfare non è, dunque, un valore assoluto, come
la libertà, né il presupposto di una libertà
superiore, quale sarebbe quella “sostanziale”, ma è
un “servizio” o, se si preferisce, uno “strumento”,
di natura economico-sociale, col quale combattere puramente e semplicemente
la povertà. L’accezione di “sociale”, peraltro,
può assumere, nel tempo, connotazioni nuove e diverse. «All’idea
che il “sociale” corrisponda alla copertura pubblica
dei bisogni collettivi – ha scritto Giuseppe De Rita –
comincia infatti a contrapporsi una seconda idea, per cui il sociale
starebbe nell’accesso popolare a beni e servizi resi meno
costosi dal mercato e dalla concorrenza».
In tale contesto, poiché la sola funzione del sistema fiscale
è il reperimento delle risorse necessarie a coprire il fabbisogno
di beni collettivi – oltre tutto in continua evoluzione nel
tempo –, è la spesa pubblica che dovrebbe essere rapportata
agli introiti, non sono questi che dovrebbero inseguire quella,
come accade ora. Con le pessime conseguenze sul bilancio dello Stato,
che sono sotto gli occhi di tutti. La riduzione della pressione
fiscale, che oggi è percepita, e perciò ostacolata
dalle rappresentanze dei lavoratori come un pericolo di ridimensionamento
del welfare, diventa, così, a sua volta, prima ancora che
un provvedimento di carattere economico, un “fatto di libertà”.
La libertà del cittadino di disporre a proprio piacimento
di una porzione maggiore del proprio reddito; reddito che lo Stato
amministra oggi a propria discrezione e non sempre in modo oculato.
Ci sono parole che, da noi, il tempo, nonché l’uso
improprio che se ne è sistematicamente fatto, hanno logorato
fino al punto di stravolgerne del tutto il significato originario.
Una di queste parole è “dialogo”, che, nel lessico
della classe politica, non è più disponibilità
a conoscere le ragioni del prossimo, ma è diventata (quasi)
sinonimo di appeasement, cioè inclinazione, per
quieto vivere, a fare concessioni all’aggressore. Un’altra
è “confronto”, cui la nostra classe politica
ricorre per rifiutare, e surrogare, il conflitto sociale, negando
che esso sia pur sempre la forza propulsiva di ogni società
aperta. In nessun’altra lingua c’è la parola
“liberismo”, che in italiano serve ancora per distinguere
il liberalismo economico dal liberalismo politico, come se le libertà
economiche non fossero una delle componenti di quelle politiche.
Ma quando la sua classe dirigente, politica e no, cerca di esorcizzare,
negandola, la realtà, sostituendo il significato originario
delle parole con una sorta di “neo-lingua di legno”,
rifugiandosi nel culto del passato e nella difesa dello statu
quo, un Paese è destinato a declinare e, quel che è
peggio, rischia di declinare in modo irreversibile. E’ esattamente
ciò che sta accadendo all’Italia.
Abbiamo una classe dirigente che, a tutti i livelli, “pensa
vecchio”, perché concettualmente è prigioniera
di una cultura che si chiede (filosoficamente) “perché”
le cose avvengano, e non “come” (empiricamente) avvengano;
una cultura, cioè, che giudica prima di “capire”,
fatta per filosofeggiare anziché “per fare”.
A differenza degli anglosassoni, noi continuiamo a guardare al mondo
“per categorie ideologiche” (giustizia, eguaglianza,
sviluppo), mutuate dal secolo dell’idealismo trionfante, dei
totalitarismi di destra e di sinistra che abbiamo combattuto e ripudiato,
conservandone però, singolarmente, il lessico. Loro, gli
anglosassoni, non hanno mai smesso di guardare al mondo “per
problemi concreti” (issues) ai quali conferiscono
priorità politica a seconda delle circostanze. Così,
noi, dopo non aver capito, ieri, che il comunismo era una religione
truccata da programma politico, non capiamo, oggi, che il fondamentalismo
e l’integralismo islamici sono un programma politico truccato
da religione.

Per inventare il moderno welfare – con Beveridge, un liberale!
– la Gran Bretagna non ha avuto bisogno, come invece abbiamo
fatto noi, di stravolgere le libertà “negative”
del liberalismo (libertà da, come non impedimento), vincolandole
e subordinandole alle libertà “positive” della
democrazia (libertà di, come opportunità). Semplicemente
non ha confuso, bensì li ha tenuti correttamente separati,
il concetto di libertà con quello di benessere. L’incapacità
di operare una reale inversione di tendenza in politica interna;
la passiva subordinazione agli interessi altrui in politica estera;
il rifiuto di aggiornare alle domande del nuovo secolo appena incominciato
– il secolo dell’individuo, del mercato, dell’internazionalizzazione
e della globalizzazione dell’economia – le istituzioni
e l’organizzazione sociale; il mantenimento di un sistema
economico statalista e protezionista sono, al contrario, la prova
del ritardo culturale, prima ancora che politico, della nostra classe
dirigente nel camminare con i tempi.
D’altronde, all’inerzia della classe politica fa riscontro
la pressoché assoluta assenza di capacità di elaborazione
teorica da parte del mondo intellettuale. Che rimane la “musa
cortigiana” del Principe, di cui canta i molti vizi più
volentieri di quanto non coltivi le poche virtù. Nessuno,
così, sembra in grado di produrre un modello di organizzazione
che garantisca al tempo stesso le libertà individuali e la
crescita economica.
Non c’è un solo italiano che sia soddisfatto di come,
da sempre, vanno le cose nel suo Paese. Ma chiunque manifesti l’intenzione
di cambiarle, o sia anche solo sospettabile di riformismo e di avere
le potenzialità di governo per farlo, finisce impallinato
come lestofante. E’ capitato prima a Craxi, poi a Berlusconi,
persino a D’Alema. Cari concittadini schizofrenici che, da
un lato, vi lamentate e, dall’altro, sparate sul riformista
di turno, vero o virtuale che sia, vi siete mai chiesti perché?
E, soprattutto, perché provarsi a cambiare realmente le cose,
prospettare teoricamente di volerle cambiare, dare semplicemente
la sensazione di esservi propensi è sufficiente a suscitare
la stessa, belluina reazione? Una prima risposta, che attiene alla
sfera degli interessi, l’ha già data Machiavelli cinquecento
anni fa: «Niente è più difficile da maneggiare,
meno probabile dall’avere successo, o più pericoloso
da gestire, che proporsi come chi vuole realizzare un nuovo ordine.
Quelli che traevano beneficio dal vecchio ordine gli sono nemici
e quelli che potranno godere dei benefici del nuovo gli sono tiepidi
difensori».
A integrazione della risposta di Machiavelli, una seconda risposta,
che attiene alla sfera delle convinzioni, ve la do ora io: perché
la cultura del cambiamento, che è, poi, quella dell’alternanza
democratica al potere, vi è estranea. Voi non siete riformisti
perché non siete democratici. E non lo siete perché
la cultura dominante è tuttora condizionata dall’assunto,
che sta alla base dello Stato etico (e reazionario), secondo il
quale «ciò che è reale è razionale».
Insomma: che piaccia o no, una “coda” del passato resta
nell’inconscio collettivo.
C’è – ho scritto in un editoriale sul Corriere
della Sera – una forma di egemonia di cui nessuno parla,
ma che mortifica il cittadino e rallenta la modernizzazione del
Paese. A sessant’anni dalla caduta del fascismo – e
a quindici dalla crisi del comunismo internazionale – la cultura
politica dominante, la natura dell’Ordinamento giuridico,
la struttura socio-economica sono ancora collettiviste, stataliste,
dirigiste, corporative: in una parola, illiberali. L’Italia
conserva dell’autoritarismo fascista e del totalitarismo comunista
il pregiudizio ideologico e le chiusure socio-politiche e socio-economiche
nei confronti dei diritti soggettivi naturali della Persona. L’innesto,
nell’immediato dopoguerra, della cultura collettivista marxista
sul tronco corporativo fascista ha addirittura peggiorato le cose.
I due estremi si sono incontrati in una concezione organicistica
della società.
L’Ordinamento giuridico non si fonda sull’individuo,
bensì su un’astrazione collettiva, “il lavoro”
(art. 1 della Costituzione). Esso riconosce i diritti dell’uomo,
ma gli chiede anche «l’adempimento dei doveri inderogabili
di solidarietà politica, economica e sociale» (art.
2). Il “diritto al lavoro” si accompagna al «dovere
di svolgere […] un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società”
(art. 4) ed è vincolato a «un esame di Stato […]
per l’abilitazione all’esercizio professionale»
(art. 33). Persino «la libertà di emigrazione»
è subordinata all’«interesse generale»
(art. 35). «L’iniziativa economica privata è
libera», ma «non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale» (art. 41), così come
«la proprietà privata e riconosciuta e garantita dalla
legge, che […] ne determina i limiti allo scopo di assicurarne
la funzione sociale» (art. 42).

Poiché è chi detiene il potere costituito a stabilire
cosa siano «il progresso della società», «l’interesse
generale», «l’utilità e la funzione sociale»,
non è difficile coglierne le potenzialità illiberali.
Al pari dell’ “edificazione del socialismo” in
Unione Sovietica e della “gloria della nazione” nell’Italia
fascista, sono un limite che il potere pone all’esercizio
delle libertà individuali. Gli Ordini professionali ne sono
la proiezione socio-economica. Il frutto avvelenato dell’incestuosa
alleanza fra società politica e società civile, entrambe
ostili al mercato. Mandati in soffitta Karl Marx e Giovanni Gentile,
i post-marxisti e i post-gentiliani si sono limitati a sostituire
il comunismo e il fascismo con una sorta di neo-comunitarismo; il
quale altro non è che la versione edulcorata, ma ugualmente
anti-individualista, di entrambi.
Anche quel po’ di liberalismo che è riuscito ad aprirsi
un varco nell’egemonia autoritaria e totalitaria – quello
tradotto dal tedesco da Benedetto Croce – è anti-individualista,
permeato com’è di hegelismo. Per Croce lo Stato non
è il garante dei diritti individuali (compresa la proprietà),
ma la sede di valori etico-politici che trascendono storicamente
l’individuo.
«Nell’indifferenza crociana verso le istituzioni politiche
entro le quali si sarebbe realizzata la libertà, e nell’affidarla
a un processo storico – la “religione della libertà”
– si assiste così ad un’altra singolare estraneazione
dalla tradizione liberale la quale, al contrario, ha da sempre posto
l’attenzione sulle istituzioni intese come garanzie delle
libertà individuali» (R. Cubeddu). Così, la
Costituente, monopolio di marxisti, gentiliani, crociani, ha prodotto,
ieri, la Costituzione che continuiamo anacronisticamente a celebrare,
e alla cui riforma si oppongono, oggi, i post-marxisti e i post-gentiliani.
Accomunati nella teologica (e teleologica) avversione per il liberalismo.
Scrive il presidente del Senato, Marcello Pera: «Una bella
Costituzione democratica che fosse scritta da chi pretendesse di
sapere che cos’è la virtù per ogni cittadino
o gruppo o classe, di conoscere qual è il bene per ciascuno,
di insegnare come ciascuno deve essere felice, di comprendere e
prevedere qual è l’assetto sociale ottimo o migliore,
di stabilire la “giusta” ricompensa, il “giusto”
salario, il “giusto” canone, insomma, una Costituzione
che stabilisse che cosa è la giustizia nella società,
resterebbe una Costituzione perniciosa, anche se democratica e scritta
da democratici».
La funzione della politica è, per il presidente del Senato,
come per Hume e Kant, conseguente: «Se l’ordine nasce
da sé, se la bellezza si produce da sola, allora il politico
non deve più, alla maniera di Platone, contemplare e poi
attuare un ordine preesistente. Piuttosto, il politico deve facilitare
l’emergere di un ordine spontaneo, impedendo quelle indebite
interferenze che ostacolano la libertà degli individui e
l’evoluzione spontanea della società civile».
Che non significa, peraltro, arrendersi al relativismo culturale
oggi di moda: «Poiché, si argomenta, le verità
ultime sono irraggiungibili, allora – scrive ancora
Pera – la verità non esiste; poiché i valori
non sono razionalmente giustificabili, allora sono solo
costumi con nessun’altra dignità se non quella della
loro accettazione provvisoria, poiché un criterio unico o
un tribunale unico di fronte al quale portare tutte le culture,
misurarle e valutarle non è raggiungibile, allora
ogni cultura è buona quanto qualunque altra». Ma in
tal modo, egli conclude sotto il profilo politico, «non si
hanno più armi culturali e politiche per difenderci quando
un’altra cultura o un’altra civiltà definita
equipollente dovesse attaccare la nostra».
Giuseppe Galasso mi ha rimproverato di non aver ricordato il contributo
cattolico alla stesura della Costituzione. Galasso ha ragione di
rammaricarsi per la mancata citazione; sbaglia a parlare di contributo
“positivo” dei cattolici. A fare da collante fra il
corporativismo fascista e il collettivismo marxista in funzione
anti-individualista non furono i cattolici liberali, bensì
i “professorini” catto-comunistoidi – Dossetti,
La Pira, Moro, Fanfani e altri – per i quali la libertà
non era un fine, ma un mezzo (Dossetti), e la solidarietà
non uno «spontaneo moto dell’animo», ma un obbligo
di legge (La Pira). De Gasperi lasciò correre. Da un lato,
nella convinzione che gentiliani, marxisti e catto-comunisti si
sarebbero impiccati con la loro stessa corda, producendo una Costituzione
non “per governare”, bensì per “impedire
di governare” a chiunque avesse poi vinto le elezioni (che
il leader democristiano non era sicuro di vincere). Dall’altro,
preoccupandosi di cacciare, soprattutto, i comunisti dal governo.
Fu, dunque, “la forza delle cose” – l’inserimento
dell’Italia nel campo occidentale e la conventio ad escludendum
nei confronti del PCI– a favorire quel progresso economico
e civile di cui parla Galasso. Non la Costituzione, ai cui effetti
“paralizzanti” lo stesso De Gasperi, scongiurato il
pericolo comunista, avrebbe, poi, cercato invano di porre rimedio
con la proposta di legge maggioritaria del 1953.
Già Arturo Carlo Jemolo, un grande cattolico liberale che
dichiarava di preferire lo Statuto albertino perché più
serio, scriveva: «Questa verbosità della Costituzione,
questo frequente ricorso a formule vaghe […] riverberano su
tutta la Carta una nota di indeterminatezza, di pressappochismo
che non giova» e – aggiungeva – «nulla hanno
di giuridico». A porre limiti alla proprietà privata
e all’iniziativa economica bastano, empiricamente, le leggi
ordinarie, le quali condannano chi, sulla sua proprietà,
inquini l’ambiente o chi, con i prodotti della sua azienda,
avveleni il suo prossimo.
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