Quando una classe dirigente cerca
di esorcizzare,
negandola, la realtà, rifugiandosi nel culto del
passato e nella
difesa dello statu quo, un Paese è condannato a
declinare in modo irreversibile.
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«La Patria, signori, non si conserva come un vecchio monumento
immobile, cingendolo di puntelli e di spranghe; la Patria è
un essere vivente, un organismo che continuamente si sviluppa, che
si conserva con il movimento ragionevole, con il giusto esercizio
di tutte le sue naturali facoltà». Scriveva così,
Massimo DAzeglio, sottolineando nella Patria un elemento dinamico,
da non imbalsamare una volta per sempre. Questo vale anche per lidentità
nazionale: «Qual è il carattere di un popolo? La sua
storia, tutta la sua storia, nientaltro che la sua storia»
(Benedetto Croce).

Argomenti del genere tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo
scorso apparvero del tutto marginali in un contesto culturale che
invece discuteva, anche animosamente, sulla società civile,
sulle classi sociali, sui movimenti collettivi, sui partiti. Fino
a quando la deriva leghista allarmò chi vide il rischio del
«cessare di essere nazione». Allora ebbe il sopravvento
una concezione dellidentità nazionale come progetto
da costruire nel tempo, artefice lo Stato. Un progetto da affidare
agli strumenti della politica, che avrebbe dovuto tendere allistituzione
di un grande ordine artificiale sostitutivo del precedente
ordine naturale fondato sulla terra e il sangue.
La realtà, oggi: la storia italiana continua ad essere una
storia in cui la complementarità tra locale, regionale e
nazionale è la soluzione adottata autonomamente dal basso
per sopperire alle carenze dellartificialismo
statale. Le originarie identità locali, infatti, sono sopravvissute
con spontanea vitalità, senza porsi in alternativa allo Stato
unitario, ma mettendone in risalto i limiti nella capacità
di mettere in moto un processo dintegrazione: ogni volta che
si è profilata una rottura particolaristica, è emerso
non tanto il rischio di «cessare di essere nazione»,
ma un deficit di azione politica, con la conseguenza di modifiche
radicali e profonde del nostro sistema politico.
Così nel Ventidue. Per scampare allattacco del Fascismo,
lo Stato liberale avrebbe avuto bisogno di un consenso ben più
ampio di quello che gli era garantito dalla asfittica partecipazione
popolare al Risorgimento. Ma, comè stato notato, cera
una sorta di tara genetica nel modo in cui si era giunti allunità
nazionale, una radicata diffidenza per ogni forma di apertura verso
il basso, nei confronti dellaccelerazione di processi dintegrazione
che avrebbero inevitabilmente comportato una crescita della partecipazione
democratica. Prefetti, esercito, scuola, azioni repressive: tutto
questo non bastava a fare gli italiani. Occorreva qualcosa
di più sul piano della cultura e, soprattutto, su quello
della politica, della capacità dinventare idee-forza
in grado di far sentire tutti parte di una legge comune, di una
cittadinanza attiva e non neghittosa.

E così nel passaggio dalla dittatura allItalia repubblicana
(si ricordi di quegli anni la vicenda del separatismo siciliano),
e, ovviamente, negli anni Novanta della transizione dalla Prima
alla Seconda Repubblica (con la Lega protagonista di una netta discontinuità
nel nostro sistema politico). Dietro langolo cè
stata sempre la Patria municipale che Gioberti vedeva
radicata lungo il percorso «casa, famiglia, parenti, amici,
poderi, traffico, industria, clientele, cariche, reputazione».
Gli italiani non sono nati privi del senso dello Stato. Lo sono
diventati. La svolta si ebbe tra la fine del Quattrocento e i primi
anni del Cinquecento. Fu allora che lItalia fallì lancoraggio
alla storia della modernità politica incarnata nellaffermazione
dei primi grandi Stati nazionali. Sazi di traffici e di ricchezze,
i comuni italiani si ritennero appagati, dunque diffidenti nei confronti
di concezioni politiche innovative, comunque tutti presi dalla concezione
materialistica di uno sviluppo economico che sembrava inarrestabile.
Fu un vulnus politico (aggravato dal consolidarsi del
dominio spagnolo nella Penisola) e culturale che allepoca
vide i nostri intellettuali farsi interpreti di virtù
tutte contraddistinte dallindifferenza per la cosa pubblica,
dallaffermazione individuale da perseguire con lopportunismo,
con il calcolo, con un pragmatismo tragicamente svuotato di ogni
ideale. Giovanni Della Casa, con il suo Galateo, si
propose come il massimo esponente di questa ideologia: il perno
della sua argomentazione era emblematizzato in un terribile avverbio:
mezzanamente. Neanche la discrezione aveva diritto di
cittadinanza. Obiettivo dichiarato era quello di mimetizzarsi tra
gli altri, di «temperare e ordinare i tuoi modi non secondo
il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co quali tu
usi».
Fecero eccezione, in quel contesto, il Piemonte e Venezia, luno
e laltra non a caso geograficamente marginali rispetto al
resto della Penisola. I Savoia e la Serenissima avviarono lunico
esperimento riuscito di fusione virtuosa tra interessi privati e
bene comune allinterno di una cornice istituzionale. I Savoia
seppero imbrigliare ben settemila feudatari con una rigida politica
centralistica il cui presupposto portante era una fiducia
che i Signori delle Città-Stato (schiavi di un
egocentrismo sfrenato e di una concezione patrimoniale della cosa
pubblica) non erano riusciti ad ispirare ai propri sudditi. Venezia,
ancor di più, fu in grado di sottrarsi alla concorrenza devitalizzante
della Chiesa temporale (tesa, sì, al monopolio delle coscienze,
ma anche delle identità politiche), di legittimarsi sulla
base di leggi condivise, di norme di polizia, di apparati di difesa
e di offesa, di politiche fiscali, di organi burocratici efficienti.

La nostra annosa incapacità di ritenere il gesto individuale
in relazione a un contesto di valori più generali non è
quindi un dato uniforme e meno che mai scontato: il Piemonte eretico
nei confronti dellaltra Italia e Venezia con il
suo laico spirito del capitalismo testimoniano una realtà
più complessa e articolata.
Oggi, mentre la statualità si ritrae, mentre lo Stato si
snellisce di compiti e di funzioni, ma anche di credibilità
e di fiducia, mentre a costruire identità nazionale
sono quasi esclusivamente il mercato e il sistema dei media, nella
maggioranza degli italiani riaffiora un modello identitario fondato
su unopprimente sovrapposizione tra valori e interessi economici:
quasi la riproposizione postmoderna delle gesta dei Signori
delle nostre città rinascimentali. E tutto questo, quando
non abbiamo ancora finito di pagare il prezzo di scelte vecchie
ormai di cinque secoli.
Sostituiamo ora il termine Signori con Ideologie,
cioè con i pensieri politici (e partitici) e con le posizioni
culturali che hanno condizionato nel bene e nel male orientamento
e sviluppo civile, economico e sociale dal secondo dopoguerra ai
nostri giorni. E portiamo la riflessione sul piano della nostra
Magna Charta, che del confronto-convergenza, vale a dire delle compromissioni
di quelle ideologie, è stata frutto e motore primo della
vicenda italiana dalla Costituente in poi. Due le posizioni sul
tema: quella di chi ritiene che oggi si riveli illiberale, ovviamente
nella sua prima parte quella, appunto, più ideologizzata
e che pertanto, non trattandosi del Corano, può e
deve essere emendata; e quella di chi, al contrario, ne esalta la
formidabile spinta innovatrice, che ha consentito allItalia
di inserirsi tra i Paesi più evoluti delletà
contemporanea.
Contenuti della prima posizione: vige una forma di egemonia che
mortifica il cittadino e rallenta la modernizzazione; a sessantanni
dalla caduta del Fascismo e a quindici dalla crisi del Comunismo
internazionale, la cultura politica dominante, la natura dellOrdinamento
giuridico, la struttura socio-economica sono ancora collettiviste,
stataliste, dirigiste, corporative e, in una parola, illiberali.
Scrive Piero Ostellino: «LItalia conserva dellautoritarismo
fascista e del totalitarismo comunista il pregiudizio ideologico
e le chiusure sociopolitiche e socioeconomiche nei confronti dei
diritti soggettivi naturali della Persona. Linnesto, nellimmediato
dopoguerra, della cultura collettivista marxista sul tronco corporativo
fascista ha addirittura peggiorato le cose. I due estremi si sono
incontrati in una concezione organicista della società».
In sintesi: lOrdinamento giuridico non si fonda sullindividuo,
ma su unastrazione collettiva, il lavoro (art.
1 della Costituzione). Esso riconosce i diritti delluomo,
al quale però chiede ladempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale
(art. 2). Il diritto al lavoro deve comportare il
dovere di svolgere... unattività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società
(art. 4) ed è vincolato ad un esame di Stato... per
labilitazione allesercizio professionale (art.
33). Persino la libertà di emigrazione è
subordinata allinteresse generale (art. 35). Liniziativa
economica privata è libera, ma non può
svolgersi in contrasto con lutilità sociale (art.
41), così come la proprietà privata è
riconosciuta e garantita dalla legge, che... ne determina i limiti
allo scopo di assicurarne la funzione sociale (art. 42). E
poiché è chi detiene il potere costituito a stabilire
cosa siano il progresso della società, linteresse generale,
lutilità e la funzione sociale, non è difficile
coglierne le potenzialità illiberali. Al pari delledificazione
del socialismo in Urss e del pensiero del Duce nel Ventennio, sono
un limite che il potere pone allesercizio delle libertà
individuali.
Gli Ordini professionali sono la proiezione socio-economica, «il
frutto avvelenato dellincestuosa alleanza fra società
politica e società civile, entrambe ostili al mercato. Mandati
in soffitta Karl Marx e Giovanni Gentile, i postmarxisti e i postgentiliani
si sono limitati a sostituire il Comunismo e il Fascismo con una
sorta di Neocomunitarismo; il quale altro non è che la versione
edulcorata, ma ugualmente anti-individualista, di entrambi».
Anche quel po di liberalismo che si è aperto un varco
nellegemonia autoritaria e totalitaria, (quello tradotto dal
tedesco da Croce), è anti-individualista, permeato comè
di hegelismo. Per Croce, lo Stato non è il garante dei diritti
individuali (compresa la proprietà), ma la sede di valori
etico-politici che trascendono storicamente lindividuo. Sostiene
Raimondo Cubeddu: «Nellindifferenza crociana verso le
istituzioni politiche entro le quali si sarebbe realizzata la libertà,
e nellaffidarla a un processo storico la religione
della libertà si assiste così a unaltra
singolare estraniazione dalla tradizione liberale la quale, al contrario,
ha da sempre posto lattenzione sulle istituzioni intese come
garanzie delle libertà individuali».
Così la Costituente, monopolio di marxisti, gentiliani e
crociani, ha prodotto, ieri, la Costituzione che continuiamo anacronisticamente
a celebrare, e alla cui riforma si oppongono, oggi, i postmarxisti
e i postgentiliani, «accomunati nella teologica (e teleologica)
avversione per il liberalismo».
La replica di chi ha scelto la seconda posizione. La Costituzione
ha assecondato sessantanni di un progresso senza precedenti
nella storia dellItalia moderna, e con pochi eguali al di
fuori. Un progresso non limitato al campo economico, in cui, pure,
ha rovesciato la precedente condizione della Penisola in quella
di Paese fra i primi al mondo per struttura delleconomia e
per prodotto nazionale e redditi individuali. Un progresso che ha
visto un rapido passaggio dai costumi di una società tradizionalista,
ancora molto immersa nella ruralità, a quelli di una società
allineata alle più libere di oggi, con un formidabile incremento
degli spazi di libertà individuale.

Sinossi di Giuseppe Galasso:
1) Alla Costituente non operò solo un trio marx-gentilian-crociano.
Ebbero un ruolo, in positivo e in negativo, i cattolici, che avevano
il 40 per cento dei seggi della stessa Costituente.
2) Il contenuto di socialità non fu un anormale caso italiano;
nacquero allepoca altre Costituzioni europee, e in tutte vi
fu la tendenza ad ampliare sul piano sociale il quadro tradizionale
dei diritti, senza voler derogare dallindividualismo e dal
liberalismo.
3) Questo ampliamento non era una novità europea. Era stato
già percorso dalla liberaldemocrazia americana di Roosevelt
(con il New Deal) e di Truman (con il Fair Deal).
4) Socialità e individualismo non si escludono necessariamente.
Nella Costituzione ci sono relitti corporativi e daltro genere,
eredità del passato, (come ve ne sono nella liberalissima
Inghilterra), che però non danno il tono allinsieme
e possono essere eliminati con i referendum.
5) Le istituzioni italiane consentono ampie garanzie, molte di più
delle celebri quattro di Roosevelt: bicameralismo, Corte costituzionale,
habeas corpus, tre gradi di giustizia sia penale e civile che amministrativa
e tributaria, diritto del lavoro, pubblicità delle procedure,
referendum...
6) Il liberalismo, come del resto ogni altro regime, non deve mai
riposare solo sul suo quadro istituzionale. Le garanzie non sono
nulla se al loro interno non vive e vigila e opera uno spirito etico
e politico della libertà, (si diceva un tempo che la monarchia
inglese era più repubblicana di molte repubbliche; e questo,
non altro, era il senso della posizione di Croce, il quale non era
un mero scoliaste di Hegel e non traduceva, come liberale, dal tedesco,
ma dal piemontese di Cavour e dal francese di Constant, di Guizot,
di Tocqueville).
Non mancano le controrepliche. A parte il fatto che ci sono Stati
che hanno cambiato la Costituzione per necessità (Spagna,
Portogallo e Grecia dopo la fine delle dittature, la Germania dopo
la riunificazione, la Cechia e la Slovacchia dopo la separazione,
tutti i Paesi dellEst europeo dopo il crollo dellUrss...)
o per mettersi al passo, se non al trotto con i tempi (la Francia
insegnerà pure qualcosa!), senza alzare al cielo lamenti
o scagliare anatemi, va rilevato un fenomeno tipico della cultura
politica, e non soltanto politica, italiana. Da noi ci sono parole
che il tempo ha logorato, e delle quali luso improprio ha
deformato il significato originario. Dialogo, ad esempio:
nel lessico della classe politica non è più disponibilità
a conoscere le ragioni dellaltro, ma è diventato più
o meno sinonimo di appeasement, cioè di inclinazione,
per quieto vivere o per altre strumentali esigenze, a far concessioni
allaltro (lopportunismo passatista predicato dal Della
Casa). E poi, confronto, al quale la classe politica,
ma non soltanto politica, ricorre per rifiutare, o per surrogare,
il conflitto sociale, impedendo così lautentica forza
propulsiva di ogni società aperta. Allo stesso modo: in nessuna
lingua al mondo esiste la parola liberismo, che in italiano
serve a distinguere il liberalismo economico da quello politico,
come se le libertà economiche non siano una delle componenti
di quelle politiche.
Conferma Ostellino: quando una classe dirigente, politica o no,
«cerca di esorcizzare, negandola, la realtà, sostituendo
il significato originario delle parole con una sorta di neo-lingua
di legno, rifugiandosi nel culto del passato e nella difesa
dello statu quo, un Paese è condannato a declinare e, quel
che è peggio, rischia di declinare in modo irreversibile.
E esattamente ciò che sta accadendo allItalia».
Dunque: abbiamo una classe dirigente che, a tutti i livelli, pensa
vecchio, perché è concettualmente prigioniera
di una cultura che si chiede (filosoficamente) perché
le cose avvengano, e non come (empiricamente) avvengano;
una cultura, cioè, che giudica prima di capire,
fatta per filosofare e non per fare. Ecco
che cosa ci differenzia dagli anglosassoni: noi continuiamo a guardare
al mondo per categorie ideologiche (giustizia, eguaglianza, sviluppo),
sostanzialmente mutuate dal secolo dellidealismo trionfante,
dei totalitarismi dogni tipo che abbiamo combattuto e ripudiato,
ma di cui conserviamo singolarmente il linguaggio.
Gli anglosassoni non hanno mai smesso di guardare al mondo per problemi
concreti (issues), ai quali conferiscono priorità
politica a seconda delle circostanze.
Noi, al contrario, dopo non aver capito, ieri, che il Comunismo
era una religione truccata da programma politico (uneresia
cristiana, venne definito), non capiamo, oggi, che lintegralismo
islamico è un programma politico truccato da religione. Per
inventare un moderno welfare (con Beveridge, un liberale), il Regno
Unito non ebbe bisogno, come invece noi, di stravolgere le libertà
negative del liberalismo (libertà da, come non
impedimento), vincolandole e subordinandole alle libertà
positive della democrazia (libertà di, come opportunità).
Molto semplicemente, non ha confuso, anzi ha tenuto correttamente
separati, il concetto di libertà e quello di benessere. Lincapacità
di attuare una reale inversione di tendenza in politica interna;
la passiva subordinazione agli interessi altrui in politica estera;
il rifiuto di aggiornare alle domande del nuovo secolo (il secolo
dellindividuo, del mercato, della globalizzazione delleconomia
e delle comunicazioni) le istituzioni e lorganizzazione sociale;
il mantenimento di un sistema economico statalista e protezionista
sono la prova del ritardo culturale, forse prima ancora che politico,
della nostra classe dirigente nello stare al passo, o al trotto,
con i tempi.
Daltra parte, allinerzia della classe politica va sommata
la quasi assoluta assenza di capacità di elaborazione teorica
da parte del cosiddetto mondo intellettuale, che rimane la musa
cortigiana del Principe, di cui canta i molti vizi più
volentieri di quanto non coltivi le scarse virtù. Perciò
nessuno sembra in grado di produrre un modello di organizzazione
che simultaneamente garantisca le libertà individuali e la
crescita economica.
Non dico una radicale e pacifica rivoluzione borghese, ma neanche
un accettabile riformismo sembra avere cittadinanza in Italia, perché
sia i conservatori sia i progressisti hanno sottoscritto una sorta
di armistizio con gli interessi organizzati. I conservatori ci hanno
provato ad essere riformisti, ma si sono avvitati sulla loro vocazione
corporativa. I progressisti non ci provano neppure, perché
in cambio della propria legittimazione si sono eletti a rappresentanti
degli interessi dellestablishment industriale, economico,
finanziario e intellettuale che, per sua stessa natura, è
conservatore. Gli uni e gli altri, anche se per ragioni e con culture
diverse, sono convinti che compito della politica sia realizzare
la convergenza fra quegli interessi, e non fra singoli individui
dotati di razionalità e di libertà, e capaci di organizzare
da sé i rapporti con i propri simili.
La libertà tanto più cresce quanto più si allargano
gli ambiti dei diritti naturali soggettivi, allinterno dei
quali ciascun individuo è libero di agire come preferisce,
e quanto più si riducono i divieti.
E stato questo individualismo salutare a creare il miracolo
occidentale. Ed è stata la libera competizione a infondere
fiducia e vigore a società costituite da uomini liberi e
intraprendenti.
Ed è con questa stessa logica di riformismo che dovrebbe
aver luogo anche il processo di unificazione europea. Il quale pare
invece limitarsi a sostituire con una nuova sovranità
europea le vecchie sovranità nazionali,
a loro volta sostitutive delle antiche signorie e sovranità
regali. La tendenza è verso la negazione del pensiero
di Montesquieu, secondo il quale «il potere arresta il potere»,
e verso lenfatizzazione del pensiero di Rousseau, con una
sorta di riemergente Volontà Generale, riattualizzata incarnazione
del monarca assoluto, che dovrebbe governare la Nazione Europea
come se questa non sia costituita da una moltitudine di individui,
ma sia espressione di nuove astrazioni collettive, le
stesse che hanno impedito agli Stati-nazione del Vecchio Continente,
figli della Rivoluzione francese, e prima ancora di
quelle inglese e americana, di essere economicamente e culturalmente
liberali.
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