La prospettiva
è quella di
unEuropa che
finirà per pregare in arabo, e che
al posto dei
campanili avrà
i minareti che
trafiggeranno il cielo cristiano con la loro mezzaluna metallica.
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La storia era cominciata in Francia, nellottobre 1989, in
un collegio di Creil, dove si presentarono a lezione tre ragazze
con addosso il tradizionale hijab islamico. Le autorità scolastiche
chiesero a costoro di togliersi il velo durante le ore scolastiche.
La polemica nacque dal fatto che, di fronte al loro rifiuto, condiviso
e anzi sostenuto dalle loro famiglie, le tre ragazze vennero espulse.
Lepisodio suscitò scalpore e, in gesto di solidarietà,
un po in tutta la Francia altre ragazze di fede musulmana
si presentarono a scuola con il velo. A questo punto lepisodio,
in origine marginale, divenne un fatto politico che non poteva più
essere ignorato: da una parte si schierarono coloro i quali, in
nome della libertà di espressione religiosa, sostenevano
che, se veniva proibito il velo, dovevano scomparire dalle aule
tutti i simboli religiosi; dallaltra presero posizione coloro
i quali, pur riconoscendo il diritto di tutti allo studio, comunque
riaffermavano la propria identità culturale fondata sui princìpi
cristiani e respingevano i tentativi islamici di esercitare azioni
di proselitismo persino nelle scuole.

Le polemiche sono tuttora in corso e coinvolgono altre sfere, comprese
quelle della distinzione fra la permeabilità delle posizioni
etniche, che è un dato accettabile, e linalienabilità
dei valori culturali di un Paese ospitante, che non possono essere
stravolti dallaggressività integralista, escludente,
intollerante, di chi viene ospitato.
Conosciamo bene le vicende italiane di un musulmano, presto emulato
da altri correligionari, il quale reclamava la rimozione del crocefisso
dallaula scolastica frequentata da uno dei suoi figli. Anche
in questo caso polemiche a tutto spiano: se i movimenti islamici
affermano che il velo non è una semplice manifestazione di
moda, ma un irrinunciabile simbolo di appartenenza culturale, non
si vede perché i cristiani, o comunque gli occidentali che
non possono non dirsi cristiani, comunque la pensino, non debbano
ritenere irrinunciabile la presenza di un crocefisso proprio là
dove ciascuno di essi riceve ed elabora i princìpi in nuce
della propria cultura, e dunque della propria identità.
In Italia è riconosciuta la libertà di religione e
di culto. Dunque, se i musulmani sono disturbati da unora
settimanale di lezione sulla storia delle religioni, hanno facoltà
di lasciare laula e di dedicarsi ad attività alternative;
se poi a disturbarli è limmagine del crocefisso, è
affar loro: nessun docente lo userebbe come una clava, anche perché
radici identitarie a parte linsegnamento dato
da «quel corpo rinsecchito di un ebreo suicida» (come
elegantemente venne definito Cristo dal musulmano in questione)
era del tutto diverso da quello delle guerre sante, che hanno riguardato
la storia euro-mediterranea solo parecchi secoli fa, e non letà
contemporanea.
Anche nel caso italiano le polemiche proseguono, a volte sotterranee,
altre volte alla luce del sole, basate su contrapposte politiche
del riconoscimento, secondo le quali da una parte vanno riconosciuti
i diritti culturali delle comunità minoritarie, ma dallaltra
si esige la protezione di quelle di gran lunga maggioritarie, la
cui cultura è impregnata dellinsegnamento cristiano:
e non ci può essere neutralità dello Stato che possa
in qualche modo scalfire i valori nei quali si riconosce la gran
parte dei cittadini.

Ritenevamo limitata a questi due ambiti (la Francia e il velo,
lItalia e il Crocefisso) la questione. E ci ingannavamo. Nellera
di Zapatero, è esplosa in Spagna una terza polemica, che
ha innescato anche in terra iberica un dibattito serrato, senza
esclusione di colpi, che sta alimentando il sospetto che non di
casi isolati si tratti, bensi di unazione coordinata, diffusa,
radicale del mondo islamico contro quello cristiano.
Dunque: nella Spagna colpita al cuore dal terrorismo islamista,
San Giacomo Zebedeo, evangelizzatore di quella Penisola e santo
patrono della stessa Spagna, non è politicamente corretto,
almeno nella sua veste guerresca di Santiago matamoros,
il santo che uccide i Moros, vale a dire i musulmani
arabi e berberi. Una statua di Santiago, che brandisce lo spadone
e calpesta sotto gli zoccoli del suo cavallo islamici inturbantati
in preda al terrore, dovrà essere rimossa nientemeno che
dalla cattedrale di Santiago de Compostela, e sostituita da una
statua dello stesso santo nella mite versione di pellegrino.
I canonici della cattedrale, fulminati dallideologia comunitarista,
nelle segrete stanze di questa gran chiesa, meta finale di milioni
di visitatori ogni anno a partire dal Medioevo, hanno preso la decisione
dicono perché non vogliono che «persone
di altre culture possano sentirsi offese». Si tratta di «evitare
suscettibilità» e di «non ferire la sensibilità
di altri gruppi etnici». In altri termini, dei musulmani.
Il portavoce della cattedrale ha sottolineato che il ritiro della
statua era stato deciso già da parecchio tempo, e in ogni
caso ben prima degli attentati dell11 marzo che hanno insanguinato
Madrid; e hanno ribadito che la questione era già in discussione.
Se non che questi chiarimenti (excusatio non petita) non hanno convinto.
Sono in molti a pensare che le bombe che hanno devastato i treni
madrileni abbiano suggerito e poi accelerato la decisione. E le
critiche piovono contro i responsabili della cattedrale. In un editoriale,
il giornale El Mundo dichiara senza mezzi termini che liniziativa
offende milioni di spagnoli che vedono in Santiago un simbolo di
identità nazionale, e scrive che Oriana Fallaci si sentirebbe
intimamente riconfortata nella sua idea che la Chiesa cattolica
è troppo passiva nei confronti delloffensiva integralista
islamica.

Serafin Fanjul, docente di letteratura araba allUniversità
autonoma di Madrid, spiega che il pretesto di non ferire la sensibilità
dei musulmani non convince proprio per niente: «Come ignorare
che la nazione spagnola si è forgiata nella volontà
collettiva di non voler essere musulmana e che la figura di Santiago
ha svolto un ruolo centrale in questo processo?».
La statua policroma, opera del secolo XVIII di José Gambino,
dovrebbe essere collocata nel Museo della cattedrale dove, si ritiene,
ferirà meno gli animi più sensibili. La diffusione
del mito di Santiago è legata ai secoli della Riconquista,
il periodo di lotta dei sovrani cristiani per riprendere il controllo
dei territori sotto il dominio musulmano. Durò ben cinque
secoli e culminò con la caduta della città di Granada,
nello stesso anno in cui Colombo approdava nelle Americhe, quel
1492 che in seguito avrebbe fatto inclinare a occidente la storia
che a lungo si era fermata sulle sponde del Mediterraneo.
In questo periodo si foggiò la leggenda dellapostolo
Santiago, cioè San Giacomo, sepolto in Galizia al termine
di un misterioso viaggio dalla Palestina. Fu un mito efficace nella
guerra contro i musulmani: il santo apparve ai combattenti cristiani,
in groppa al suo cavallo bianco, e li incitò fino alla vittoria
nella battaglia di Clavijo, nel IX secolo. Fu la prima delle apparizioni
guerresche e venne seguita da molte altre. Santiago si rivelava
ogni volta che i cristiani si battevano contro i Moros:
e questa fu la ragione di fondo che spinse i fedeli a riconoscergli
il supremo onore di essere il patrono della Spagna.

Il Santiago Pellegrino è stato subito ribattezzato
Santiago Zapatero. E questa trasformazione del nome
del santo, fratello di san Giovanni, la dice lunga sullo sconfinamento
delle polemiche in territorio politico. E questo lo spirito
dei tempi? Ha scritto Lorenzo Mondo di essere rimasto «decisamente
interdetto per la vestizione di capitan Santiago Matamoros, la sua
riduzione in abiti dimessi». E ha aggiunto: «Capisco
lonestà dellispirazione apprezzata da osservatori
di riconosciuto equilibrio, meno la congruenza e lopportunità
del bersaglio; si è quel che si è (si deve esserlo)
senza condizioni, anche se è legittimo rintuzzare limpudenza
di chi, non avendo mai fatto in casa propria esperienza di libertà,
pretende di abusare della nostra». E ha citato gli esempi
del nostro Paese, dove qualcuno ha intimato di epurare la Divina
Commedia che colloca Maometto allInferno, mentre altri hanno
minacciato di far saltare la cattedrale di Bologna a causa «di
un affresco giudicato sacrilego».
Paolo Mieli cita anche Alberto Indelicato, il quale si è
chiesto se i promotori di questa iniziativa «siano stati informati
degli appelli del Papa perché lEuropa riconosca nella
Costituzione le sue origini cristiane e se sappiano che egli ha
anche proclamato la santità di Marco dAviano, che a
Vienne, nel 1689, infiammò i popoli europei alla resistenza
contro linvasione islamica ottomana, dopo che già da
secoli è stato proclamato santo il francescano Giovanni da
Capistrano, che nel 1456 aveva contribuito alla liberazione di Belgrado
dallassedio islamico». Insomma, sotto accusa è
il relativismo etico dei comunitaristi cristiani (alcune alte gerarchie
incluse), che attuano una strategia di lunga durata, volta ad accogliere
e convertire le masse arabe e berbere, turche e medio-orientali
che affrontano i rischi del mare per sbarcare nel continente europeo,
mentre in realtà stanno realizzando una strategia difensiva,
e in alcuni casi anche di ritirata di fronte allintegralismo
islamista.
E poiché sono i numeri a dare ragione, visti i cali demografici
europei e le vertiginose crescite di quelli musulmani, la prospettiva
secondo i pessimisti è quella di unEuropa
che finirà per pregare in arabo, e che al posto dei campanili
che svettano accanto alle chiese e alle cattedrali avrà i
minareti che trafiggeranno il cielo cristiano con la loro mezzaluna
metallica, situati accanto alle moschee dellIslam dellEurabia.
Un interrogativo che si pongono anche gli intellettuali arabi e
di fede musulmana è questo: come mai luniverso islamico
è così ostinatamente refrattario allidea stessa
di democrazia e di tolleranza? E come mai, al di là dei suoi
confini, oltre che nel mondo europeo, anche in quello asiatico il
valore della disciplina è bilanciato da quello di alcune
libertà politiche? Risponde un Premio Nobel, Amartya Sen,
nel suo libro La democrazia degli altri: «Una delle più
antiche e ferme difese della tolleranza, del pluralismo e del dovere
(da parte dello Stato) di proteggere le minoranze, può essere
letta nelle iscrizioni di Ashoka, il celebre imperatore della dinastia
Maurya, vissuto nel III secolo a.C.». Non basta. In Giappone,
nei primi anni del VII secolo, il buddhista principe Shotoku, che
governava come reggente di sua madre, limperatrice Suiko,
introdusse una Costituzione relativamente liberale, nota come Costituzione
dei diciassette articoli. Essa poneva laccento proprio
nello stesso spirito della Magna Charta (emanata in
Inghilterra sei secoli dopo, nel 1215) sul fatto che «le decisioni
importanti non devono essere prese da una sola persona e devono,
invece, essere discusse da molte persone». Inoltre suggeriva:
«Non dobbiamo provare rancore quando qualcuno non è
daccordo con noi perché tutti gli uomini hanno un cuore
e ogni cuore ha le sue inclinazioni; ciò che per noi è
sbagliato, per altri è giusto, e ciò che per noi è
giusto, per altri è sbagliato». Tutti gli studiosi
sono unanimi nel concordare con Nakamura Hajim che considera questa
carta del 604 «il primo passo compiuto dal Giappone nel graduale
sviluppo della democrazia».
Amartya Sen ricorda fra laltro che alla fine del XVI secolo
il grande imperatore moghul Akbar, con la sua fiducia nel pluralismo
e nella funzione costruttiva delle discussioni pubbliche, proclamava
in India la necessità della tolleranza e si impegnava a favorire
il dialogo tra genti di fede diversa (compresi indù, musulmani,
cristiani, parsi, janisti e persino atei), al tempo in cui in Europa
cera ancora una severa Inquisizione.
Questo è il dramma che vivono gli intellettuali musulmani
moderati: essi sono consapevoli del fatto che un minimo di liberalismo
dovrebbe partire come dato di fatto dallesistenza di una pluralità
di valori che, per quanto irriducibili, sono solo potenzialmente
e non sanguinosamente in conflitto tra loro. Questo dato di fatto
della vita morale delluomo non conduce necessariamente alla
disgregazione sociale. Al contrario, se correttamente elaborato
da un punto di vista sia filosofico sia politico, esso fonda la
società aperta.
Le società contemporanee possono essere multietniche, e ciò
dà origine a problemi che non possono essere trascurati,
dai diritti umani a quelli civili; ma non possono essere multiculturali,
pena la distruzione della tradizione occidentale. Lo tengano bene
a mente coloro i quali staccano i Crocefissi o mettono il burka
ai Santi.
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