Cominciai a
narrargli vecchie storie di folletti
e di sirene marine che ci aspettavano sugli arenili di Gallipoli
per
danzare la
pizzica-pizzica, oppure a
volteggiare su e giù sui cornicioni della chiesa
di santAgata.
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Ernesto scrisse anche di aver avuto «cura di non dire la
verità vera», cioè che il Tibet era magico e
che (avrebbe) vissuto lesperienza delluomo tantrico:
«Finalmente, dopo battaglie burocratiche con il Partito Comunista
Tibetano, il Public Security Bureau e il Foreign Affairs Office,
(Ernesto Barba fu) autorizzato a frequentare sia i corsi del Collegio
Tantrico che la biblioteca di Sera, luniversità-monastica
La logica buddista non (lo) elettrizzò, i 108 volumi del
Kanjur e 225 trattati del Tanjur troppo da specialisti, da buon
Dharma-bum (cercò) di mettere in pratica la frase dAlan
Watts: Ogni religione è una tecnica per mettersi in
contatto con lInvisibile. Così prese la consacrazione
di Yamantaka per essere pronto al confronto cogli Archetipi. (Lo)
aveva traumatizzato un verso di Borges che, rivolgendosi a Heine,
(gli aveva chiesto): Tu che hai cantato usignoli e pleniluni
che starai facendo ora, faccia a faccia con gli Archetipi?».

Ernesto fece poi unaffermazione importantissima per un europeo
che andava sperimentando lHimalaya. Che è questa: «Rubai
come un volgare Gasparone da strada maestra quante più mantra
mi fosse possibile. (Perché nel Tibet solo il brigantaggio
spirituale ti fa progredire. Non cè assistenzialismo
a livello sottile). Poi, quando ne (ebbe) raccolte un pacchetto,
da quelle a sei sillabe a quelle segretissime di cento
(una persino di cento e otto) (si) accorse daver fatto un
lavoro di robi-vecchi pulisci cantine perché, come Dada Vishevarananda
(gli aveva detto), e lui di mantra sì che se ne intendeva:
«Le Mantra del Mahayana sono completamente inutili e non possono
applicarsi alla Kalì Yuga. Dopo tremila anni dalla nascita
di Sakyamuni le Chakra hanno subito involuzioni tali che cè
bisogno daltre mantra più forti, più dirette,
vive per farti diventare vivente», e così mise in crisi
tutto un sistema. (Ernesto), comunque, riuscì ugualmente
a (farsi) dare liniziazione di Tara, e qui se non altro, forse,
(fece) qualche passo avanti. (Entrò) in un paio di Mandala;
come Figlio del Sole (gli) fu facile trovare il passaggio dalla
porta dellEst (che poi è a Sud). Gli unici testi sui
quali veramente (si) applicò (Nagarjuna troppo moderato,
Shantideva troppo beghino), oltre naturalmente al Bardo, furono
Le invocazioni del nome di Manjusri, perché così volle
il (suo) Geshè, il (suo) maestro (era lincarnazione
di Shewei, il discepolo favorito di Milarepa. Perfino Paris-Match
lo conferma, come fai a dirgli di no?), i Tara-Tara del Primo Dalai
Lama (il più bel libro letto nellanno 1991... e Le
Visioni del Grande Quinto. Queste fecero addirittura impazzire (Ernesto),
erano il (suo) trip giusto, (lo) riportarono alle passioni della
(sua) gioventù beatnik, quando sbarcato la prima volta a
San Francisco, aspettando Miss Chinatown 1962, che era lhostess
della Pan Am e quindi sempre in ritardo, in un caffè di North
Beach, mentre un folk-singer cantava: I cannot stopo to wonder /
where Im bound / where Im bound, (lesse) per la prima
volta Timothy Leary, (che) (lo ebbe qualche anno dopo come ospite
in una residenza-forzata nellalbergo dove lavorava a Kabul...).
Le Visioni del Quinto Dalai Lama hanno, secondo gli esegeti, sette
livelli di letture. (Ernesto fu) capace, come un surfer aggarra
londa buona, di aggarrarne solo tre e in questo (fu) aiutato
dai commentari del Sesto Dalai Lama. Così lo conobbe... A
Lhasa. (Egli) venne preso per mano (da) Tsangyang Gyatso, il Sesto
Dalai Lama. Il Signore che fa? Ruota. Che siano nei tarocchi o nei
cicli temporali le ruote girano e cambiano livelli anche se la materia
è statica. Lhasa ha cambiato di livello. Il Potala, il Palazzo
di Cherensig il Buddha patrono del TIbet, la fortezza imperiale
dei Dalai Lama, che Tsangyan Gyatso bambino modellava con la creta
dicendo «Questo è mio», è ora un bene
culturale della Repubblica Popolare Cinese. Senza più il
Genius Loci, il Potala serve solo a fare da sfondo alle foto ricordo
e a dividere, messo così a fermacarte, i nuovi quartieri
cinesi della città vecchia tibetana. Ma tuttintorno
al Potala, in quello che era il quartiere di Zhol, nel parco del
Lhukang, così decadente e fatiscente, nel Lhinkor il percorso
rituale che i pellegrini fanno prostrandosi ogni due metri. Lui
è presente, anche se le ruote girano. Alto, bello, con un
mantello allo stile del Buthan, conoscitore di segreti tantrici
e di femmine, arciere, cavaliere, poeta da taverna, re degli amici,
giocatore di dadi, suonatore di flauto, astrologo, dissoluto, patriota,
martire ideologico, ballerino, tiratore di coltello, monaco sfratato,
principe ereditario, asceta, pellegrino, innamorato pazzo, prigioniero
politico, sciamano e dottore mirabilissimo in Scienze Sacre.

Oltre che essere la reincarnazione ufficiale, omologata di Cherensig,
lAvalokiteshvara sanscrito, il gran Bodhisattva della Compassione
con tutti i 32 segni nel corpo attestanti la ierofania della sua
essenza divina.
Inclusa lassenza di prepuzio. Personaggio indubbiamente affascinante
per la galleria, ma che per (Ernesto) è semplicemente conturbante,
quintessenza così comè di tutte le propensità-propensioni
(in sanskrito: Samskara) che Karmicamente condizionano (lo stesso
Ernesto), fino al giorno che il Guru vorrà (liberarlo) con
la sua Grazia. Grande maestro il Sesto Dalai Lama, morto giovane
o forse mai morto (chi ha sei tombe vuol dire che ne ha ancora una
di vita vivente. il che (fa venire in mente ad Ernesto) di dire:
Bella mia, se ti dicono chio sono morto, assolutamente
non crederci e continua ad aspettare al Cafè India...
E quando la domenica (Ernesto) andava al tempio del Lhukang, accoccolato
in mezzo ai bambini ad imparare come loro a fare lAbc tibetano
sulla plancia di legno che serve da lavagnetta e cercava di flirtacchiare
con le (loro) mamme più carine, non si sa mai, (gli) sembrava
dessere a casa dun amico emigrato (Quello non scrive
mai. Chissà dove sarà ora: in Svizzera? In California?).
Lì nel tempio-pagoda che lui volle costruito per usarlo come
alcova giù nel laghetto le melodie delle melusine
allultimo piano la sala coi disegni tantrici là
dove misurava, come su un pallottoliere prezioso e magico, carezzando
le dolcitudini della carne (ah la pelle segreta delle tibetane da
confettarti le dita), leternità di spazi che incorre
tra una galassia e laltra. Poi venne lestate e arrivarono
i turisti...
Unaltra volta (Ernesto) portò una vip bionda addirittura
al Lhukang (guarda comera vip perché lui odiava contaminare
la Tibetaneria con il banale della nostra borghesia) per raccontarle
son et lumiere tutto il cunto. Ma qui la memoria (ad
Ernesto) diventa confusa... e non ricorda più se portasse
il montgomery come quel pomeriggio che alla città universitaria,
mentre lei (gli) diceva una poesia di Pavese... le (rubò),
facendo finta di niente, il primo bacio.
Allora, siccome la storia del Sesto Dalai Lama e le poesie di Tsangyang
Gyatso sembrano avere tanto successo e siccome le conoscono solo
gli addetti ai lavori (Supponenti e baroni. Alla larga!) (Ernesto)
pensò di presentarle nel (suo) italiano ditaliano allestero
e portarle in regalo di Natale, Souvenir du Tibet, agli amici, a
quelli rossi veraci (oltre naturalmente alla Vip bionda), proprio
(in quel momento in cui) stava per tornare a casa e incontrarli
di nuovo (la gioia... che un uomo senza amici è una fiala
damaro)».
Sul finire dellanno 1992, Ernesto Barba fece definitivamente
la scelta di abbandonare il Tibet. Un po rammaricato, mi scrisse:
«Addio Lhasa bella mia, sempre sorridente come una tigretta
conosciuta nelle balere-disco dietro lo Shambala Restaurant, piene
di ufficialesse dellEsercito Popolare ed agenti della polizia
segreta. Addio Lhasa, sventola le tue bandiere dorazione,
gira i tuoi mulini di preghiera, io emigro in patria. Un bacio e
addio Lhasa anche se tu non baci mai proprio come una Kampa incoronata
di turchesi nelle sue centotto treccine. Addio Lhasa, anzi come
abbiamo imparato a dire qui, con laccento tonico sbagliato,
Ka-li-sho».
Ernesto ripartì «senza aver potuto incontrare... il
Sesto Dalai Lama, ma non fa niente, (stava) scritto (che doveva
andare così). Un giorno, lo (sa), lo incontrerà. Lo
incontrerà là dove i meridiani e i paralleli della
(sua) vita si legano a doppio nodo damore: sugli spalti di
Saint-Malo, a Buyukl Ada, sul tardi quando Istanbul comincia a luccicare
lontana, a Rue Jacob verso settembre a Parigi, nella lobby del Peninsula
a Hong Kong, dalle parti (nostre) a Sud di Lecce nel Salento griko,
al City Lights di San Francisco una sera piena di foschia,
in una spiaggia naturista di Sylt, sulla strada di Compostella,
in una libreria antiquaria della Kanda a Tokyo, a Bombay allisolotto
dHaji Joseph a bassa marea, in una taverna di Costanza piena
di zingari borsari neri contrabbandieri riffi-raffe zigano e marinai
greci turchi slavoni, che cantano ciocchi in lingua loro, dinverno
inverno nella pineta dEraclea Minoa, sulla Koeningsallee a
Dusseldorf, a Shimandin passata la ferrovia Tamsui-Taipei dove i
templi sincretisti stanno affianco i love-hotel e le saune clandestine,
al caffè Tomaselli di Salisburgo, sul ponte delle scimmie
a Rishi-kash, nella vecchia sinagoga del Cairo, in un museo di Monaco
passato lIsar, nel bar dellHotel des Indes, allAja,
in un ristorante libanese molto elegante (la scelta dei dessert
duna dissolutezza da harem), sul battello Okinawa-Kagoshima
mentre coquettes le isole fanno lo struscio, a Mohejandaro una sera
di plenilunio, da qualche parte nei Pirenei tra Biarritz e Luchon,
al cimitero degli yogi del Monte Kailash (Ernesto lasciò
lì per pegno la sua bandana di vecchio hippy),
al Cafè de las Chinitas (non importa se a Madrid o Malaga),
a Tananarive alta dietro la chiesa anglicana dove nessuno ci va
perché pieno di fantasmi, a Freaks Street a Katmandu, alle
sorgenti del Ciane, al raduno degli ex-allievi nel cortile piccolo
della Nunziatella, nel parco di Sauvabelin a Losanna, a un diner
chez Madame de Brosses. Ma forse niente di tutto questo. (Ernesto)
incontrerà (il suo Sesto Dalai Lama) in un posto che ancora
non (conosce), nascosto nei vicoli del (suo) Karma. (Ernesto) non
(sa) dove, se solo o con Lei, (sa) solo che lincontrerà.
Come tanti anni fa, (incontrò) lOlandese Volante in
una bottega ad Amsterdam, il Mahdi in un bazar di Kabul e nel 77,
in una prigione di Patna (Bihar) (incontrò) il Guru».

A caso, scelgo i versi del Sesto Dalai Lama tradotti da Ernesto,
ma so già che questi sono i più belli, sono i versi
che piacevano a lui Marra-Barba, sfortunato/disperato giocoliere
di nuvole dorate; che piacevano al mio amico Antonio Verri, anche
lui sfortunato/disperato e abbattuto sullantica via Malemnia
Lecce-Cavallino da una vecchia civetta malridotta eppure cornuta;
che piacciono pure a me, sfortunato/disperato vecchio rimbambito
giocatore attarantato che finge di non vedere la gatta sorniona
che aspetta sul davanzale di sopra. Ernesto Barba dunque traduttore.
Traduttore di cose divine (Verri avrebbe poi precisato: di-vini).
Ecco il testo:
«Profumava dolce dolce la bella che incontrammo in viaggio.
Un turchese bianco senza valore, che trovammo e poi gettammo. /
I pensieri trascinati lontano, le notti così senza sonno.
Senza lei, la fatica e la pena e i giorni senza ritorno. / Passata
la stagione dei fiori e lape turchese è serena. Il
nostro amore è passato ma nessuna tristezza mi aspetta. /
Innamorato del lago il cigno voleva restare. Ma quando il ghiaccio
venne a lui non restò che volare. / Continua la polena del
traghetto a guardare indietro il guado. La bella mia ingratitudine
dispetto neanche mi dà uno sguardo. / Parole damore
in inchiostro blu, distrutte da una goccia di pioggia. Ma anche
non scritto lamore non lo cancelli dalla memoria. / Se la
bella mia abbracciasse la via, la via del Dharma, in montagna mi
ritirerei in giovinezza eremita. / Se avessi vissuto per il Dharma
invece di pensare a quello che penso, fratello io sarei andato oltre
in questa stessa vita già. / Tavernella delle donzelle belle,
denti bianchi e luccichìo lei mi scintillò un sorriso,
lamore in un batter docchio. / Completamente innamorato,
le chiesi Vieni resta da me. Verrei
lei disse solo se la morte ci separerà. / Seguo
i suoi desideri profondi e perdo per sempre la via. Ma se mi allontano
dal mondo spezzo il cuore alla bella mia. / Io povero cacciatore
catturai Yitrog, la Fata dincanti. Venne Norzang, il Signore
dei morti, e me la soffiò via. / Si sono rubata la bella
mia e un altro lha sposata. Pieno di pensieri neri che mhanno
disseccato il corpo. / Bisogna che lei viva in eterno, che lhashish
non sia mai spento. Con lei, mia tana sicura, mi sento felice e
contento. / Ma ha avuto una mamma vera o è nata da un albero
di pesche? Lamore che sembra darti davvero sfiorisce come
un pesco in fiore./ E la bella mia a letto veramente cugina
del lupo? La lupa viene a gozzare la carne e poi allupata alla monta.
/ Mai trottare a cavallo sul lago gelato. Mai svelare un segreto
a un amore appena trovato. / La luna alla sua terza notte è
tutta luce e brillìo. Me lo devi promettere pleniluna ti
voglio io. / Tigri, molossi, leopardi, dài da mangiare e
si quietano. Ma pure saziata la bella mia diventa più feroce,
coi capelli al vento. / Scrivo numeri sulla sabbia e trovo laltezza
delle galassie, carezzo il suo corpo dolcissimo dolce e non so giù
giù nel profondo che sente. / Sa bene il pappagallo parlante
a non dar via il segreto. A Lhasa ce ne sono tante, ma a Chunghay
son tutte belle. / Nevicava forte sul tardi quando andai dallamante
mia. Allalba il segreto è violato, le mie impronte
lì sulla neve. / Quando abito al Potala, al palazzo mi chiamano
Oceano di melodia divina. Quando scendo a Lhasa o a
Shol sono Strappafemmine e Bello Potente. / Le mie impronte
lì sulla neve. Segreti, non segreti, finito. Io a letto con
la bella mia, il cuore di conchiglia bianca e il corpo dolcissimo
dolce. / Ha fatto segno la freccia e la punta si conficcò
nel terreno, quando incontrai la bella mia il mio cuore la seguì
in un baleno. / Quello che la gente dice di me, ahimè è
tutto vero. Il signorino pulito e bello a passi leggeri andò
nella taverna-bordello».
Nellultimo pacco che mi giunse da Lhasa, Ernesto caveva
messo anche una lettera. Dopo alcuni anni, attraverso i suoi scritti,
provenienti dal lontano Tibet, mi sembrò di conoscere e di
vivere quegli altissimi luoghi. In essa cera scritto: «Caro
Maurizio, ho finito con Lhasa e il Tibet. Triste lasciare un posto
così (e con femmine così), ma due anni a meno zero
sono tanti. Resterò un mesetto tra Taipei e Pechino per regolare
degli affari futuri. Penso di tornare in Italia sotto Natale (1992)
perché a gennaio comincio a lavorare per una compagnia italiana
che si occupa di marketing turistico. Sarò di base a Livorno,
ma in pratica sarò sempre in giro. Dopo due anni di sedentario
è bene riprendere, magari per lultima volta, a girare.
Ti mando, con tantissimi auguri e tantissimo affetto, un biglietto
che mi sono divertito a fare specialmente per gli amici (e anche
se non ci vediamo tu sei nei top ten) nel tremendo inverno tibetano,
mentre preparavo il mio master in Storia delle religioni (sono lunico
direttore di hotel al mondo Dottore in Buddismo Tantrico!). Non
ha nessunissima pretesa e spero ti piacerà. Dunque tantissimi
cari auguri, caro Maurizio, e la speranza, prima o poi, di ritrovarci
nel Salento magico».
Dopo questultima lettera, continuai a cercare Ernesto con
ogni mezzo, ma molti dei miei messaggi cominciarono a ritornare
al mittente perché il committente non risultava trovarsi
nei posti indicati.
Una sera, ma forse era già notte, mi vedi Ernesto comparire
a Lecce, scuro di sole come il Malladrone di Gallipoli. Con lui
cera Franco Pisanello, il suo amico dello Sheraton-Nicolaus
di Bari. In fretta, decidemmo di andare a farci una pizza e a quellora
tarda trovammo aperta una pizzeria dalle parti di San Lazzaro. Quella
fu una notte che non finì mai, o meglio cominciò a
finire, allorquando sugli occhi di ognuno di noi non cominciò
a scendere un velo di sonno.
Insistetti molto perché Ernesto col suo amico si fermassero
a Lecce, per avere giusto il tempo di avvisare Antonio Verri e combinare,
per il giorno successivo (ma era già giorno successivo),
una qualsiasi situazione che ci permettesse di stare insieme ancora
un po. Avevo percepito nelle parole (tante tantissime parole
che non finivano mai) di Ernesto uneco lontana di nostalgia,
un perdersi nei flutti di un oceano nuovo che non riuscivo a capire
fino in fondo, una sofferenza ancestrale, un attorcigliamento da
serpente su un tempo e su un corpo ancora giovane e forte che sonnambulisciava
nelle notti misteriose eppure magiche di bassi-bordelli soletani.
Sentii il suo respiro di bambino imbronciato che a tutti
i costi voleva fuggire verso il suo sospirato Pineto (gallipolino),
che per lui non era «una pineta (qualsiasi), (magari) come
quella che sta in fondo dietro lo stabilimento del vino, ma un bosco
grande grande che comincia dalla spiaggia, dal mare e ci sono pure
i canali del rimboschimento contro la malaria», verso quel
suo segreto ritrovo, che anchesso ora stanco e violato se
ne andava morendo dolcemente verso la Punta del Pizzu. Sentii ancora
lo sguardo di Ernesto fissarmi di nascosto e percepii anchio,
sul mio stesso corpo, il dolore tremendo che circondava laura
del mio amico in balìa ora di un oceano in tempesta.
Quella sera, ma forse era già notte, non faceva freddo. Lo
ricordo benissimo. Io ed Ernesto non eravamo a Gallipoli, ma a Lecce,
dalle parti del quartiere Ferrovia. Ricordo bene quei momenti, perché
disperatamente mi aggrappai a lui nel tentativo di fermarlo, distoglierlo
dai pensieri di quella sua tremenda storia atavica degli inizi del
900. Lo ricordo bene, perché cominciai a narrargli
vecchie storie di folletti e di sirene marine che ci aspettavano
sugli arenili di Gallipoli per danzare la pizzica-pizzica, oppure
a volteggiare su e giù sui cornicioni della chiesa di santAgata
nella speranza di fargli intravedere sorrisi ancora possibili, sogni
ancora realizzabili, fughe ancora nella notte, rituali con i fiori.
Lo ricordo ancora bene perché cominciai a sussurrare ad Ernesto
che avevo scoperto sotto le mura di Gallipoli, dalle parti della
Riviera di Ponente, dei nascondigli profondi con allinterno
tesori inestimabili, lasciati lì dai veneziani in fuga nel
1486. Lo ricordo ancora bene, perché feci il tentativo di
distoglierlo dai suoi propositi, raccontandogli che dalle parti
di Badisco, soprattutto nel periodo estivo, sapevo come fare per
raggiungere la tana di una dolcissima femmina bionda, giovane, europea,
dal portamento di vip, che io però sapevo assunto solo per
far arrabbiare le altre femmine, venuta lì apposta per noi.
Lo ricordo ancora bene. Eccome se lo ricordo.
Quella sera, ma forse era già notte, chiaramente una notte
destate, vidi Ernesto allontanarsi con uno sguardo di morte,
lo vidi volare, come un angelo, al di là di Santa Croce,
al di là di San Matteo e pure dei Santi Giacomo e Filippo.
Vidi Ernesto volare al di là di Giurdignano, al di sopra
della Guglia degli Orsini del Balzo di Soleto, e lo vidi volare
anche oltre gli spalti del castello di Carpignano Salentino.
Dalle parti del Camposanto di Gallipoli, lo vidi per un po
indugiare sui marmi di alcune tombe che luccicavano di storia patria.
Poi lo vidi attraversare foreste di luce, luoghi divini, eppure
magici. Volava veloce Ernesto, sulla bianca biga alata nel cielo,
al di sopra dellHimalaya, al di là della Montagna Spaccata.
Volava ma non rideva, Ernesto volava via da un Salento abbagliante,
tanto amato eppure tanto negato. Unultima volta, vidi Ernesto-San
Giuseppe da Copertino volare lontano. Sempre più lontano
e sempre più in alto. Anche Ernesto Barba volava via. Per
sempre.
Ernesto Barba decise allora di farmi perdere definitivamente le
sue tracce. Dopo avermi lasciato un tesoro immenso qual era la sua
poesia (fra cui molti inediti), decise di occultarsi definitivamente
ai miei occhi. Per questo, agli inizi del 1994, allorquando Antonio
Verri se nera già andato via per sempre, cominciai
con dolore e sofferenza a lavorare allintroduzione per una
sua nuova raccolta di liriche, non dimenticando la sua volontà
di firmarlo, lui in vita, solo col suo pseudonimo: Francesco Marra.
Di tanto in tanto mi venne recapitata ancora qualche sua cartolina
e qualche lettera, ma sempre senza lindirizzo del mittente.
I luoghi da cui provenivano queste missive erano sempre più
disparati. Il 28 aprile 1994 ricevetti da lui lultimo bustone,
con tante nuove storie e, sia pure per un attimo, mi sembrò
di sentire una sua nuova gioia di vita. Fra le tante cose cerano
anche questi versi: «Emigrante a Levante // Non mi ha voluto
bene / Non mi vuole bene / Non mi può volere bene / Non mi
vorrà mai bene. // E perché dovrebbe amarmi / la Gran
Madre Mediterranea? / Mai la pregai / Mai la cercai / Devozione,
desiderio mai. // Io volevo la Sciamanna / non la mamma. // Nato
nelle sciabiche dUlisse / senza neanche dirle vado
/ mollai tutto / alla scoperta / dellisola di Ma-Tzu / dellIsola
di Kwa-Yin / dellIsola dei Bodhisattva / sullonde, /
passato Suez, / di Simbdad il Turco. // Ondate alte così
/ Male tempo e tempesta / bonacce in secca. // Poi la trovai / Tara
/ e la ritrovai: Madre, Sciamanna, Korè».
E questi: «Terza età // Maurizio, / camminando a zonzo
/ ho scoperto / dietro il lago Imperiale / il Parco dei Vecchi di
Pechino. // Chi giocava alle carte / chi giocava agli scacchi /
chi suonava la mandola / chi una specie di violino. // Cera
uno che portava / i cardellini a spasso / e un altro invece il nipotino.
/ Unallegria, un chiasso... / Nessuno a pisolare / nessuno
che leggeva un libro, un giornale. / Tutti a fumare / tutti a canticchiare
/ tutti a raccontare storie. / Ti dico io un casino. // Maurizio
/ vecchio mio / guarda che cosa ho imparato in Oriente / guarda
che cosa ho scoperto a Pechino / forse diventare vecchi / è
meglio che essere bambino».
E questi: «Semi-biografia // Quandero giovane / mi feci
fare un tatuaggio / qui a sinistra sul braccio / (per sfida? per
mostra? per segno?) / una rosa rossa / e al centro uncinata / bella
/ la croce swastika. // Che giovinezza vastasa la mia / senza mai
dormire la notte / cosa mai sarò andato cercando / nelle
notti del Mittelleuropa / in bocca alla fame e al freddo? / Vampiri,
streghe, monatti / metropolis piene darchetipi / archetipi
corrotti e sfatti. // Incroci tra diavoli e yaksa a Londra / lOlandese
Volante / nei porti dOlanda e di Fiandra / al Nord e ancora
più al Nord / Walkirie sperdute / femmine col sesso mieloso
/ e coi capelli bianchi. // E in fondo alle notti / giù giù
come un sasso / i bordelli di Napoli, Cadice / Istanbul-Uskudar
e Patrasso. // Ti dico io... / fortuna che gli anni passano / e
io li passai qui in Asia. // Ora / (né sfide né mostra
/ per segno) / lo rifarei lo stesso / il mio tatuaggio: / ma un
loto / non una rosa. // La swastika la lascerei / gli anni passano,
Ernesto / ma io / sempre figlio del sole / io resto».
Ernesto Barba, lamico mio sfortunato /disperato del Pineto
gallipolitano, era morto in una stanza di un albergo a Livorno,
il giorno prima che mi venisse recapitata la sua ultima busta. Era
il 27 aprile 1994, cioè appena un anno dopo che se nera
volato via per sempre anche Antonio Verri.
(3 - Fine. Le precedenti puntate su Apulia
n. II/giugno e III/settembre 2004)
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