Le condizioni
sfavorevoli hanno riguardato tutti
i Paesi, ma noi
abbiamo fatto peggio degli altri, mentre ci era stato promesso che
saremmo stati più veloci degli altri.
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Il cavallo non beve, appunto. Era una frase di moda negli anni
Cinquanta e Sessanta, stava a indicare che leconomia era debole,
non aveva la forza di reagire e di crescere. Una frase che potrebbe
essere usata in questi tempi nostri di congiuntura desolatamente
piatta senza aver timore di esagerare.
Lo confermano tutti i dati della produzione industriale: con avanzamenti
modestissimi, da tempo il profilo resta inferiore a quello del resto
dEuropa. Si dibatte ormai se, e di quanti decimali, la crescita
del prodotto nazionale questanno potrà superare luno
per cento, dopo due anni di zero virgola.
E vero: alcuni dati, presi a sé, non fanno una stagione.
Ma essi si aggiungono a tanti altri precedenti, dello stesso segno,
e tutti insieme inducono a chiedersi se questa successione non si
componga in una tendenza più lunga.
Nellultimo quadriennio la nostra crescita è sempre
rimasta inferiore a quella dellarea delleuro: superiore,
sì, a quella della Germania, ma soltanto fino a ieri, perché
in un anno che doveva essere di ripresa in realtà restiamo
distanziati.
La diagnosi ufficiale, almeno fino a qualche tempo fa, era quella
del destino cinico e baro: dall11 settembre in poi una serie
di shock senza precedenti; andamento esterno sfavorevole delleconomia
mondiale; costo delle materie prime, petrolio in primis. Ma quegli
shock (ammesso, ma poco concesso dai numeri, che abbiano avuto effetti
fortemente recessivi) e quelle condizioni sfavorevoli sono stati
comuni a tutti: noi abbiamo fatto peggio degli altri, mentre ci
era stato promesso che saremmo stati più veloci degli altri.
Ora cominciano a diffondersi diagnosi di più lungo periodo,
con riferimento a dati non episodici: il continuo calo della nostra
quota di esportazioni sul commercio mondiale e su quello europeo,
soprattutto nei nostri settori di specializzazione; i peggioramenti
di competitività; la stagnazione, quando non la diminuzione,
della produttività del lavoro e soprattutto della produttività
totale dei fattori, che è un indice di progresso tecnico.
Generalizzando su questi dati, e guardando quel che succede intorno
a noi, si matura una convinzione. Nellultimo decennio si è
manifestata nel mondo laccelerazione di due fenomeni: globalizzazione,
con inversione di parti fra Paesi maturi e Paesi emergenti, ora
in posizione di punta; progresso delle tecnologie dellinformazione
e delle comunicazioni. Queste sfide, come si è soliti definirle,
e non altri eventi, ci hanno trovato impreparati. Come in Alice
nel paese delle meraviglie, si doveva correre sempre più
veloci soltanto per restare allo stesso posto; noi abbiamo mantenuto
il passo, e per questa ragione siamo andati allindietro. Ma
perché?
Le analisi oramai abbondano, e tutte concordano nel ravvisare un
impedimento nelle caratteristiche assunte dal nostro sistema produttivo:
declino delle grandi imprese, e scomparsa di esse in settori di
punta; nanismo e scarsa crescita delle dimensioni delle altre imprese;
caduta di capacità innovativa, anche a motivo dellaccertata
relazione fra ricerca e dimensione; ingessamento della nostra specializzazione
in un modello non più consono ai tempi. Divergono tuttavia,
queste analisi, nellattribuzione delle responsabilità:
alle mancate liberalizzazioni, per gli uni; alla mancanza di una
politica industriale, per gli altri; a un calo di capacità
e di iniziativa della nostra imprenditoria, per altri ancora. Ma
in questo quadro, quale spazio resta per la politica economica che
non si limiti al dibattito fra liberalizzatori e sostenitori di
una politica industriale?
Le indicazioni che oggi si ascoltano si riassumono in due espressioni:
fare squadra e dare una scossa. Della prima,
esortativa, è possibile cogliere la spinta idealistica, ma
è difficile capire il significato operativo. La seconda sembra
riferirsi non altro che a sgravi fiscali, sulle persone o sulle
imprese. Certamente opportuni e benvenuti questi tagli: ma, a parte
la compatibilità con le condizioni di bilancio pubblico,
può ad essi ridursi la risposta a problemi strutturali e
di lungo periodo, se tali sono? Naturalmente no, si dirà:
servono anche la riforma complessiva delle pensioni e quella del
mercato del lavoro. Anche questa risposta pare almeno incompleta:
la riforma delle pensioni, necessaria per motivi di sostenibilità
finanziarie e di miglioramento del welfare, non costituisce di per
sé una scossa al sistema; anche se forse non
abbastanza, la flessibilità del lavoro è aumentata
negli ultimi anni.

Cerchiamo di guardare oltre, anche per spiegare la riluttanza degli
stranieri a investire in Italia. Quali che siano le colpe delle
imprese, nulla è cambiato in meglio (essendo difficile, se
non impossibile, cambiare in peggio) nellambiente in cui esse
operano e in cui i cittadini lavorano: in quelle infrastrutture
immateriali della società da cui non poco dipende la produttività
del sistema. Per esemplificare: assetti rimasti ostili alla concorrenza,
come denuncia lAutorità Garante (anche perché
in un Paese in cui mai è avvenuta una rivoluzione borghese
e profitti e rendite hanno felicemente convissuto manca una costituency
per abbatterli); tutela insufficiente dei diritti di proprietà,
a motivo della durata dei processi civili, dei tempi occorrenti
per il recupero delle garanzie, dellarcaica inefficienza delle
procedure amministrative fallimentari; complessità, tempi
e conseguenti patologie delle procedure amministrative (abbiamo
quasi un record europeo su quanto si richiede per linizio
di unattività dimpresa). E, per questo e per
molto altro, finiamo così verso il trentasettesimo posto
nelle classifiche internazionali delle condizioni favorevoli ad
attrarre investimenti.
Dunque, si dia pure, se ci si riesce, qualche scossa fiscale, piccola
o grande che possa essere. Ma non ci si illuda che essa, da sola
o con debole compagnia, basti per rimettere il nostro sistema allonor
del mondo. Se il cavallo non beve, è indispensabile una cura
da cavallo. Altrimenti avremo soltanto un effetto placebo.
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