De Donno ha
portato quella sua lingua materna fino ai confini dei territori
della
riflessione
filosofica; ne ha fatto parola
poetica tesa a
scovare il senso del destino degli esseri e delle cose.
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Come sangue nelle vene, come brivido di febbre, per tutta la poesia
di Nicola De Donno scorre quel senso di naufragio che è stato
dimensione psicologica, condizione poetica, cifra dell’essere
e dell’esistere del Novecento europeo.
E’ il naufragio dei giorni, dei pensieri, delle azioni, dei
sogni; è il naufragio delle ideologie private e collettive,
un rotolare di barchette di carta nello sgusciare di un rivolo lungo
i margini della soglia del vivere quotidiano.
A queste barchette, il poeta (l’uomo) consegna l’orizzonte
incerto e il grumo di significato della propria avventura, del viaggio
di un disincantato Ulisse richiamato dalla sirena dolcissima e bugiarda
della vita. Barchette stracolme di sogni così grandi da sembrare
verità; barchette che vorticano e s’inabissano dentro
il primo gorgo degli eventi, sotto la prima pioggia della realtà
che si rovescia loro addosso. Tante barche affondano ogni giorno.
Altrettante il poeta (l’uomo) ogni giorno ne costruisce.
Poi un giorno l’uomo dice basta. Il poeta invece continua
a costruire le sue barchette di carta: scrive parole sopra i fogli,
li ripiega, ne fa forme: forme di poesia. Le appoggia, piano, sull’acqua
di quel rivolo che gli sembra un gran fiume che corre verso il mare.
Le guarda barcollare con la tenerezza e la malinconia di un bambino
che si accorge che un gioco comincia a finire, le vede incagliarsi
nella fanghiglia, schiantarsi contro ciottoli banali.
Ma perché poi – si chiede Nicola De Donno – perché
– si chiede, quando il poeta si ritrae per lasciare l’uomo
in fondo alla propria solitudine – per quale motivo scrivere
tante vane parole e tante vane carte, se di tante vanità
non resta niente che sia almeno appena più di niente.
Nicola De Donno rivolge a se stesso la stessa domanda che a se stesso
rivolge Fernando Pessoa, nel tentativo di mettere un po’ d’ordine
nella confusione di vita e di poesia, di capire per quale ragione
diventa impossibile rinunciare a martoriare fogli.
E poco importa a Fernando Pessoa e a Nicola De Donno, e a tutti
quelli che in qualche modo gli assomigliano, davvero non importa
accorgersi ad un certo punto che nel negozio di tabaccheria c’è
più vita di quanta ce ne sia in tutta la poesia. Non gli
importa perché Pessoa e De Donno e tutti gli altri che gli
rassomigliano se ne accorgono sempre quando è troppo tardi,
non gli importa perché in realtà hanno sempre saputo
che il padrone della tabaccheria lascerà l’insegna
e loro lasceranno dei versi, che sparirà l’insegna
e spariranno i versi, e la strada dove fu l’insegna e la lingua
in cui furono scritti i versi. Non gli importa perché hanno
imparato che una cosa è inutile quanto un’altra, che
l’impossibile e il fantastico sono stupidi quanto il certo
e il reale, il mistero del fondo come quello della superficie.
Allora, si dicono, se tutto è inutile tanto vale lasciarsi
vivere in questa confusione, tanto vale scrivere in questa confusione,
raccontare il riflesso e la rifrazione delle cose e delle storie,
levigare poesie come piccoli o grandi specchi su cui sia possibile
guardarsi per riconoscersi, per ritrovarsi, per disperdersi nella
moltiplicazione delle immagini, nelle deformazioni che gli specchi
producono. E scrivere degli altri, scrivere di sé, di chi
si è conosciuto, di chi non si è mai incontrato, per
farli ritornare, per farli appartenere anche un solo istante alla
propria vita.
Nicola De Donno pronuncia queste domande con le parole della sua
lingua di dentro: il dialetto di Maglie.

Ad Aldo Bello che in un’intervista, contenuta in quel libro
che è una sorta di memoria di voci raccolte nel corso di
un viaggio e che s’intitola Amare contee, gli chiede se scrivere
in lingua salentina dà particolari rispondenze, De Donno
risponde: scrivo in dialetto magliese perché è la
mia lingua materna, per poter continuare a viverle accanto.
De Donno ha portato quella sua lingua materna fino ai confini dei
territori della riflessione filosofica; ne ha fatto parola poetica
tesa a scovare il senso del destino degli esseri e delle cose, a
scoprire e a rivelare la dimensione profonda dell’esistere.
La poesia in dialetto come scelta ideologica, come adesione alla
sperimentazione di un linguaggio nuovo ricavato da quello antico
della Terra Madre, dell’origine, dell’appartenenza intima,
interiore. Questo è stato il dialetto per Nicola De Donno,
la poesia dialettale che per quarant’anni ha tessuto e ritessuto
fino a riuscire a trasformarla in codice e strumento capace di fare
perfino filosofia, di parlare di se stesso, di porsi una vecchia,
assurda, domanda: ha più importanza la vita o ne ha più
la filosofia? E quale esperienza divide l’una dall’altra,
quale distanza di pensiero e di parola le separa? Oppure c’è
un destino misterioso che le accomuna, un filo invisibile, un segreto
che le annoda come un abbraccio totale, un vizio incallito, un desiderio
spasmodico, una travolgente passione.
Nicola De Donno era arrivato ad un punto in cui non riusciva più
a capire se c’è una differenza e, se c’è,
quale sia.
Era arrivato ad un punto in cui ogni passo, ogni gesto, un batticuore,
un’insonnia, un trasalimento, un dolore, si trasformano in
parola che segue un’altra parola, in un verso che contiene,
che stringe una scaglia di tempo: un giorno, un attimo, una stagione,
una veglia, un’attesa. Nicola De Donno era arrivato al punto
in cui il tempo che si vive, il tempo che è stato concesso
da Colui che ha il potere di concedere e togliere il tempo, trova
il proprio senso in quel verso, in quelle parole che scorrono così,
come trascorrono i giorni e le ore, nella casa a corte, tra i libri,
i quadri, le domande assolute, essenziali, che bussano alla porta
di notte e di giorno, e pretendono una risposta altrettanto assoluta,
essenziale.
Forse era arrivato anche al punto di poter dare risposte, Nicola
De Donno. A se stesso. Perché, in fondo, le risposte si danno
solo a se stessi.
Filosofia e poesia in dialetto; il pensiero e il linguaggio; il
senso e il testo; il cervello e il cuore; la memoria e la storia;
la lingua come pelle e il pensiero come tormento, tutto legato,
intrecciato, impastato in una sola esistenza, senza differenza,
in una confusione di giorni e di parole, senza nessuna distinzione
tra il vivere e lo scrivere, tra lo scrivere e il pensare, tra il
vivere e il filosofare.
Quel filosofare che per Nicola De Donno è la solita interrogazione
che ha sempre la solita risposta; una risposta che traduce, che
esprime lo sgomento per il vuoto che si apre dentro e intorno, per
le storie che cominciano e che finiscono, per quell’oscillare
al vento di un presente che non ha niente prima e non ha niente
dopo, che non ha ieri e non ha domani, ma accumula ogni cosa, ogni
volto, ogni esperienza nel qui e nell’ora che si vive, scompigliato
dalla tempesta di una transitorietà vorace, imprigionato
dalla rete dell’inconoscibile, del nulla senza varco e senza
scampo.
Nicola De Donno se n’è andato nella notte tra il sette
e l’otto di marzo.
Ha pubblicato tredici raccolte in dialetto salentino-magliese. Molti
saggi. E una bella raccolta di racconti popolari in lingua dialettale
con traduzione italiana.
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