Il Regno di Napoli portò a
maturazione la
rivoluzione
illuministica, per poi appendere
il fior fiore delle
intelligenze alle forche innalzate nella partenopea Piazza del
Mercato.
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Si discute molto, in questi tempi, di rivoluzione borghese dimezzata
e di rivoluzione mancata in Italia. Dimezzata fu certamente quella
dei primi anni 60, quando il boom economico fece registrare
un balzo allItalia del Nord, mentre in quella del Sud spopolò
le campagne senza che vi fosse realizzato un tessuto industriale
che contribuisse a trasformare radicalmente leconomia e la
società meridionale. Mancata è quella dei nostri giorni:
nel momento in cui si chiedono sacrifici per ridurre il debito pubblico
del Paese e per rispettare i parametri di Maastricht, primo atto
canonico, secondo insana consuetudine, è stato quello dei
tagli agli investimenti al Sud. Il che ha fatto gridare a qualcuno,
non proprio disinteressato, che proprio dal Mezzogiorno si deve
ripartire, se si vuole che tutto il Paese si agganci alla ripresa
e venga fuori dalle secche della stagnazione.
Aridi ma non peregrini riferimenti allattualità a parte,
di rivoluzioni mancate il Sud ha fatto incetta, dai giorni dellUnità
e della guerra civile al primo e al secondo dopoguerra del secolo
scorso: imputati, la politica nazionale, gli interessi delle lobbies,
i cinici egoismi territoriali, e altro ancora, ma anche lincapacità
della borghesia terriera meridionale di trasformarsi e di spostare
il baricentro delle attività produttive, trasformando le
rendite parassitarie in investimenti, in occupazione, in sviluppo.
Ma cè stata, nella storia del Mezzogiorno, anche una
fase in cui interessi interni e internazionali coincisero nella
determinazione di stroncare di netto la nascita di uno Stato del
Sud moderno, incentrato sulla formazione di una piccola e media
borghesia guidata da un monarca illuminato quanto coraggioso, e
per molti versi persino spregiudicato: il cognato di Napoleone,
vale a dire Gioacchino Murat.

Chi fu Murat, insediato nel più antico Regno dItalia,
di volta in volta di Puglia, di Napoli, delle Due Sicilie, che ebbe
vita per otto secoli, e nel quale tra i sovrani che regnarono non
ci fu che il solo Federico II che più di lui si raccomandò
alla memoria degli uomini? Un personaggio di complessa antropologia
umana e di geniale creatività politica: spirito ribelle,
eroico in battaglia fino a rasentare unintrepida follia, combattente
più che diplomatico, di sentimenti istintivamente repubblicani,
certamente alieno a vincoli di subordinazione, altrettanto sicuramente
portatore di una moderna visione del mondo. Re del Regno del Sud
su mandato napoleonico dal luglio 1808, (non è solo il ventre
delle regine a partorire dei re; cè anche la forza
delle armi), con un decisionismo degno di miglior fortuna mise mano
a un coacervo di riforme radicali: eversione della feudalità,
introduzione del Codice napoleonico, soppressione dei tribunali
speciali e ampliamento degli spazi di discrezionalità dei
giudici, diffusione di opere pubbliche, particolarmente delle strade
di collegamento tra centri urbani, fino allora quasi del tutto inesistenti
nel Sud, impulso alla sanità, potenziamento dellagricoltura
anche con la redenzione di vasti territori incolti e persino inesplorati,
distribuzione di terre confiscate al latifondo parassitario, riordino
del sistema tributario, creazione del Banco di Napoli, diffusione
dellistruzione elementare, creazione di interi quartieri urbani,
come quello a ridosso dellallora inerte borgo di Bari
Tutto questo, e altro ancora, in direzione di un progetto ambizioso:
la creazione di una piccola e media borghesia produttiva e mercantile,
grazie alla quale, dopo secoli di arretratezza, il Regno avrebbe
potuto aprirsi un varco nel futuro.
Quel che fece Murat, forse, fu troppo, o troppo di tutto, in un
arco di tempo forse troppo breve e in una terra e in una società
che quasi un millennio di scirocco politico, economico e sociale
aveva fatto crepare come una melagrana. E troppo, soprattutto, per
non mettere in allarme gli altri Stati, italiani ed europei. La
sua opera riformatrice scardinava lordine costituito, era
preludio allinversione degli antichi valori, esiliava i principii
giurassici sui quali, di fatto, oltre che per un diritto spesso
invocato come divino, quellordine si era retto
prima dellonda durto napoleonica, e sarebbe tornato
a reggersi subito dopo lavvitamento continentale determinato
dal Congresso di Vienna. Sicché, pure amandolo, Napoleone
intimamente lo aveva temuto; diffidandone, la Francia lo sospettava
di doppiogiochismo, se non di tradimento; guardandolo a vista, Inghilterra
e Austria ne auspicavano leclissi politica; odiandolo, i Borbone
ne avrebbero reclamato la morte per mano del plotone desecuzione.

Come tutti gli spiriti anticipatori, dunque, Murat si creò
soprattutto dei nemici. E il destino assegnato agli idealisti.
Così, in quella linea dombra indistinta e magmatica
nella quale confluiscono le voci della storia e quelle della leggenda,
culminò il valore militare suo e della sua travolgente cavalleria,
che aveva assicurato allImperatore francese la vittoria ogni
volta che era scesa in campo (mai sconfitta in oltre trenta battaglie,
dalla campagna dItalia allEgitto, da Aboukir a Gaza
e a San Giovanni dAcri, da Ulm a Iena, da Eyilau a Friedland
e a Mosca, dove entrò per prima), e che, quando per invidia
o per incoscienza fu esclusa, come a Waterloo, lasciò un
baratro aperto solo alla sconfitta; e culminò la visione
politica di una sorta di rivoluzione italiana eccentrica (partiva
dal Sud!), perché anche in questo Murat fu in tragico anticipo,
sulla stimmung, cioè sulla temperie, sullo spirito dei tempi
che sarebbero maturati molto più tardi. Tantè
che il Proclama di Rimini del marzo 1815, che chiamava gli italiani
a un risorgimento nazionale, vide dissolversi nello spazio di un
mattino ogni rispondenza, ogni eco, ogni reazione propositiva e,
per contro, prender piede il vuoto dellindifferenza, di un
deserto di valori, e, insieme con latarassia di plebi analfabete
e intonse, anche quella di forze intellettuali che sembravano paralizzate
dalla grandezza di quella visione: allora, condizioni antropologiche
che, pur non essendo esclusive del Sud, proprio nel Sud esausto
e virtualmente depotenziato, non avevano saputo trovare la forza
di mettersi alla testa di un movimento preliminare alla nascita
di una Nazione.
E, in questo contesto, ancora oggi rimane misteriosa, o quanto meno
di difficilissima lettura, linerzia della Massoneria (che
comunque allepoca era filofrancese, dunque contraria alla
nascita di una potenza protesa nel cuore del Mediterraneo) e di
quella sorta di braccio eretico che fu la Carboneria, sebbene Murat
fosse Gran Maestro da almeno un lustro; Massoneria e Carboneria
che di lì a soli cinque anni, nel 1820, dun tratto
e come per miracolo, si sarebbero svegliate e avrebbero avviato
la dirompente stagione dei moti risorgimentali, che, attraversata
la linea di demarcazione del 48, sarebbe culminata nellUnità
conseguita alla rovescia, non avviata dal Mezzogiorno, con Napoli
capitale nazionale (era dal Settecento una capitale di stampo europeo),
e della saldatura della nostra politica internazionale con lEuropa,
da una parte, e con luniverso mediterraneo sullaltro
versante, come sarebbe stato naturale e sicuramente per il futuro
del Meridione auspicabile, se quel nostro Regno fosse stato un po
meno sanfedista e tardoguelfo, e un po più sensibile
alle istanze libertarie che non erano state cancellate del tutto,
neanche dopo lo sfacelo dellEuropa napoleonica. Fato e circostanze
politiche continentali incrociate dai reticoli diplomatici, militari,
di equilibri e di influenze complesse, vollero poi che quellUnità
si realizzasse solo quando, in funzione del militarismo del Nord-Ovest
della Penisola e della rinuncia del Piemonte a gravitare con Nizza
e con la Savoia nello scacchiere territoriale transalpino, si orchestrarono
un monarca massone, Vittorio Emanuele II, un Primo ministro massone,
il Conte di Cavour, un condottiero massone che si era inginocchiato,
dichiarandosi figlio ideale di Murat, Garibaldi, un armatore massone,
Raffaele Rubattino, che rifilò per furto la tacita consegna
ai Mille delle sue due navi più veloci, i massoni toscani
che a Talamone rifornirono i garibaldini di armi e di vettovaglie,
i massoni siciliani che arruolarono duemila picciotti,
i quali impegnarono il fior fiore dellesercito borbonico operativo
nellisola, facendosi massacrare, pur di garantire allEroe
dei Due Mondi lo sbarco a Marsala senza colpo ferire, i massoni
infiltrati a corte, nellamministrazione e soprattutto nellesercito
napoletano del Continente, che avvelenarono clima, fiducia e possibilità
di difesa del Regno.
Forse lutopia muratiana, tramontata fra le rosse pianure
di Tolentino, era frutto di una visione sospesa tra azzardo e disperazione,
fra il tentativo di scampare alla tabula rasa del sistema napoleonico
perseguita poi dallilliberale Santa Alleanza europea e il
sogno di unepopea estrema che, a sipario calato, al modo di
quella delle streghe di Macbeth, si sarebbe rivelata unopera
senza più nome.
Può mutare la prospettiva storica, con il trascorrere del
tempo, questo sì. Possono opporsi le angolazioni visuali,
gli atteggiamenti critici, e di conseguenza i meriti e i metodi
di un oggettivo revisionismo, questo anche. Lo si intuisce quando,
esaminando i nuovi scenari, lincipit di unetà
che si stava schiudendo, si nota che passò soltanto qualche
decennio, e lEuropa fu infiammata dal movimento romantico,
dal delirio romantico, dal delirio logico dellidealismo di
Hegel, dallo spiritualismo come malinconia nebulosa e indefinita,
con radici remotissime che sembravano perdute, ma che covando il
calor bianco, portarono alle estreme conseguenze le premesse illuministiche:
così si diffuse lidea risorgimentale delle nazioni.
Non a caso Murat seppe coniugare ragione e passione. E se è
vero che il gran re riformatore era diventato sovrano sulla punta
delle sciabole francesi, è altrettanto incontestabile che
ciò era già accaduto con Carlo, padre di Ferdinando
IV di Borbone: la consacrazione o la desacralizzazione in virtù,
appunto, delle armi.
Ma soltanto per lui, allepoca, la caduta rovinosa e definitiva
dopo lo sbarco a Pizzo Calabro, non per una guerra civile, che volle
impedire, ma nel segno unilaterale delloltraggio, della rapina,
della sordida prigionia, dellodiosa esecuzione «un quarto
dora dopo la sentenza», e della fossa comune. Con legittimo
sospetto di complotti, di spionaggi, di viltà, di tradimenti
ignobilmente preordinati e puntualmente consumati.

Ci si chiede, oggi: al momento dellesecuzione era re, oppure
no? Luomo che aveva intuito il valore decisivo delle riforme
e che aveva messo al centro degli interessi vitali del Regno la
nascita di un ceto medio produttivo e mercantile, quando sbarcò
per la riconquista del trono era ancora il sovrano par la
grace de Dieu et par la constitution de lEtat? Sì,
rispondono alcuni, perché dopo la sconfitta di Tolentino
egli non era stato deposto, né era stata sancita una sua
abdicazione nel trattato di resa. No, controbattono altri, perché
il carattere personale ed eterno dellattributo della regalità
non è seriamente sostenibile. Dunque: Murat sopraggiunto
a Pizzo, proveniente dalla Corsica, non esercitava più concretamente
la funzione reale. Sicché gli sgomenti sudditi del luogo,
colti di sorpresa e coinvolti nelle vicende di quella convulsa domenica
di mercato, oggettivamente potevano vedere in lui lusurpatore,
il simbolo della nuova tirannia, lo straniero oppressore, il partigiano
francese che sfidava i legittimisti, i quali avevano accolto di
buon grado il ritorno del Borbone. Pertanto, non di regicidio si
trattò, bensì di assassinio comune. Tentativo di rimozione
e di transfert di un antico, macerante rimorso che ancora ai nostri
giorni, a poco meno di due secoli dalla fucilazione dello stalliere
diventato sovrano bonapartista, angoscia le coscienze più
lucide dei pizzitani. Re o non re, comunque, visse con regale orgoglio
anche il tragico epilogo della sua vita, comandando il plotone desecuzione.
E il destino di tanti ribelli e rivoluzionari della storia
che si serve di loro e della loro azione, nel processo di speranza
e di emancipazione dei popoli, per il loro sviluppo, secondo limperscrutabile,
misterioso disegno del progresso umano e civile.
La storia non giustifica e non deplora. E, malgrado una nota espressione,
sebbene a volte quasi meccanicamente si ripeta, sembra insegnare
poco, o nulla. E tuttavia, in prospettiva, rivisitata nelle sue
pagine più complesse o nelle sedimentazioni meno esplorate,
può aiutare a capire, e talora illumina. Interrogandola,
si attendono risposte.
Fra laltro, al cospetto di questa tragedia meridionale, ci
si chiede: ma chi, ma che coserano il bucaniere maltese Barbarà,
che abbandonò il re sulla spiaggia calabra, negandogli una
via di salvezza, e prese il largo con a bordo 270 uomini arruolati
per fomentare la rivolta, e soprattutto impossessandosi del forziere
reale; lambiguo generale Franceschetti, che poi fece causa
perdendola a Carolina Murat Bonaparte, reclamando
un risarcimento per la ferita riportata sulla via della sua precipitosa
fuga; leminenza grigia barone Melacrinis, che proprio in quei
giorni ospitava guarda caso! un manipolo di soldati
semplici in licenza; il caporione capitano Trentacapilli,
anche lui acquartierato a palazzo Melacrinis, anche lui in
licenza, ma stranamente in compagnia di quella ciurma armata
fino ai denti, uno che nel breve percorso dalla dimora baronale
alla Pietraia, il luogo in cui avvistò il re, acquistò
il coraggio dellarruffapopolo e perdette lonore del
soldato; il prete omicida don Citanna, che con una mano assolveva
dai peccati terreni il re e con laltra apriva il fuoco, causando
lunica vittima di quellevento; il fabbro rapinatore
Sardomeli, detto Balà, più che dallamor patrio
mosso dalla cupidigia suscitata dalla filiera di diamanti incastonati
nel copricapo che strappò a Murat; e chi, che cosa rappresentavano
la folla di un paio di centinaia di figuri malmostosi che formavano
la muta sguinzagliata alla caccia del re diretto a Monteleone, e
i pizzitani, o napitini, i quali, a vicenda conclusa, reclamarono
e si ebbero medaglie, rendite, esenzioni fiscali, promozioni, nomine
e prebende varie, e tutti indistintamente, nella città proclamata
Fedelissima, guadagnarono sei rotola di sale,
allincirca dodici libbre a testa?
Furono solo strumenti accidentali, detriti umani risucchiati dai
meccanismi giganteschi e freddi della Storia, guitti più
che attori, che senza avere precisa coscienza ne incepparono il
moto, riportando i ritmi della vita e della civiltà del Sud
allantico tempo lento, alimentando lillusione che quella
vita e quella civiltà potessero appagare il cuore viola degli
uomini?
Certamente, in quella barbara temperie, furono anche questo. Ma
non soltanto questo. Inespressa, ma sottesa come un filo rosso senza
alcuna soluzione di continuità, e come riecheggiata anche
ora da un sibillino coro magnogreco, è la condizione tutta
meridionale che attraversa le latitudini della storia, della narrativa,
della poesia, dellarte, dunque dellinfelicità
del Sud: la condizione dei vinti.
Come il lutto ad Elettra, come leterno tormento a Prometeo,
questa condizione si addice al Sud e ne identifica tutte le genti.
E la condizione per cui abbiamo sempre precorso i tempi, e
direi, fatalmente nello spazio dun mattino abbiamo
dissipato esperienze, primati, vantaggi aurorali. E il risvolto
catastrofico e frustrante della nostra agra commedia umana.
Solo qualche esempio. Avemmo con le Costituzioni Melfitane il maggior
monumento legislativo del Medioevo, voluto da Federico II, e con
gli Statuti di Trani il più antico codice marittimo italiano
pervenutoci in un volgare che proprio al Sud aveva ricevuto
il sigillo di lingua-madre della Penisola; e, per contro, abbiamo
subìto la più durevole stagnazione feudale della storia
europea. Gioacchino da Fiore, che pure ispirò San Bonaventura
e Dante, esaltò lutopia di un Cristianesimo spirituale
avverso alla cattività babilonese del Papato, e un antistorico
Stato Pontificio fu diaframma occludente, cortina imperforabile
che impedì relazioni, comunicazione e conoscenza fra quelle
che restano ancora oggi le due Italie. Il Regno di Napoli portò
a maturazione la rivoluzione illuministica con la Repubblica del
99, per poi appendere il fior fiore delle proprie intelligenze
alle forche innalzate nella partenopea Piazza del Mercato: perfetta,
puntuale lobotomia che vietò ai sudditi di trasmutare in
cittadini.
Il Sud annoverò con le età sveva e muratiana i momenti
riformatori più alti mai registrati negli annali della Penisola,
e ne schiantò il ciclo virtuoso con due regicidi, di Corradino
ad opera di Carlo dAngiò, di Gioacchino ad opera di
Ferdinando IV, altrimenti noto come Re Nasone.
Vinti anche questi monarchi illuminati che avevano tentato di aprire
varchi al futuro dei nostri padri. Ma vinti che, con il loro spirito
predittivo e con la loro formidabile azione, seppero illuminare
il mondo. Vinti come il Sud, con la sua storia negletta o stravolta,
con le sue genti costrette per tanti versi ancora oggi, per colpe
consumate allora, ad esportare materia grigia e cultura del lavoro.
Vinti come i siciliani di Verga, di Pirandello, di De Roberto, di
Dolci, di Vittorini, di Sciascia, i sardi della Deledda, di Dessì
e di Lussu, i napoletani di Rea, di Prisco, di Bernari e di Compagnone,
i calabresi di Alvaro, di Répaci e di Strati, i lucani di
Scotellaro, del confinato Levi e di Nigro, i pugliesi della Corti,
di Fiore, di Bernardini, di Palumbo e di Cassieri, i molisani di
Jovine, gli abruzzesi di Silone, i giovani scrittori di tutte le
nude sontuose estenuanti latitudini australi
Ma quale e quanta
sublime grandezza sulle macerie della nostra storia e della nostra
civiltà!
Allora Pizzo, anchessa più che mai vinta, è
metafora nucleare del Sud, proiezione di una costante storica, antropologica
e culturale che macula i propri tracciati esistenziali forse proprio
perché poi più marcata e riconoscibile possa emergere
una sua primordiale innocenza. Al modo di tutto questo Sud carnefice
e vittima, aristocratico e lazzarone, barbaro e raffinato, indulgente
e feroce, fariseo e ghibellino: terra di albale chiarità
e di sanguigna temperie; delta del coacervo degli italici malefici.
Continente grande e amaro.
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