Otranto si trovava in una posizione strategica,
ideale per i traffici
e gli scambi
commerciali,
ma anche un
privilegiato luogo di incontro di due culture, quella
latina e quella greca.
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Nella raccolta di saggi di Cesare Brandi, pubblicata sotto il titolo
Terre d’Italia (Milano 1991), non c’è
alcun cenno alla capitale di Terra d’Otranto, una città
schiva che però aveva attirato fortemente l’attenzione
di uno dei più grandi viaggiatori del ‘700, Giovan
Battista Pacichelli, che nel II volume de Il regno di Napoli
in prospettiva, stampato in Napoli nel 1703 aveva tracciato
un interessante profilo su Otranto. Leggiamo alcuni passaggi di
questa descrizione sintetica, ma efficace: «Conferisce alla
provincia quel nome, che in parte riceve dal picciolo fiume Hidre,
il quale appunto qui, al mare di Adria rende tributo. [...] Strabone
chiamolla Hidronto; Mela (Pomponio) Hidro; Procopio
Idroo; Idra Tolomeo; e meglio di ciascuno Idronto
Plinio. [...] Gode porto assai capace, ma non sicuro per il soffio
degli aquiloni, guardato dal castello in rocca, fattovi ergere dal
re Alfonso, che tien disposti trenta cannoni. Angusto è il
suo giro, di vecchie e forti mura, che alquanto si solleva dal piano,
mostrando buone fabbriche di pietra, e vago disegno, con frequenti
giardini colmi di fichi e di agrumi, e la piazza provveduta di pesce
fresco e squisito. Magnifica è la sua Metropolitana dedicata
all’Assunzione della Vergine dal re Guglielmo nell’anno
1163».
Il Pacichelli proseguiva con la descrizione della cattedrale, delle
chiese e dei conventi che arricchiscono la terra, con il ricordo
dell’incursione turca del 1480; quindi concludeva con un accenno
al porto: «Si considera questa città hoggi, scala per
l’Oriente, a’ signori Veneziani e Ragusei, i primi de’
quali vi trattengono il Console, che nelle passate occorrenze di
guerra, col mezzo del Ministro di Napoli, facea haver più
celeri gli avvisi alla Republica. Offende alquanto questo clima
il lago di Limini, che si aggira per dieci miglia, e produce capitoni
e altro buon pesce».
Questo profilo di Otranto è corredato da una pregevolissima
incisione che “fotografa” la città alla fine
del XVII secolo.
 
Il prestigioso Manuel du Voyageur di Karl Baedeker (Leipzig-Paris
1907) attesta l’importanza di Otranto come punto di approdo
nel mare Adriatico fin dai tempi più antichi. «Otranto
– si legge fra l’altro –, l’Hydrus
dei Greci, l’Hydruntum dei Romani, è spesso
menzionata nell’antichità come il luogo da cui si lascia
l’Italia per raggiungere l’Epiro. Distrutta dai Turchi
nel 1480, Otranto non si è più risollevata; oggi è
una città di pescatori di 2295 abitanti».
Un’altra guida, anteriore di pochi decenni al Manuel du
Voyageur, l’Itinerario d’Italia o Descrizione
dei viaggi per le strade più frequentate alle principali
città d’Italia, curata da Giuseppe Vallardi (Milano
1833), descrive Otranto alla fine del 61° percorso di viaggio,
quello che porta da Brindisi a Otranto. «Otranto (Hydruntum),
una delle più antiche città della Japigia, –
si legge – possiede un comodo porto, molto frequentato per
il commercio del Levante, e difeso da una buona fortezza. Questa
città è più forte che bella. Otranto fu il
primo paese che Pitagora illustrò, diffondendovi le sue dottrine
filosofiche, e facendovi conoscere le arti».
Sin dal più lontano passato, Otranto ha svolto un ruolo significativo
come scalo marittimo, non solo per la sua felice posizione geografica,
ma grazie anche al sistema viario romano, e prima ancora alla rete
stradale messapica che nell’antichità collegava la
costa e l’entroterra.
Per conoscere nel dettaglio i collegamenti marittimi e terrestri
di Otranto disponiamo di una vasta documentazione: oltre alle fonti
storiche tradizionali, risultano particolarmente interessanti gli
“itinerari” che, come è noto, sono la chiave
per ricostruire le vicissitudini dell’antica rete stradale,
non solo nel periodo di massima efficienza, durante l’impero
romano, ma anche nei secoli della decadenza, durante le invasioni
germaniche, e per tutto il Medioevo.
Gli itinerari riproducono i percorsi stradali di tutti i Paesi conquistati
da Roma. In questa sede ci limiteremo a prendere in esame i percorsi
relativi alla penisola salentina, corrispondente all’incirca
all’antica Japigia e alla Messapia dei Greci, e alla Calabria
della divisione augustea dell’Italia, raggruppante i popoli
della costa adriatica del Salento, detti propriamente Calabri, e
quelli della costa ionica, conosciuti dai Romani come Salentini.
La compilazione più vasta e organica di itinerari dell’impero
romano è l’Itinerarium Antonini: in esso,
gli itinerari ufficiali sono elencati con l’indicazione, in
miglia, delle tappe giornaliere e delle rispettive distanze. I dati
relativi al Salento sono i seguenti: da Brindisi a Lecce 25 miglia;
da Lecce a Otranto 25 miglia. Le rotte e le distanze del Salento
rispetto alla sponda opposta dell’Adriatico sono: da Brindisi
il traghetto per Durazzo 1.400 stadi; da Otranto il traghetto per
Valona 1.000 stadi.
Va osservato che le distanze dei percorsi stradali sono espresse
in miglia, secondo l’uso romano che utilizzava le indicazioni
delle pietre miliari, mentre quelle relative alla traversata del
canale d’Otranto sono espresse in stadi secondo l’uso
greco, mostrando in tal modo il predominio della marineria greca
nell’ambito dei traghetti con la Grecia.
In appendice all’Itinerarium Antonini ci è
giunto un Itinerarium Maritimum, un testo assai breve composto
nell’età di Caracalla, che contiene due sole rotte
complete e alcuni dati frammentari su traversate di varia natura.
Per la parte che ci riguarda, è segnalato il cabotaggio sulle
coste salentine e le rotte delle isole adriatiche di fronte a Otranto.
Anche in questo itinerario la lunghezza delle tappe è espressa
in stadi e appartiene pertanto al bagaglio di conoscenze di origine
greca. Ecco le porzioni di rotta che interessano la penisola salentina:
da Brindisi o da Otranto a Valona 1.000 stadi; da Brindisi a Durazzo
1.400 stadi; da Otranto a Cassiope 1.000 stadi; dall’isola
di Saseno a Otranto 400 stadi; dal litorale di Otranto a Leuca 300
stadi; da Leuca a Crotone 800 stadi.
Il Salento dunque fungeva da traghetto, con i due porti di Brindisi
e Otranto, con l’opposta sponda adriatica. Leuca era lo scalo
di appoggio per la traversata verso Crotone e la Sicilia. Eccessiva
risulta l’indicazione della distanza di ben 300 stadi (pari
a 37,5 miglia romane) per la navigazione di cabotaggio tra i porti
di Otranto e Leuca, ma probabilmente è un errore di trascrizione
che va emendato a 250 stadi, meglio rispondenti alla misura geografica.
Fra gli itinerari merita ancora di essere menzionata la Tabula
Peutingeriana, un rotolo di pergamena che riproduce la parte
conosciuta della Terra con l’indicazione dettagliata di tutte
le strade, le stazioni itinerarie e le distanze miliari. La sua
composizione risale alla metà del IV secolo d.C., ma è
giunta a noi attraverso una copia del XII-XIII secolo. La parte
relativa al Salento riproduce un quadro completo del sistema stradale
costituito dalla via Traiana, ultimo tratto della via Appia, col
suo prolungamento “calabro” e dalla via “Sallentina”.
La via Calabra e la via Sallentina costituivano due importanti arterie
paralitoranee.
La prima, così detta perché si sviluppava lungo la
costa calabra, cioè il versante adriatico del Salento, congiungeva
i due porti di Brindisi e Otranto. Essa viene considerata un prolungamento
della via Traiana, ossia quel troncone viario che si staccava dalla
via Appia all’altezza di Benevento e raggiungeva Otranto,
rendendone più breve il tragitto.
A metà del percorso della via Calabra è sempre indicata
la città di Lecce. Come risulta dagli itinerari di viaggio,
essa svolgeva la funzione di mansio, ossia di stazione
itineraria che serviva a spezzare il viaggio in due giornate di
venticinque miglia ciascuna e, in più, permetteva il pernottamento.
Da Otranto si poteva utilizzare il traghetto per raggiungere le
coste dell’Epiro e della Grecia; ma si poteva proseguire anche
per via di terra lungo la strada “Sallentina”, in direzione
di Castro e di Vereto e poi, superato il Capo di Leuca, verso Taranto,
attraverso Ugento, Alezio e Nardò.
L’importanza della via Calabra dipese in gran parte dalla
funzione di scalo verso Oriente assunta da Otranto man mano che,
nei traffici del Canale, la città acquistava quel ruolo che
era appartenuto incontrastato a Brindisi.
In età tardo-antica il traghetto di Otranto fu sempre il
preferito e il confluire del traffico peninsulare su Otranto fece
sì che questa città fosse sentita come la meta finale
della via Appia e della via Traiana. La fortunata ascesa di Otranto
fu suggellata dalla preminenza attribuitale nell’ordinamento
amministrativo bizantino, per cui il “tema” di Calabria
prese successivamente la denominazione di Terra d’Otranto.
Per quanto riguarda il percorso, possiamo dire, molto sinteticamente,
che la strada Calabra muoveva da Brindisi verso sud, uscendo da
Porta Lecce e si dirigeva a Valesio. Le fotografie aeree, i toponimi,
l’allineamento delle alberature, le antiche carrarecce e i
confini campestri consentono di ricostruire sempre con buona approssimazione
l’andamento del tracciato.

All’interno della città di Valesio, una stazione itineraria
e un impianto termale assicuravano il ristoro dei viandanti. Il
cammino proseguiva fuori dalla cerchia muraria seguendo l’andamento
di una strada campestre ancora oggi esistente e continuava fino
a Torchiarolo. Dopo Torchiarolo, con lo stesso tracciato della moderna
carreggiabile, la strada incontrava Squinzano, sfiorava Surbo e
si giungeva a Lecce. La stazione di Lupiae, a metà strada
fra Brindisi e Otranto, godeva di notevole prestigio in età
imperiale non solo per la sua posizione intermedia fra Roma e i
due più importanti scali per l’Oriente, ma anche perché
offriva la possibilità di un collegamento diretto con l’Adriatico,
specialmente dopo il potenziamento del porto di San Cataldo voluto
dall’imperatore Adriano.
Si ritiene che il tracciato da Lecce a Otranto sia una persistenza
di antiche strade, piuttosto che un’arteria ex novo;
tuttavia permangono incertezze fra gli storici in merito alla definizione
di alcuni segmenti dell’itinerario, soprattutto all’altezza
dei laghi Alimini. Sorvolando su queste divergenze, osserviamo che
a ridosso di Otranto, sul fiume Idro, si è ipotizzata l’esistenza
di una stazione di sosta, situata a 25 miglia da Lecce e a 50 miglia
da Brindisi. La strada si interrompeva di fronte alle mura della
città, come inducono a ipotizzare le due presunte colonne
terminali visibili nella cartina del Pacichelli.
Un breve percorso conduceva al porto, difeso da un molo artificiale
che si allungava dalla punta San Nicola. Da qui salpava il traghetto
per la Grecia; qui facevano scalo le imbarcazioni che provenivano
da Cassiope o da Saseno, quando i venti non consentivano di puntare
su Brindisi; perciò sempre più spesso si puntò
direttamente su questo porto in età tardo imperiale e bizantina.
Va sottolineato che, nel 49 a.C., Cesare considerava sullo stesso
piano i porti di Brindisi, Taranto e Otranto, ma nei decenni e nei
secoli successivi, nell’Itinerarium Antonini e nell’Itinerarium
Maritimun, Otranto sembra essere il traghetto preferito per
le spedizioni in Oriente, come pure nel Medioevo al tempo delle
crociate.
Completava il sistema stradale peninsulare che faceva capo a Otranto
la via “Sallentina”: essa, con un percorso paralitoraneo,
congiungeva i principali centri del Salento da Otranto al Capo Iapigio
(Leuca) e quindi a Taranto.
Questa strada è certamente meno conosciuta delle altre, forse
perché mantenne un interesse prevalentemente locale, come
collegamento tra i centri messapici, piuttosto che di collegamento
diretto tra Roma e Otranto, risultando più lunga a causa
del giro attorno al Capo di Leuca. La via seguiva complessivamente
questo schema: Taranto-Manduria; Manduria-Nardò; Nardò-Alezio;
Alezio-Ugento; Ugento-Vereto; Vereto-Castrum Minervae;
Castrum Minervae-Otranto.
L’ultima tappa della via “Sallentina” collegava
dunque Castro con Otranto. Un sentiero permette ancora oggi di individuare
l’andamento originario della strada, dallo sperone fortificato
di Castro ai piedi del Monte Mattia. L’andamento del percorso
è sempre facilmente riconoscibile in alcuni tratti di confine
comunale, in alcune strade campestri e mulattiere fino al profondo
solco a est dello stradale dove si incanalano le acque che scendono
dal Monte Lauro.
Sempre fiancheggiando lo stradale moderno, la via antica, di cui
sono ancora visibili alcune tracce, raggiungeva la porta sud di
Otranto, potenziata dopo l’incursione turca del 1480.
Durante il Medioevo fu molto utilizzato l’Itinerarium
Burdigalense, detto anche Hierosolymitano, secondo
che si privilegi la città di partenza (Bordeaux) o la destinazione
del viaggio (Gerusalemme). L’Itinerarium descrive
un pellegrinaggio di cristiani dall’Aquitania alla Terra Santa
compiuto negli anni 333-334 d.C., subito dopo che l’editto
di Costantino ebbe riconosciuto libertà di culto alla nuova
religione.
Vi sono elencate con precisione le stazioni di pernottamento e le
tappe per il cambio dei cavalli, in un percorso lunghissimo che
va dall’estremità occidentale dell’Europa fino
in Palestina. Sulla via del ritorno, i pellegrini traghettavano
da Valona a Otranto e risalivano la penisola italiana lungo le grandi
arterie stradali: la via Traiana, l’Appia, la Flaminia e l’Emilia
fino a Milano, poi i valichi alpini, ripercorrendo a ritroso lo
stesso itinerario dell’andata.
I pellegrinaggi verso i luoghi santi, lungo questo percorso, proseguirono
per tutto il Medioevo, salvo una stasi nei secoli VII-X nell’età
delle incursioni barbariche per l’insicurezza delle strade,
ma raggiunse l’apice con il risveglio devozionale del X-XII
secolo e con le crociate.
Nelle fonti troviamo la conferma del frequente ricorso allo scalo
di Otranto come imbarco privilegiato per l’Oriente; possiamo
ricordare, fra le tante testimonianze, la descrizione del pellegrinaggio
compiuto probabilmente nel 1102-1103 da un tale Sevulfo. Di questo
personaggio non sappiamo quasi niente: il nome Sevulfo (sea-wolf
= lupo di mare) potrebbe essere fittizio. Certamente di nazionalità
anglosassone, Sevulfo parla dei porti pugliesi nel suo racconto
di viaggio: «Vi sono dei pellegrini che s’imbarcano
da Bari, alcuni da Barletta, ed altri ancora da Siponto e da Trani.
Naturalmente vi sono altri pellegrini che preferiscono attraversare
il mare da Otranto, ultimo porto della Puglia».
Accanto agli itinerari, i portolani costituiscono un’altra
tipologia di fonti utili a ricostruire la posizione e il ruolo di
Otranto nel Mediterraneo. Portolani rudimentali furono usati non
soltanto dai popoli dell’antichità classica, ma anche
da altre genti che svolsero un’intensa attività sul
mare, come i Cinesi, gli Arabi e i Vichinghi.
Fra i portolani più antichi, si ricordano i peripli –
descrizioni geografiche di viaggi marittimi – compilati dai
Greci che vi annotavano i particolari costieri più interessanti
e più facilmente riconoscibili, con l’indicazione delle
distanze da luogo a luogo espresse in giornate di viaggio, in giornate
e stadi, o solo in stadi.Manca, però, nei peripli qualsiasi
accenno all’elemento direzione, che invece appare nei portolani
medievali. Questi ultimi segnalano la direzione rispetto ai punti
dell’orizzonte, sia pure con una certa approssimazione che
non va oltre la quarta di vento; vi compaiono, inoltre, le indicazioni
delle distanze relative ai luoghi costieri e attraverso il mare
aperto.
Una grande quantità di fonti classiche e medievali consente
di ricostruire un quadro abbastanza analitico delle rotte che interessavano
la penisola salentina. Strabone riferisce del cabotaggio intorno
ad essa, sia lungo la costa adriatica da Otranto verso nord, toccando
Roca vecchia, San Cataldo, San Gennaro (Valesio), Brindisi, Guaceto
(San Vito), Torre Santa Sabina, il porto di Ostuni e infine Egnazia;
sia lungo la costa ionica da Otranto verso sud, toccando Castro,
Leuca, San Gregorio (porto di Vereto), San Giovanni (Ugento), Gallipoli,
lo scalo marittimo di Nardò, Porto Cesareo, Torre Ovo, Satùro
e infine Taranto.
Molto importanti, come si è già detto, erano i traghetti
che dal Salento si dirigevano a ventaglio sulle coste balcaniche
puntando, da nord a sud, su Durazzo, Apollonia, l’isola di
Saseno, Valona e l’isola di Corfù. Una funzione alternativa
rispetto a Brindisi potevano avere sia Egnazia, più a nord,
che i vari porti del litorale calabro, più a sud. Ma è
soprattutto Otranto che, nelle fonti, appare lo scalo privilegiato
per le comunicazioni con l’Oriente, data la sua felice posizione
sullo spartiacque tra il golfo Veneto, come si chiamava tutto il
mare Adriatico fino appunto a Otranto, e il resto del mare Mediterraneo.
I portolani medievali che descrivono le caratteristiche costiere
intorno a Otranto sono tanti, dal portolano di Grazioso Benincasa
da Ancona, utile per conoscere su quali rotte e con quali paesi
gli Otrantini avevano scambi e commerci, ai portolani composti da
esperti navigatori veneziani e pubblicati da Konrad Kretschmer nel
volume Die italienischen Portolane des Mittelalters; ci
sono poi le descrizioni degli studiosi salentini, dal Galateo (1444-1517)
al dotto cosmografo Cosimo de Giorgi.
Tornando alle fonti medievali, ricordiamo la descrizione del geografo
arabo Edrisi, attivo in Sicilia nel XII secolo alla corte di Ruggero
II: «Otranto, città di antiche vestigia e molto popolata,
abbonda di coltivatori, dispone di mercati in piena attività
nonché di prosperi commerci. Il mare ne lambisce le mura
da tre parti sì che essa è saldata al continente solo
dal lato nord. La città ha un fiume che scorrendo da settentrione
passa nei pressi della sua porta e procede oltre lungo il Golfo
dei Veneziani (mare Adriatico) verso la città di Brindisi,
lontana quaranta miglia da Otranto, e là ha la foce. [...]
Otranto è situata all’estremità del canale che
divide il Mare di Siria (Mediterraneo) dal Mare dei Veneziani (Adriatico),
sulla costa occidentale».
In una fonte composta presumibilmente nella seconda metà
del XIII secolo, Il compasso da navigare si fa
riferimento alla conformazione della costa otrantina e alle manovre
necessarie per l’attracco nel porto: «Otranto è
porto e se vorrete entrare là entro, si tosto con serrete
a la ponta de Otranto, va appresso da terra entro che trovi li scolli
che non som de socta lo castello de Otrenta e llà demora
à lo scollio ver meczo dì, e poi va entro al porto».
Analoghi riferimenti alla configurazione costiera di Otranto e alle
manovre per entrare nel porto si trovano in Goffredo Malaterra che,
descrivendo il soggiorno otrantino di Roberto il Guiscardo prima
della spedizione in Sicilia, ricorda i lavori di spianamento del
terreno fatti eseguire dal Normanno per agevolare il percorso dalla
città al porto e per rendere più spedito l’equipaggiamento
delle navi: «Apud Ydrontum moratus, montem, quo facilius descensus
ad mare – equos navibus introducens – fieret, rescindere
facit».
Nell’opera di Guglielmo di Puglia, il porto viene definito
poco sicuro, soprattutto a causa delle tempeste autunnali che rendevano
precaria la navigazione nelle acque del Canale d’Otranto:
«Transire veretur Hidronti, / Quo brevior transcursus erat,
quia tempus adesse / Coeperat autumni, tranquilla recesserat aestas,
/ Unde timens ratibus mora nequa noceret Hidronti / Ex tempestatis
subitis incursibus ortae, / In portu tuto fit tutus classe recepita;
/ Expectat flatus prudenti mente secundos». La stessa situazione
viene registrata quattro secoli dopo dal Galateo: «Portum
habet satis commodum sed aquilone minime tutum: a mari altae sunt
rupes, ex molli, et fragili lapide ex cuius crebris ruinis, non
parvam urbis partem mare occupavit».
Pur con questi limiti e nonostante la perifericità geografica
rispetto all’asse politico continentale che aveva il suo fulcro
nel nord dell’Europa, Otranto si trovava in una posizione
strategica, al centro di un sistema di comunicazioni che la collegavano
verso occidente con il resto della Puglia e con la Lucania e verso
oriente con la Grecia, attraverso le rotte dell’Adriatico.
Una posizione ideale per i traffici e gli scambi commerciali, ma
anche un privilegiato luogo di incontro di due culture, quella latina
e quella greca, che trovavano il loro riferimento ideologico e cultuale
nella Cattedrale e nella chiesa di San Pietro.
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