Solo uno spiegò in quel tempo ali
daquila, e traeva dietro a sé noi
giovani, e non fu un pensatore, ma un poeta, Giosue Carducci, che,
sorto al confine
di due età, accolse lintimo spirito delluna e
lo
trasfuse e fece
vivere in seno
allaltra.
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«Il poeta della mia giovinezza»: così Benedetto
Croce ricorderà, nel suo lungo studio e grande amore durato
una vita, lautore delle Rime nuove e delle Odi barbare. Aveva
infatti, studentello ginnasial-liceale, cominciato a leggere e a
mandare a memoria non soltanto sue liriche ma anche alcune sulfuree
Confessioni e battaglie e Ceneri e faville, esaltandosi anchegli
nel furore del polemista, più avanti, tra le
conversazioni con i cugini Spaventa e le lezioni di Antonio Labriola.
Sono gli anni della prima ancora acerba incubazione del critico;
ne scrive così, nel Contributo alla critica di me stesso:
«Lessi e rilessi in quel tempo i volumi del De Sanctis e del
Carducci; ma, se dal De Sanctis appresi alcune idee direttive del
giudizio letterario, poco allora mi fermò la sua temperata
e squisita disposizione morale, e più invece mi attrassero
gli atteggiamenti violenti e battaglieri del Carducci». Lentusiasmo
giovanile per il poeta e per il polemista gli impedisce, per ora,
di accostarsi toto corde al maestro irpino, del quale fra qualche
anno sarà editore (1897) e in difesa del quale, con perfetta
cognizione di causa, non arretrerà nello scontro, metodologico
ed estetico, col maestro di Bologna.
E che il giovanissimo Croce, per la sua inclinazione agli
studi, deve più al Carducci che al De Sanctis. Non gli era
sfuggito lappello carducciano ai «giovani volenterosi»
del 1874: «Entrate nelle biblioteche e negli archivi dItalia;
sentirete come quellaria e quella solitudine siano sane e
piene di visioni da quanto laria e lorror sacro delle
foreste»; e il Croce: «E noi entravamo palpitanti in
quei vecchi depositi di carte, in quegli antichi palazzi principeschi
o ex-conventi tappezzati di libri, di codici e di filze» 3.
Non meno gli risuonavano nella mente e nel cuore le parole che il
Carducci rivolse ai suoi scolari, in occasione del primo giubileo
del suo magistero, nel 1896: «Della parte della mia vita spesa
con voi non ho da pentirmi, non ho da farmi rimprovero, se non qualche
volta di troppa passione, ma non mai di cosa che fosse contro la
purità della vostra mente e del vostro cuore [
]. Io
ho voluto ispirar me e innalzare voi sempre a questo concetto: di
anteporre sempre nella vita, spogliando i vecchi abiti di una società
guasta, lessere al parere, il dovere al piacere, di mirare
alto nellarte, dico, anzi alla semplicità che allartifizio,
anzi alla grazia che alla maniera, anzi alla forza che alla pompa,
anzi alla verità ed alla giustizia che alla gloria».
Dalle Memorie di un critico
Il terreno del primo incontro, anche affettivo, tra Croce e Carducci
è quello della erudizione, e si svolge epistolarmente. Il
giovane studioso napoletano aveva appena ventanni ma le sue
ricerche erudite sui teatri partenopei avevano già varcato
i confini della provincia: «Fu per me rievoca nelle
sue Memorie di un critico un giorno memorando (si era nel
1887) quello che mi portò una cartolina in cui il Carducci,
di suo pugno, con la larga e slanciata sua scrittura, il Carducci,
al quale erano venuti sottocchio certi miei scrittarelli di
storia napoletana, si rivolgeva a me per pormi quesiti e chiedermi
notizie [
]. Negli anni seguenti, egli continuò ad adoperarmi
di tanto in tanto a questi piccoli servizi, e a lodarmi per le mie
fatiche erudite, che gli inviavo in devoto omaggio». Quando
poi uscì lEstetica nel 1902, e il Croce gliene inviò
copia, fu grande la sua sorpresa nel constatare che larcigno
e scostante maestro della critica storica plaudiva al suo autore,
riconoscendone la decisiva importanza.
Ricorda in proposito Croce: «E chi poteva immaginare che il
Carducci avrebbe finito col riverire lEstetica, quellEstetica
alla quale aveva un tempo rivolto tanti sfregi e ingiurie? Eppure,
quando io ebbi pubblicato lEstetica, egli, già infermo,
già costretto a contentarsi di poche righe di lettura e di
lavoro, mi scriveva, il 26 luglio 1902: Importante mi pare
il suo libro delle relazioni dei napoletani col primo risorgimento
italiano. Laltro libro di Estetica mi è una rivelazione
ed una guida». Non diremmo che gli sia stata proprio
una guida, quanto, invece, senzaltro una
rivelazione; troppo radicato nel suo abito mentale il metodo
storico, che lo stesso Croce gli riconoscerà, implicitamente,
nel suo primo tentativo di definizione critica quale «poeta
della storia».
A interessare vivamente il vecchio professore bolognese era il Croce
erudito, tanto da volerlo avere «componente della nuova società
che sosteneva la ristampa dei Rerum italicarum scriptores»,
poco dopo compiacendosi con lui e ringraziandolo dellaiuto
ottenutone.

Da un cruccio, tuttavia, Croce non riesce a liberarsi, a conferma
di quanto poco lEstetica abbia potuto servire, perché
il Carducci stemperasse lacre antipatia per il De Sanctis,
che gli stava a cuore, come teorico dellarte (e ne aveva ampiamente
risentito lEstetica) non meno del poeta della sua giovinezza.
Cruccio che, ad posteros, si adopera a dileguare nella coscienza
nazionale, al termine del suo lungo cammino di elaborazione teorica
dellarte, con la dedica del libro La poesia, del 1936: «Alla
memoria di Francesco De Sanctis e di Giosue Carducci, due maestri
che, per diverse vie e con diversi modi, concorsero a formare negli
italiani una più schietta e severa coscienza di quel che
è la poesia». Dedica, peraltro, non convenzionalmente
sanatoria del contrasto fra i due, bensì dimostrativa della
inconsistenza del contrasto tra critica storica e critica estetica,
dal momento che, distinte nel fine, non si separavano nel lavorìo
della ricerca, perché mirate entrambe alla determinazione
del carattere dellopera darte: luna, indagando
sul perché storico di quel carattere, individuato negli elementi
del suo svolgimento nel tempo, e laltra, non potendola escludere
e dunque presupponendola per giungere ad un giudizio di merito.
Giosue Carducci, dunque, poeta grande, quale risalta
dalle pagine a lui dedicate nelle citate Note sulla letteratura
italiana della seconda metà del secolo XIX, che sono una
rapida ricognizione critica di segno negativo della letteratura
italiana «dopo il primo terzo del secolo XIX», ma dalla
quale esce indenne lesperienza del Carducci, «commosso
poeta della storia, della civiltà e della cultura»,
potenzialmente poeta-vate per la natura eroica della sua ispirazione:
«LItalia non ha avuto epos, la poesia del Carducci,
nata al chiudersi della vecchia vita italiana e al cominciare della
nuova, può dirsi un vero epos riflesso della storia dItalia
nella storia del mondo».
Si capisce sin dora che tra il giovane critico e il vecchio
poeta si è già instaurata una consonanza ideologica
ed etico-politica che in modo solenne risalta nellennesimo
richiamo al poeta della sua giovinezza, nella Storia dItalia
dal 1871 al 1915, in termini di fiducioso presagio: «Solo
uno spiegò in quel tempo (tra il 1871 e il 1890) ali daquila,
e traeva dietro a sé noi giovani, e non fu un pensatore,
ma un poeta, Giosue Carducci, che, sorto al confine di due età,
accolse lintimo spirito delluna e lo trasfuse e fece
vivere in seno allaltra. Romantico nella partecipe contemplazione
del passato e della storia [
]; romantico allitaliana
o alla latina nel culto della libertà [
]; italiano
nellaffetto col quale, nella visione della storia universale,
si stringeva a quella particolare [
]; epico cantore, e pur
tragico ed elagiaco, soffrente lumana passione, sdegnoso dellumana
viltà [
]. A quella poesia, come a fonte di etico vigore,
si dovrà tornare e si tornerà [
]; a quella poesia,
che è fin oggi lultima e classica classica nel
suo romanticismo grande poesia italiana».

Per una monografia critica
Dopo le Note del 1903, linteresse per il suo poeta non vien
meno nel Croce ma si scaltrisce di più acuti strumenti ermeneutici,
che il coevo sviluppo del suo pensiero estetico gli ha allestito
e che penetrano più a fondo nella sostanza della poesia;
la nuova formula dellapproccio ai testi non è il retorico
e fuorviante artifex additus artifici, bensì il più
comprensivo, totalizzante, philosophus additus artifici. Lo si riscontra
nei due dei quattro studi del 1910, Le varie tendenze, e le armonie
e disarmonie di Giosue Carducci e Lo svolgimento della poesia carducciana,
nei quali sono criticamente cooperanti i due connotati metodologici,
a quel tempo definiti dal Croce, nella conferenza di Heidelberg
del 1908, Lintuizione pura e il carattere lirico dellarte,
dove leggiamo fra laltro: «Ciò che piace e si
cerca nellarte, ciò che fa balzare il cuore e rapisce
dammirazione è la vita, il movimento, la commozione,
il calore, il sentimento dellartista: questo soltanto dà
il criterio supremo per distinguere le opere darte vera da
quelle di arte falsa».
Connotati che intanto vanno preliminarmente esperimentati nel primo
dei quattro studi, una specie di pars destruens, Anticarduccianesimo
postumo, nel quale si demoliscono i fondamenti teorici e metodologici
che si ritrovano alla radice delle più o meno pesanti riserve
o delle più o meno ingiuste accuse al Carducci, poeta, pensatore
e critico. I tre studi or ora indicati si muovono in un orizzonte
ideale e ideologico comune, la ferma presa di posizione contro la
«nuova corrente, mistica, aristocratica, estetizzante»,
della «trina bugia» (Fogazzaro, DAnnunzio, Pascoli);
insomma contro la letteratura decadentistica, allinsegna della
rinascita dellidealismo, che «è, e devessere,
la restaurazione dei valori dello spirito, e, in primo luogo, del
valore del Pensiero; laddove la corrente, che abbiamo descritta,
annulla i valori dello spirito e del pensiero nellarbitrio,
nella sensualità, nel sentimentalismo, nella fede allinconoscibile
e al miracolo, ed è nemica dellidealismo, come è
avversata ora e sempre da questo».
Come dunque ha carattere militante la sua Filosofia dello Spirito,
lo è anche la sua critica letteraria, il cui bersaglio implicito,
nella ricognizione della poesia del Carducci, è la degenerazione
«novecentesca», di unarte che nasce e si alimenta
«dinsincerità», si pasce di egocentrismo
e di superonismo, di angoscia velleitaria (il «vile muscolo
del cuore»), in una vacuità di valori e di ideali,
presenti, invece, ed efficienti nella ispirazione poetica del grande
maremmano. Scendendo su qualche dettaglio, il classicismo carducciano
è di segno antitetico a quello voluttuoso del poeta delle
Landi: «La serena Ellade del Carducci, di provenienza foscoliana
e goethiana, non era lEllade verso cui cupidamente guardavano
i nuovi estetizzanti, neurastenica, iperbolica, trucemente barbarica,
micenea piuttosto che fidiaca, veduta attraverso i fratricidi, i
matricidi e gli incesti». Un classicismo che suona come radicale,
assoluto antiromanticismo, perché per il Carducci (e ora
anche per il suo critico) «il romanticismo significò
i nervi che prevalgono sui muscoli, la femminilità che si
sostituisce alla virilità, il lamento che prende il luogo
del proposito, la vaga fantasticheria che infiacchisce e svoglia
dal lavoro»; la donna divinizzata dai romantici, ridiventa,
nel Carducci, «semplicemente, donna». Né il poeta
arretra sgomento al pensiero della morte, ma «attende calmo
il richiamo dellora sacra, perché (egli) sa che tutto
trapassa e ritorna nei secoli e nella vita universale sente palpitare
la sua individuale». Sono posizioni esegetiche che non verranno
sostanzialmente smentite, ma, a volte, arricchite di nuovi elementi,
negli scritti successivi, sino a quella Rilettura del Carducci del
1951, stesa a un anno dalla morte del filosofo.
Nella suddetta pars destruens, il Croce non spende molte argomentazioni
per far fuori, tra gli avversari, i due ideologicamente più
ambiziosi, Imbriani e Oriani, che rimproverano al cantore di Satana
e del «femminino regale» (nellode Alla regina
Margherita), di rinnegare i suoi ideali democratici e repubblicani;
si sofferma invece con prolungata attenzione sul ponderoso libro
di Enrico Thovez, Il pastore, il gregge e la zampogna (fresco di
stampa); anche perché lo studioso torinese era cresciuto
anche lui, da giovane, come Croce, nella venerazione
del maestro di Bologna; sicché le sue accuse
al Carducci sembrano nascere piuttosto da uno stato danimo,
non del tutto ingiustificabile, ma che presto trapassano il segno
nei giudizi di valore. Labbaglio critico si annida nella pretesa
thovesiana assurda, di aspettarsi dal Carducci la prosecuzione
della poetica leopardiana degli idilli, sottovalutando
così replica il Croce lincidenza del
diverso clima storico e culturale, pur al di qua del concetto (tipicamente
crociano) della atemporalità del fatto poetico.
«Nellessersi attenuto al metodo della confessione, nellavere
esposto via via le sue impressioni, è, insieme col pregio,
il difetto del lavoro del Thovez, e persino lappicco a quel
certo che di avvocatesco, che s'introduce in esso senza che egli
se ne avveda, e gli prende la mano, e tramuta molto spesso la sua
indagine in tesi e il suo ragionamento in sofismi». Manca
al critico piemontese incalza Croce una solida teoria
dellarte che lo fa ricadere nellerrore del Fortebracci
e dellOriani, che imputano alla poesia carducciana leccesso
del classicismo quasi ricalcato sulle orme degli autori antichi,
lasciandosi sfuggire gli aspetti della originalità. Con una
punta impietosa il Croce gli rimbecca la presunzione di identificare
«la poesia nuova», come non sarebbe quella del Carducci,
con «la poesia sua» (del Thovez), la quale presunzione
lo induce ad incolpare di «tradimento, di regresso artistico»
sulla strada maestra della poesia italiana: lautore delle
Odi barbare sarebbe reo, agli occhi del Thovez, di avere sviato
la lirica italiana «dalla via audacemente indicata da Leopardi».

Col tipico procedere critico del philosophus additus artifici,
il Croce introduce il lettore ai due studi successivi (Le
varie tendenze e Lo svolgimento) con un assioma,
che in sé contiene gli elementi della sintesi del giudizio
di valore, cui perverrà attraverso lanalisi dei testi:
«Lo spirito umano è uno e diverso insieme; e quelle
che si chiamano forze poetiche, intellettuali, passionali o pratiche
sono tutte attive in ogni istante, tutte in una, e pur luna
distinta dallaltra: dalla quale distinzione nasce lopposizione
e la lotta, e dalla lotta lo svolgimento e la produttività
spirituale. Perciò non vi ha poeta, che sia semplice poeta,
come non vi ha uomo pratico, che sia soltanto uomo pratico: poeti
e uomini pratici, in senso eminente, chiamiamo coloro il cui animo
è accordato e disposto in modo che la poesia o lazione
dia come il fine principale, al quale gli altri tutti si subordinino
e cospirino. Ma se un poeta non fosse insieme uomo pratico e passionale,
se non fosse uomo, non sarebbe nemmeno poeta; se un uomo pratico
non avesse del poeta, cioè non avesse fantasia, non sarebbe
uomo pratico». Ne deriva il primo e fondamentale elemento
di giudizio: «Il Carducci si sa da tutti che cosa fosse, oltre
che poeta: fu, in prima linea, un uomo assai agitato dalla passione
politica», sin dalla prima giovinezza. Su questo aspetto della
figura del Carducci, lindagine, fin troppo minuziosa e non
scevra di psicologismo, che il maestro di Napoli ha appreso da Sainte-Beuve,
si viene motivando laltra definizione del Croce: del Carducci
poeta vate, che «celebra o rampogna, animato da
forte spirito etico, nel proporre ai concittadini, ai connazionali,
o agli uomini tutti, un ideale da perseguire». Un ideale di
patria che non abbia «nulla della boria di nazione e di razza»,
da coniugare con gli ideali di giustizia, di libertà e di
«perpetua pace»; gli ideali appunto del suo «eroe
massimo», Garibaldi, il quale «glorioso per fortunate
imprese darmi, in terra e sul mare, in patria e in lontani
lidi, non parve mai cingesse la spada da guerriero o da conquistatore,
ma la brandisse quale istrumento di giustizia e quale simbolo di
futura perpetua pace». Ma ci chiediamo col suo critico: non
sussiste il rischio che tali nobili sentimenti degenerino in un
«pervertimento o vizio poetico» nella complessità
degli ingredienti che confluiscono nellispirazione: dallinsoddisfatto,
dolorosamente, bisogno dazione (i modelli carducciani erano
Eschilo e Mameli), alla cultura storico-letteraria, alla stessa
propria vita, con le proprie sofferenze, delusioni, lotte, angosce
e gioie? Il rischio cioè di cadere nella rettorica patriottarda
(alla DAnnunzio), nelliperbole parenetica (alla Pascoli),
nel vieto intimismo decadente (alla Fogazzaro)? Per rispondere non
cè che da perseguire lo svolgimento dellispirazione
poetica carducciana e della sua resa artistica lungo laccidentato
versante della «poesia e non poesia»; con la premessa
che «non è da aspettare che la sua opera poetica, disseminata
lungo un cinquantennio, sia tutta di pari pregio. Egli dové
passare (e ciò accadde in realtà) per vicende di squilibri,
equilibri e nuovi squilibri, e raggiungere faticosamente la poesia
per perderla da capo e rimettersi a quella ricerca e a quella fatica,
a cui solo la morte dà tregua».
Nel terzo studio (Lo svolgimento della poesia carducciana),
si rafforza, con maggiore autorevolezza teorica, il convincimento,
accennato nelle Note del 1903, che lautore dei Juvenilia,
dei Giambi ed epodi, delle Rime nuove e delle Odi Barbare (qui setacciate),
appare come il simbolo di unepoca storica (cui, anagraficamente,
corrisponde la generazione carducciana, la sua propria):
quella che dai fermenti prerisorgimentali è culminata nella
epopea del Risorgimento compiuto, ma che poi è venuta corrompendosi,
e dallideale di nazione, restituita a indipendenza e dignità,
è tralignata nel nazionalismo imperialistico (cui, anagraficamente,
corrisponde la generazione dannunziana).
La classificazione in sei momenti ideali, non cronologici,
delle fasi di svolgimento della poesia del Carducci (il letterario,
il pratico, il personale, il politico-epico, lo storico-epico, lerudito)
non tradisce soltanto una certa naturale preoccupazione didascalica,
ma assai di più lapriorismo delle sue categorie estetiche;
il che poi ha lasciato supporre, che il Croce, nellaccostarsi
ad un autore, abbia inteso, più soppesare la validità
della sua dottrina dellarte, che verificare la consistenza
oggettiva dellopera esaminata. Ma è giusto anche ammettere
che questi studi crociani (ed altri cui accenneremo più avanti)
son sempre riemersi nella storia della critica, come riferimenti
con i quali confrontarsi (dal Petrini al Russo, dal Sapegno al Binni,
per fare qualche nome). Non si può consentire, ad esempio,
col Croce sulla liquidazione dei Giambi ed epodi nel limbo della
non poesia, nel momento stesso in cui si sottolinea
la congenita passione politica del loro autore, radicata
in quel gagliardo amor di patria condiviso dal critico.
Altre volte lassenso è incondizionato, per le strofe
di Avanti! Avanti!, una «prefazione alle nuove poesie e vero
grido di ripresa e di rinvigorimento dellarte del Carducci»,
per la Canzone di Legnano, Il comune rustico, Faida di comune, Alle
fonti del Clitumno, dalle quali tutte erompe la poesia epica delle
idealità della tradizione nazionale. Dal complesso dei rilievi,
senza escludere gli stessi limiti impoetici, il critico
ritiene di poter dedurre lindiscutibile grandezza del poeta
della sua giovinezza: «Fu più che poeta: e questo ci
tocca come uomini del sentimento e in particolare come italiani,
ammonendoci del dovere di ripigliare e proseguire la sua virile
aspirazione alla vita, abbandonata, ahimé!, dalla generazione
che gli successe. Fu poeta: e questo ci tocca come uomini della
contemplazione, e, sotto questo rispetto, egli appartiene al mondo
intero».
Dal filosofo dellEstetica e dalleditore del De Sanctis
non si può attendere un giudizio veramente obiettivo e fondato
sul Carducci pensatore e critico, che dal confronto col critico
irpino non può che uscire sminuito; e il maestro di Bologna
si salva dalle angustie della critica storica
è opinione del Croce quando, nei giudizi di merito,
si rifà a quelli del De Sanctis, come nel caso del Parini.
Il pronunciamento è drastico: proprio perché
grande poeta il Carducci non può essere pensatore originale
e critico attendibile, anzitutto perché sguarnito di una
«salda dottrina estetica e di una filosofia dellarte».
Gli è tuttavia riconosciuto il pregio della precisione analitica
delle strutture formali e metriche di unopera darte.
Se fallisce inoltre come critico puntualizza poi il Croce
resiste egregiamente come storico della letteratura italiana,
oltre che come filologo (il suo giovanile Poliziano) ed editore
di testi: «Chiunque entri a studiare i fatti e i problemi
di questa storia (della letteratura), simbatte in ogni passo
nel Carducci; e profittando delle fatiche di lui, è portato
a rendergli omaggio tanto più devoto e gratitudine tanto
più commossa, in quanto non può non tornargli alla
memoria quale uomo, quale poeta fosse colui che sapeva, dove occorresse,
farsi modesto operaio [
]. Percorse dallun capo allaltro
la letteratura italiana, e dappertutto lasciò i segni del
suo studio e del suo acume».
Relegato nella schiera dei grammatici, gode però
di unattenuante suggerita al Croce dal suo «grande amore»
per il poeta della sua giovinezza: De Sanctis e Carducci miravano
insieme ad «una diretta e piena comprensione dellopera
darte», luno con coscienza filosofica, laltro
col buon senso e il buon gusto. Riconoscimento piuttosto striminzito
appare ad un crociano non sempre allineato, Luigi Russo, che eccepiva:
«Ma al di là di una semplice contrapposizione psicologico-teoretica
De Sanctis-Carducci, oppure, peggiore e più fallace ancora,
di una antitesi generica tra scuola storica e scuola estetica [
],
si trattava di contrapporre a un De Sanctis storico filosofo un
Carducci critico tecnico della poesia», per concludere che
«la critica del Carducci, pur nella sua modestia e nel suo
limite, vive di una salda dottrina estetica e di una coerente filosofia
dellarte».
Nel pantheon dei massimi della letteratura europea del secolo decimonono
che è il volume Poesia e non poesia del 1923, non poteva
mancare il suo Carducci, e non per la presunta «tendenza propagandistica
a magnificare il genio italiano», malignamente attribuitagli
in una rivista straniera, ma «per riaffermare il posto e il
grado che al Carducci spetta nel quadro di questa letteratura»,
tra Alfieri e Schiller, tra Leopardi e Heine, tra Manzoni e Baudelaire,
sempre a norma del criterio di quel che sia schietta poesia, poesia
classica; traguardo raggiunto da pochi, anche se lo millantano in
molti.
E il Carducci grande o divino, come
lo qualifica Charles Maurras: «acuto scopritore e persecutore
del decandentismo e muliebrismo letterario». Lerudizione
ingombra la sua ispirazione? Non sempre, ed anzi è più
spesso «nutrimento della sua anima e della sua fantasia»,
sicché nel suo verso si sente «il respiro del suo petto
possente, che ci solleva dal mondo pratico e ci trasporta nel mondo
ideale». Più che mai pertinente, dunque, la definizione
del 1910, di poeta-vate, poeta eroico, «un ultimo e schietto
omerida».
Il critico «come un colto cicerone o un paziente e discreto
maestro
Ma nella riflessione teorico-estetica del Croce si avverte sempre
di più il bisogno della distinzione tra «la poesia
come opera di verità e la letteratura come opera di civiltà»,
e ne discute e disserta e documenta ampiamente nel libro La poesia
del 1936, che può considerarsi lapprodo estremo del
suo travaglio speculativo in relazione al problema dellarte.
Si definiscono i due momenti, peraltro di ascendenza classica del
furor (la poesia) e dellars (la letteratura), dellispirazione,
cioè, e della disciplina, con la formula conclusiva e liberamente
più coinvolgente di «la poesia, la non poesia e lantipoesia».
Occorre, a mio giudizio, tener presenti questi concetti, per spiegarci
il ritorno del Croce sul poeta della sua giovinezza, dopo gli studi
del 1910: un ritorno metodologicamente differenziato, meno sintetico
e più analitico, più puntuale, e talvolta più
erudito, su singole liriche, riesaminate comparativamente con posizioni
precedentemente assunte, o anche con testi di altri autori, italiani
e stranieri (Goethe, Heine, Hugo, Platen, Uhland): sono le Note
su alcune poesie del Carducci del 1941 (LInno a Satana, La
Ninna nanna di Carlo V e la Sacra di Enrico V, Il sonetto Il
bove, Poesie damore, Poesie impressionistiche, Lode
alla regina, Lepodo per Monti e Tognetti e il giambo per il
processo Fadda, Lode a Ferrara).
Qui la critica del Croce, quale «interpretazione o comento»,
deve farsi «piccina innanzi alle opere darte»,
e si restringe «allufficio di chi spolvera, colloca
in buona luce, fornisce ragguagli sul tempo in cui fu dipinto e
sulle cose che rappresenta un quadro, e spiega le forme linguistiche,
le allusioni storiche [
]. Il critico, in questo caso, viene
rappresentato come un colto cicerone o un paziente e discreto maestro».
Negli studi del 1910, invece, la critica si era fatta grande
innanzi allarte grande delle Rime nuove e delle
Odi barbare, nella loro ispirazione, contemplativa e storica insieme.
Estrapoliamo cursoriamente. La rilettura dellInno a Satana
ora espunge gli accenti polemici del 1910, e, pur ribadendone il
carattere praticistico, oratorio («eloquenza
e letteratura»), dovuto alle «infiammate letture»
del Michelet, lo inquadra in un contesto ideale, che trascende la
contingenza della occasione, e si innalza in una visione più
articolata e serena del cristianesimo, nel quale «non scorse
più unicamente lascetismo onde si legava alla decadenza
del mondo antico, ma anche tutto laltro di umanamente positivo
che lo legò allavvenire e alleterno [
].
Quale meraviglia che egli celebrasse lincanto dellavemaria
nei versi della Chiesa di Polenta? o che alloccasione scrivesse
versi gentili ed elevati sulla Santa Vergine Maria o al pie
di un Crocefisso? Perché non avrebbe dovuto dare a quei sentimenti
umani i nomi che storicamente portavano e che avevano meritato?».
Le acutissime pagine sulle due liriche storiche la Ninna nanna di
Carlo V e La sacra di Enrico V valgono come un saggio di critica
storica e di finissima esegesi critico-estetica, e qui non si può
fornire che qualche cenno. Laccostamento fra i due testi serve
a porre in risalto quanto la polemica ideologica (giacobina), sottesa
a La sacra di Enrico V, pregiudichi gravemente il livello poetico,
che resta invece costantemente elevato nella Ninna nanna di Carlo
V. Osserva in ragione di principio: «Lorigine vera e
principale dellerrore del Carducci mi pare che sia nella ideologia
rivoluzionaria che ho accennata e che suggerisce moti e immagini
che offendono lumana pietà e la verecondia della poesia:
di che qualche traccia si nota anche in alcuno dei sonetti del Ça
ira».
Umana pietà e verecondia della poesia pervadono le quartine
della Ninna nanna, rese più evidenti dal confronto instituito
con le ballate storiche del Platen, nel quale la ispirazione è
letteraria, perché riduce e rimpicciolisce il
dramma della storia aborrita nellangustia della
vicenda individuale, «dà risalto a un sol momento,
al momento in cui il personaggio esprime il suo personale sentire
cadendo tragicamente»; nel Carducci, invece, si rappresenta
il dramma non dellindividuo, nel suo privato soffrire o gioire,
«ma dellindividuo come portatore di valori sopraindividuali
cioè il dramma della storia nei vari momenti della vita dellumanità
[
] Il Platen, nel quale domina la pallida mors, è pessimista;
il Carducci, in cui si dispiega la vita infaticata dellumano
ideale, è epico ed eroico». Che è la prospettiva
critica perseguita dal Croce nella valutazione delle altre liriche
storiche del Carducci: Versaglia, Faida di Comune, Sui campi Marengo.
Ma lattenzione del Croce non trascura quella che può
apparire poesia di tono minore, dispirazione amorosa (in Poesie
damore) o laltra che nasce dalle impressioni,
non per riprodurle ma per superarle (in
Poesie impressionistiche). Nella prima, il Croce confuta la ricorrente
accusa della artificiosità letteraria delle liriche nelle
quali compaiono figure femminili, le Lalagi, le Lidie, le Livie,
le Cloe, ritenute a lungo, non più che frusti topoi dotti,
flatus vocis come se, al contrario (e lo ha documentato lEpistolario),
dietro di esse non si celi una «schietta e sincera passione»
per la donna, contenuta entro i limiti della riservatezza (Primavera
classica, Panteismo e, persino, con più dissimulazione, Ragini
metriche): «La sua poesia damore è voluttuosa,
semplice, con certa timidezza di rispetto e di sempre presente gratitudine
verso colei che porta quella gioia nella sua vita». Una poesia
nella quale si assomma «luniverso come per il Petrarca
o a suo modo per il Leopardi», e che, con la sua schiettezza
e gentilezza, «sfata nel paragone la fastosa e pur fredda
lussuria erotica del DAnnunzio e che ridà il sentimento
della piena umanità e paragone della poesia senza donna e
senza amore del Pascoli». Non desiste, ad ogni occasione,
la polemica crociana contro la degenerazione decadente della sfera
della interiorità, linaridirsi delle vive fonti della
vita, contro il malum mundi incombente sul destino della civiltà.
Nel gruppo delle liriche damore può inserirsi anche
Era un giorno di festa (intervento del 1936), per riconoscerle,
al di là delle suggestioni di Heine, il più letto
dal Carducci tra gli scrittori stranieri, e delleco prolungata
del Cavalcanti (dallepigrafe alla quarta lassa del componimento),
genuina anima poetica; perché larte del Carducci
precisa il Croce «contiene cultura quintessenziata
e non ben sintende senza questi necessari riferimenti»,
nulla detraendo all«incanto della bellezza (della donna
che prega) e dellamore», a un tempo «con linesausto
desiderio e con lindivisibile dolore».
Non meno dense di pathos lirico le poesie impressionistiche (San
Martino, Tedio invernale, Davanti una cattedrale) che ritraggono
momenti della natura o aspetti di un paesaggio, da cui il poeta
si muove per spaziare nel libero cielo e contemplare «lindividuale
nelluniversale nel quale soltanto può vederlo».
Note del «poema eterno» fattesi «picciol verso»,
nel loro impressionismo, naturalistico ed esistenziale, quanto più,
essenzialmente, esemplificativo di una generale condizione dessere,
resa con classica luminosa nitidezza.
In Lode alla regina (composta dal Carducci nel 1878, quando
il Croce era «un ragazzo presso che tredicenne»), tra
le più discusse e fraintese, meritoriamente il critico, col
suo immancabile corredo storico-erudito, libera il testo dalla taccia
di cortigiano; per puntualizzare che «essa sorse
da un improvviso ingenuo impeto di entusiasmo per un essere ideale
che gli parve dincontrare a un tratto nella realtà,
una creatura di sogno, tessuta del sogno di quanto di più
puro e gentile lanima cerca desiderosa». Come, levando
in alto da «tutto il mondo pratico limperatrice
Elisabetta dAustria (nellode Alle Valchirie), il Carducci
la trasporta e restituisce al mondo di sogno in cui ella visse,
al mondo dei miti germanico ed ellenico, dellepopea, della
musica. E dunque ancora una volta riconosciuto «nellingenuo
impeto di entusiasmo» il segreto della schietta e sicura ispirazione
poetica, la quale, nellOde a Ferrara, è invece compromessa
dagli eccessi polemici, pur storicamente ed emotivamente giustificabili
dal lettore, «contro la curia romana, che spense la poesia,
la cultura e la civiltà di Ferrara e piegò e soffocò
lanima di Torquato».
Gli ultimi due interventi del Croce tremano insieme di nostalgia
«pel caro tempo giovanile» e di presentimento della
fine non lontana: luno del 1950, Intorno a due liriche di
Volfango Goethe e di Giosue Carducci, laltro del 1951, Rilettura
del Carducci. Nel primo si colgono analogie tematiche ed esistenziali
tra il lied Ueber allen Gippeln e lodicina Nevicata: motivo
comune, la ineluttabilità della morte, che nella coscienza
del critico si accompagna alla «antica sentenza, che per luomo
la morte non esiste: non esiste quando è vivo perché
è vivo, né quando è morto perché è
morto». Il lied goethiano si chiude così: «Warte
nur, balde Rehest du auch» («Aspetta un poco: presto
riposerai pur tu», trad. Croce); lodicina del Carducci:
«In breve tu càlmati indomito cuore,
qui al silenzio verrò, ne lombra riposerò»;
in entrambe le lirichette «cè la verità
che forma lo sfondo di ogni poesia: la vita che si abbraccia con
la morte ed è vita in quellabbraccio», sicché
esse «possono con pari diritto essere definite poesie della
Morte o poesie della Vita, perché la vita è in un
sol atto affermazione e negazione e vive di questi contrari».
Il vecchio critico si predisponeva a varcare «il muro dombra»
nel ricordo del poeta della sua giovinezza. Tanto più sentito
allora, allo stremo delle forze, il bisogno di rileggerlo,
tra una dotta fatica e laltra, ancora, «risalendo così
alle memorie di quel tempo in cui lanima si apre allamore
e allintelligenza della poesia», che è vita,
e verità. E rilegge le cose dellultimo
tempo del suo poeta, che alcuni critici consideravano «prova
della sua maliconica decadenza», quando invece prosegue
il vecchio filosofo non vè altra malinconia
che non sia quella della «non lontana fine, il presago verno
degli anni, contro il quale egli, il Carducci, si abbraccia più
forte alla divina poesia e al canto del padre Omero».
Né vien meno il solito impegno esegetico del grande critico,
che qui si concentra su tre liriche, che avevano già suscitato,
al loro apparire, «passioni e contrasti estranei allarte»:
Alla figlia di Francesco Crispi, del 1895, e due ispirate da Annie
Vivanti: Ad Annie, anteriore di qualche anno, e Elegia del monte
Spluga, del 1898. E indubbia la involuzione ideologico-politica
del Carducci, da mazziniano a sabaudo a crispino, ma il Croce non
la ritiene tale, e, comunque, nel carme in parola, egli rimarca
lafflato umano che anima lispirazione del poeta, inteso
a liberare la «sicana Vergine» dalla «stridula
procella donte» che ha investito il suo augusto genitore.
Sui distici, poi, per la giovanissima poetessa Annie Vivanti (per
la cui raccolta di liriche, del 1890, il Carducci aveva stilato
un saggio introduttivo) il Croce taglia netto sulle dicerie circa
i rapporti tra il vecchio poeta e maestro e Annie, affermando che
«nella sua anima, e perciò nella realtà poetica,
ella gli apparve nientaltro che una dolce fanciulla dai grandi
occhi di fata, che aveva ricevuto laureo dono del canto»;
e insomma, «è poesia gentilissima e castissima».
E che prevale tra i due il vincolo più forte, quello
della poesia, che ha anche generato il sentimento dellamore.
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