Per salvare l’uomo
contemporaneo dalla trappola
del pensiero unico e totalizzante, che genera violenza, dobbiamo
riconoscere nella vita quotidiana
la dignità e la
diversità dell’altro.
|
|
L’altro, come
interlocutore di un dialogo che trascende i limiti dell’Io
per attingere all’essenza dei valori universali e dell’Assoluto,
costituisce il soggetto privilegiato nella ricerca di senso dell’uomo
contemporaneo.
Alla concezione della società occidentale, fondata sull’affermazione
dell’individualismo e dell’imperialismo anche in campo
culturale, si affianca, all’alba del XX secolo, un nuovo Umanesimo,
che, estendendosi in molteplici direzioni (filosofica, teologica,
letteraria, sociologica e artistica), promuove l’importanza
e la ricchezza spirituale dell’incontro dialogico con l’altro.
Superando la tradizione introspettivo-spiritualistica europea che
ha i suoi capostipiti in Pascal e Descartes, Maurice Blondel, con
la sua “filosofia dell’azione”, ed Henry Bergson
con la teoria dell’ “evoluzione creatrice”, preconizzano
l’avvento di una società aperta e dinamica, creatrice
di valori universali che infrangano gli schemi di un’etica
autoreferenziale per dialogare fraternamente con altre civiltà
e fedi religiose.
La Rivelazione è inesauribile, sostiene il teologo cattolico
Hans Urs von Balthasar. Il Cristianesimo, difatti, non è
più solo: nel nostro mondo fioriscono nuove santità.
Nell’opera Abbattere i bastioni (1952), Balthasar
auspica la distruzione delle mura che la Chiesa Cattolica da secoli
ha eretto tra sé e gli altri: pagani, cristiani di altre
confessioni, ebrei, musulmani.
Secondo l’espressione della “Lettera agli Ebrei”,
il velo del tempio si è squarciato e il Vangelo è
penetrato, con il suo messaggio di libertà, pace e riconciliazione
nel cuore di ogni civiltà.

Un ecumenismo “ante litteram” si può rinvenire
nel pensiero del filosofo ebreo Franz Rosenzweig che, polemizzando
con l’ortodossia ebraica, già dal 1921 afferma che
anche se il Cristianesimo non appare necessario per gli Ebrei, esso
è indispensabile per la salvezza del mondo (F. Rosenzwzeig,
La stella della Redenzione, ed. italiana Casale Monferrato,
1985).
Franz Rosenzweig si può a buon diritto annoverare tra gli
esponenti della “Filosofia del dialogo” che unisce pensatori
di ogni fede e nazionalità: il cattolico Gabriel Marcel e
l’ebreo lituano Emmanuel Lévinas in Francia, l’ebreo
Martin Buber in Germania, il cattolico Romano Guardini in Italia.
Quest’ultimo, in un’appassionata ricerca sulla natura
ontologica del dialogo interpersonale, contrappone l’esistenza
di un “logos originario”, come fondamento del dialogo,
al nichilismo del pensiero moderno e post-moderno (Romano Guardini,
L’incontro. Saggio di analisi sulla struttura dell’esistenza
umana, in “Persona e Libertà”, Brescia,
1990).
Nel pensiero di Gabriel Marcel l’incontro Io-Tu non si colloca
in un orizzonte linguistico, bensì nel cuore dell’Essere,
in cui l’amore originario trabocca verso l’altro. Il
nocciolo dell’esistenza è pertanto la comunanza tra
Tu ed Io, che dalla storia si estende all’eternità
(cfr. “Gabriel Marcel e la filosofia”, pp. 26 sgg, in
E. Lévinas, Fuori dal soggetto, Marietti, 1992).
Ritengo molto convincente anche la teoria del pensatore ebreo Martin
Buber, il quale asserisce che il dialogo Io-Tu sia anteriore alla
storicità del dialogo politico, fondandosi il primo sulla
“Fürsorge”, sul sentimento di sollecitudine fraterna
per l’altro. La riscoperta di questa fraternità renderebbe
possibile anche l’incontro con il Tu divino, con il totalmente
Altro che si rivela come scintilla che illumina la coscienza (M.
Buber, Incontro: frammenti autobiografici, Roma, 1998).
Il primato di una soggettività “imperialistica”
e totalizzante che nel pensiero hegeliano e posthegeliano non lasciava
posto all’individualità dell’altro non
solo viene sconfessato, ma addirittura ribaltato dal grande filosofo
contemporaneo Emmanuel Lévinas. Fin dal lontano 1953, con
la raccolta di saggi Dall’altro all’io, il
pensatore di origine ebraico-lituana sottolinea già nel titolo
il rovesciamento del rapporto di priorità tra l’Io
e l’altro (ed. italiana, Meltemi, Roma, 2002).

“Dall’altro all’io”: questa è la
sequenza nel processo di costituzione della soggettività,
che, nel suo “conatus essendi”, oltrepassa il proprio
egocentrismo, causa di conflitti e violenza. In questa nuova prospettiva
nel volto nudo dell’altro che ti interpella ritrovi te stesso,
anzi senti di avere l’altro nella “tua pelle”
in un legame nuovo, inaudito, più intimo della parentela
familiare. Da ciò scaturisce l’impossibilità
dell’indifferenza, della coscienza pacificata per non aver
commesso “alcuna colpa”, mentre ti assale la paura per
l’altro, la responsabilità per la sua esistenza minacciata
dal cinismo e dalla violenza della società contemporanea.
Osserva Lévinas che i comandamenti “Non ammazzare”
e “Amerai il prossimo tuo come te stesso” non condannano
solo la sopraffazione dell’omicidio, contrapponendole la legge
dell’amore, ma anche tutti quegli assassinii lenti e invisibili
che si commettono grazie alla nostra indifferenza nei confronti
del prossimo e del lontano.
Di fronte al volto dell’altro, l’Io è messo in
discussione, viene posto all’accusativo, convocato, richiamato
ad una responsabilità di dover rispondere per l’altro,
fino al sacrificio della propria identità in funzione dell’Alterità.
L’idea di un essere che per amore dell’altro valica
i confini del finito, per entrare nell’infinitamente altro,
costituisce uno “scandalo” salutare in questa civiltà
tecnologica e materialistica chiusa nei confronti della diversità,
del mistero, della trascendenza. Assai attuale è anche il
messaggio di Monoteismo e linguaggio (pp. 81-84 di Dall’altro
all’io): Lévinas sottolinea che è proprio
la diversità delle tradizioni storiche a rendere più
urgente il dialogo e la collaborazione tra giudei, cristiani, musulmani,
accomunati, malgrado i dissensi e i conflitti, dal monoteismo.
E il monoteismo non è semplicemente un’aritmetica del
divino, ma è la Parola del Dio-Uno che non può rimanere
inascoltata, che ci obbliga ad entrare nel discorso interpersonale
e interconfessionale, manifestandoci la trascendenza dell’essere.
Creare la “Civiltà del dialogo e dell’amore”
che unisce tutti i popoli del mondo, credenti e non credenti, è
stato il grande sogno del Concilio Vaticano Secondo, alimentato
da dieci lustri di encicliche papali, di sinodi mondiali, di incontri
ecumenici, come quelli di Assisi, dai ripetuti appelli dei Pontefici
e dei Vescovi ad intraprendere le vie del dialogo contro l’odio
e le guerre.
Oggi questo sogno di pace e fraternità, rilanciato da Papa
Giovanni Paolo II, è condiviso da milioni di donne e di uomini,
in primis dai giovani di tutti i continenti.
Dinanzi agli scenari apocalittici di un “medioevo prossimo
venturo”, delineati dal terrorismo dopo l’11 settembre,
non deve essere il timore egoistico, bensì la presa di coscienza
delle nostre responsabilità etiche, a favorire il dialogo
con i nostri fratelli dell’Islam. Questo rapporto di solidarietà
e collaborazione politica, sociale, culturale tra musulmani, ebrei
e cristiani ha dato splendidi frutti nei secoli passati, come ricordava
anche Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano
presso l’Università di Trieste, in un recente contributo
su questa Rivista.
Anche l’iraniana Schirin Ebadi, premio Nobel per la pace 2003,
una donna magistrato e docente universitaria di religione musulmana,
si è sempre battuta per i diritti dei più deboli e
delle minoranze. In un’epoca di violenza ella ha fortemente
sostenuto la non-violenza, favorendo soprattutto il dialogo tra
differenti culture e religioni, come punto di partenza di una comunità
mondiale fondata su valori condivisi.
Le reazioni emotive negative e le tendenze regressive che costituiscono
il versante oscuro della post-modernità, come sottolineano
i sociologi contemporanei, da Jean François Lyotard (La
condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1983) a Zigmund
Bauman (Il disagio della postmodernità, Feltrinelli,
Milano, 2002), possono però essere sconfitte solo mediante
una capillare azione di rinnovamento etico-culturale della società.
Si tratta, a mio avviso, di una nuova “paideia”, o civiltà
educante, che abbraccia più fronti: storico-politico, antropologico,
economico, letterario, filosofico, artistico, religioso.
Per salvare l’uomo contemporaneo dalla trappola del pensiero
unico e totalizzante, che genera intolleranza e violenza, dobbiamo
riconoscere nella vita quotidiana, nel nostro hic et nunc,
la dignità e la diversità dell’altro.
Anche nel campo teologico il discorso non è più focalizzato
sulla conoscenza di Dio e delle verità ultraterrene, ma è
teso alla ricerca dell’assoluto, del totalmente altro nell’uomo.
Si tratta di una teologia militante che individua nella liberazione
del “fratello” oppresso dalla fame e dall’ingiustizia
il primo atto teologico. La riflessione sulla “historia passionis”,
che tragicamente si rinnova ogni giorno in tutti gli angoli del
pianeta, diviene così compito imprescindibile dal cristianesimo
che rappresenta la coscienza critica della società.
Riallacciandosi a questa posizione, alcuni autorevoli esponenti
del cosiddetto “pensiero debole”, come Gianni Vattimo
e Jacques Derrida, sostituiscono alla ricerca, per loro impossibile,
di valori assoluti, la valorizzazione di sentimenti umani, quali
la “pietas” di virgiliana memoria, per la finitezza
e fragilità dell’essere umano (Gianni Vattimo, Dopo
la Cristianità. Per un cristianesimo non religioso,
Garzanti, Milano, 2002). L’apertura al dialogo si fa attenzione
e ascolto della pluralità di voci che gridano la loro sofferenza,
la loro sete di amore e di libertà. Cogliere il loro appello
significa andare incontro all’altro, al diverso per nazionalità,
lingua, tradizioni culturali e religiose con uno spirito di fraternità
e di accoglienza.
Per Derrida la differenza incolmabile e inesplicabile tra me e l’altro,
che rimane per me un mistero, non mi esime dal dovere morale di
accoglierlo e di ascoltarlo con un sentimento di partecipazione
fraterna (Politique de l’amitié, Paris, 1994;
De l’hospitalité, Paris, 1997; Il gusto
del segreto, Roma-Bari, Laterza, 1997).
Pur condividendo lo slancio altruistico dei pensatori post-moderni
e la “pietas”, che però si dovrebbe sempre integrare
con l’“humanitas”, ritengo che la loro posizione
non corrisponda pienamente alle esigenze spirituali dell’uomo
di oggi. Arrendersi di fronte al “mistero” dell’altro
senza cercare nemmeno di scalfirlo significa, a mio avviso, arrendersi
dinanzi al mistero della vita ed essere condannati a vivere nella
notte oscura del non senso.
Nella natura umana è invece insita quella tensione agonica,
lo “Streben”, al superamento dei limiti della conoscenza,
per attingere anche un solo frammento di verità. Condivido
perciò la concezione heideggeriana, secondo cui l’essere
si rivela parzialmente “per speculum et aenigma”, mediante
il linguaggio, definito “casa dell’essere”.
In particolare, il linguaggio poetico costituisce il “logos”
originario, destinato a trasformare la storia, preservandola dal
naufragio.
La scrittura letteraria portatrice di un senso in grado di oltrepassare
l’hic et nunc diventa essenziale per la creazione
di un neo-umanesimo allargato a tutte le culture: essa è
segno del molteplice che valica chiusi orizzonti.
Nei momenti di crisi, quando la storia con i suoi eventi tragici
rende “spaesante” il rapporto io-mondo, la letteratura,
in sinergia con le altre forme di mediazione simbolica, offre alla
cultura gli strumenti epistemologici per orientarsi nella realtà
o per oltrepassarla con il ricorso all’immaginario e al fantastico.
Secondo le teorie del semiologo Michail Bachtin, la forma letteraria
non è “mimesis”, cioè rispecchiamento
come nell’estetica greca, bensì orizzonte ideologico,
spazio semantico extopico in cui domina la dimensione discorsiva.
Essa è costituita da coscienze parlanti, da intrecci di voci
che fanno oltrepassare al contenuto i confini di significato, conferendo
al testo non solo un valore estetico, ma anche etico e paradigmatico
(M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria
letteraria e scienze umane, Torino, Einaudi, 1980, p. 21).
In tal modo la letteratura, che con l’avvento della civiltà
scientifico-tecnologica era stata relegata in soffitta tra le cose
inutili e obsolete, non solo diviene coscienza critica del naufragio
della “modernità”, ma anche strumento di salvezza
dal male oscuro che attanaglia l’uomo.
Gran parte della scrittura contemporanea da Svevo a Kafka, da Pirandello
a Pavese, da Eco a Volponi sembra rispondere con maggiore pregnanza
all’esigenza dell’uomo di immergersi nelle zone d’ombra
della coscienza, esplorandone le nevrosi, l’inettitudine e
il malessere interiore, dovuto all’incapacità di relazionarsi
con l’altro, aprendosi al dialogo e all’amore.
Altri autori, invece, come Tahar Ben Jelloun, Amos Oz, Dacia Maraini,
Jasminka Domas, Antonio Tabucchi, fanno intravedere una via d’uscita
dal labirinto dell’alienazione e dell’angoscia esistenziale.
Tuttavia, da solo, l’uomo non può salvarsi: ha bisogno
di quel filo che l’altro gli offre con generosità,
mettendo a repentaglio la sua stessa vita.
Dalle mani della greca Arianna il bandolo di quel filo ha attraversato
i secoli fino a giungere nelle mani di Rebecca, protagonista dell’omonimo
romanzo di Jasminka Domas, scrittrice croata di origine ebraica,
regista televisiva, docente di Giudaismo presso l’Università
di Zagabria.
Andare oltre se stessi, aprirsi all’altro, riconoscere se
stesso nell’altro, fino ad esistere per l’altro, è
questo il messaggio contenuto nel romanzo Rebecca, nel profondo
dell’anima, tradotto dal croato a cura di Suzana Glavas
per i tipi dell’Editrice La Mongolfiera, Cosenza, 2003.
Nel destino della protagonista, una giovane violoncellista ebreo-croata,
che, al tempo delle deportazioni naziste, viene privata della sua
casa a Zagabria, dei suoi affetti più cari, della sua stessa
dignità di persona, si condensano secoli di pregiudizi e
di odio antisemita che hanno prodotto l’immane tragedia della
Shoah.
La struttura dialogica del testo evidenziata dal prologo «Mi
hai chiesto, ti dirò» rivela la capacità dell’io
narrante di mediare il proprio universo interiore, di relazionarsi
con il lettore non tanto per coinvolgerlo emotivamente, quanto per
suscitare in lui una presa di coscienza della realtà storica.
Alla banalità del male che domina il mondo, la giovane Rebecca
lancia una sfida audace: quella della santità che si attua
nella vita quotidiana quando vediamo ogni cosa immersa nella luce
di Dio e orientiamo tutte le azioni alla ricerca della verità,
del dialogo e della pace.
Nel romanzo la protagonista è, come l’omonima eroina
biblica Rebecca, colei che apre il cuore al suo prossimo, al sadico
compagno di scuola, all’aguzzino della porta accanto, al massacratore
dei suoi cari, offrendogli l’acqua pura delle lacrime che
ha versato per lui per il suo peccato, per il marchio d’infamia
che è stato impresso sulla pelle dell’Umanità.
In Rebecca l’etica del perdono e del sacrificio di sé
assume una valenza profetica nella preghiera con cui ella chiede
perdono a Dio per le colpe dei persecutori che ricadono sui perseguitati:
«Chiedo perdono per i giorni
con il cielo di cenere, senza Eden e senza speranza.
Chiedo perdono per i vostri amori rimasti irrealizzati. E per la
parola datavi sul ritorno che non ci sarà.
Chiedo perdono per coloro che non si sono salutati con i più
cari. E per voi che avete amato senza però aver vissuto l’amore.
Chiedo perdono per i bambini che vi hanno strappato dal petto con
la forza. E per le foto che lungo la strada del lager avete perduto.
...
Chiedo perdono, per la vita che dopo le vostre vite vivrò
e perché dalle ceneri, nonostante tutto, mi risolleverò»
(p. 167).
Queste frasi brevi, dense, affilate, immergono il lettore in una
storia capace di toccare tutte le corde dell’anima e della
mente, ci insegnano ad aprire gli occhi per contemplare l’invisibile
e a scoprire nell’altro, nel diverso, il sigillo divino. La
disponibilità al dialogo e alla generosità nei confronti
del diverso e dello straniero costituisce il leitmotiv anche di
Sostiene Pereira, uno dei romanzi più famosi di Antonio Tabucchi,
pubblicato da Feltrinelli nel 1994.
Lo scrittore, nato a Pisa e attualmente docente universitario di
Letteratura Portoghese a Siena, rappresenta nella sua composita
produzione letteraria soprattutto la crisi d’identità
dell’uomo contemporaneo, che, come si accenna anche in un
passo del romanzo citato, si sente in balia di una molteplicità
di Io, ognuno dei quali aspira a predominare sull’altro.
Tuttavia Pereira, un mediocre giornalista di un mediocre quotidiano
del pomeriggio di Lisbona, riesce a far prevalere, sia pur inconsapevolmente,
il suo io migliore, rivelando dietro la maschera dell’indifferenza
e della rassegnazione al male, i lineamenti di una persona sensibile
e generosa. Egli, difatti, non esita a mettere in gioco se stesso
per amore della libertà e della giustizia calpestata dalla
dittatura salazarista.
Il modo anticonformista che Pereira adotta per relazionarsi con
il prossimo viene esemplificato dal suo dialogo quotidiano con il
ritratto dell’amata moglie defunta.
La sua strenua ricerca di un interlocutore fittizio o concreto si
conclude con la conoscenza casuale di un giovane disoccupato e aspirante
giornalista, Monteiro Rossi. Quest’ultimo, con il suo volto
sincero e l’entusiasmo giovanile, sconvolge la vita monotona
di Pereìra che lo sostiene moralmente e finanziariamente
senza una ragione plausibile.
La disponibilità di Pereira, che si sente responsabile per
il giovane e la sua fidanzata Marta, nonostante essi siano per lui
degli estranei e addirittura dei sovversivi, costituisce un enigma
per lo stesso protagonista.
Nell’epilogo a sorpresa, dopo l’efferato assassinio
di Monteiro da parte di fanatici salazaristi, Pereira non solo prova
pietà per il giovane, ma si sente chiamato da quel volto
insanguinato a fare una precisa scelta etica e politica. Così
l’inetto giornalista che si dichiarava indifferente ad ogni
aspetto della vita politica, dopo aver pubblicato sul suo giornale
un articolo per denunciare l’assassinio di Monteiro, opponendosi
al regime salazarista, è costretto a fuggire, abbandonando
la sua casa, il suo lavoro, la sua patria.
Alla metamorfosi spirituale di Pereira hanno contribuito in modo
determinante i dialoghi che egli intesse con i vari personaggi,
in particolare con il dottor Cardoso, medico e psicologo, a cui
pone una domanda che cambierà il suo destino: «E se
quei due ragazzi avessero ragione?» (p. 122).
La tendenza a porsi continui dilemmi si può riscontrare
anche nell’ultimo romanzo di Tabucchi, Tristano muore,
Feltrinelli 2004. Accanto all’impossibilità di indagare
sul mistero della morte che incombe sul protagonista, si riconosce
nell’epilogo che esiste un enigma di gran lunga più
oscuro e insondabile:
«Dicono che la morte è
un mistero, ma il fatto di essere esistito è un mistero maggiore,
apparentemente è banale, e invece è così misterioso...»
(p. 161).
Nel percorso all’inverso del romanzo, che si configura come
una peregrinazione ctonia o viaggio negli inferi alla ricerca della
verità, l’autore rinuncia a svelare l’enigma
della morte, poiché si imbatte in un mistero ancora più
grande: quello della vita. Con stupore egli si accorge che nel nostro
“conatus essendi” viviamo nella totale inconsapevolezza
dell’alterità che è in noi e che spesso ci interpella,
ci chiama in causa per poterci rivelare almeno una scintilla del
suo mistero.
|