Federico II di Svevia pagava
normalmente
l’interesse del 36 per cento sulle somme che
prendeva a prestito dai mercanti
romani, senesi,
fiorentini, emiliani.
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Sostiene Giorgio Ruffolo che c’è stato un tempo in
cui l’Italia era una superpotenza. E per chiarire il concetto
parte da molto lontano. Precisamente dai tempi di Roma Caput
mundi. Come tutti gli Imperi territoriali, precisa l’economista,
quello romano ha implicato una conquista, ma l’arte della
guerra si doveva accompagnare necessariamente, allora, a quella
della pace, in grado di integrare e suscitare consenso in tutte
le classi dirigenti. Non era, insomma, quello che attualmente si
definisce correntemente un impero del male.
L’excursus (in Quando l’Italia era una superpotenza.
Il ferro di Roma e l’oro dei mercanti, edito dalla torinese
Einaudi) si svolge attraverso le strutture economiche e sociali
che, tramontate, si proiettano nell’età medioevale.
Pertanto, l’Italia dell’Età di mezzo viene paragonata
a quella antica. Con quale esito? In un primo momento, i Romani
sembrano abilissimi nella politica ma più o meno inetti in
economia, mentre gli Italiani del Medioevo paiono il contrario.
Ma ad una lettura più attenta, il quadro complessivo finisce
per complicarsi.

Il sistema economico romano ha inventato il “capitalismo
mercantilistico” e una prima “economia-mondo”,
raggiungendo l’apice nel sistema schiavistico della villa
romana; dopo di che, quel sistema sarebbe precipitato nella stagnazione.
Tuttavia, non si deve confondere l’Italia con l’Impero:
Roma, infatti, prima ha dominato l’Italia e poi le province,
soprattutto quelle nordafricane, dove fioriva una grande economia
– non basata sulle ville e sugli schiavi – proprio nella
tarda antichità.
Lo studioso apprezza il notevole contributo offerto dall’archeologia
allo studio delle manifatture e delle merci romane, in particolare
tramite lo scavo delle ville, e condivide la posizione degli antichisti
italiani che hanno superato il primitivismo di Finley, riproponendo
la distinzione fra un modo di produzione “antico”, orientato
al valore d’uso, (quello di Cincinnato), e un modo di produzione
“schiavistico”, orientato invece al valore di scambio.
Il tracollo fallimentare romano è senza alcun dubbio impressionante,
ma non è poi diverso dai crolli di tutti gli sviluppi precapitalistici,
che mai hanno conseguito l’autopropulsione tipica dell’industrialismo.
In quegli sviluppi il mercante o il manifatturiero finisce per scimmiottare
l’aristocratico (vale a dire: aspira all’otium),
per cui non nasce una vera borghesia, la prima classe che ha posto
l’economia al centro della società e che non si è
accontentata di fasto e bellezza, protesa instancabilmente al guadagno,
quanto il credente era proteso al cielo. Ma la classe borghese è
riuscita a svilupparsi soltanto sotto le grandi monarchie nazionali,
di cui l’Italia, divenuta patria dei particolarismi, non è
riuscita mai a far parte.

Fra gli sviluppi destinati al fallimento, il romano resta quello
che più si avvicina all’economia delle Repubbliche
medioevali italiane, che ha raggiunto la vetta massima del “capitalismo
commerciale”, ma che in seguito, alla fine del Cinquecento,
ha cominciato anch’essa a decadere. I Romani saranno stati
pure meno bravi economicamente dei milanesi, e questi meno bravi
dei primi nella politica, conta però il fatto che sia i primi
sia i secondi si sono avvicinati alla soglia del capitalismo industriale,
senza tuttavia riuscire a raggiungerlo. Occorre comunque fare una
precisazione. Entrambi hanno creato le fondamenta perché
altri inventassero, in altri mari, la forma economica entro cui
viviamo e che a noi pare eterna. In questo senso, sia l’antichità
romana che il Medioevo italiano sembrano all’archeologo formare
stadi di sviluppo diversi entro l’unica grande categoria del
“capitalismo commerciale”, come ha ritenuto il Marx
del saggio sulle Forme di produzione precapitalistiche.
L’Autore accetta il destino italiano di decadenza «con
sereno orgoglio», accettabile quando Roma e il nostro Rinascimento
inondavano il mondo di bellezza. Ma, una volta che sia spenta ogni
magnificenza, non resta che guardarsi intorno; e, vedendo che si
è quasi in coda all’Europa, tutt’al più
si possono criticare, odiare o ammirare quei vincitori, i quali
hanno saputo essere ad un tempo, insieme, Romani e Italiani.
Se, al tempo di Roma e nell’Alto Medioevo, le attività
economiche erano incentrate in modo particolare sull’agricoltura,
sull’allevamento e sulla lavorazione dei metalli, e dunque
sui commerci dei relativi prodotti, nel Rinascimento molte cose
cambiarono. Intanto, le scoperte geografiche avevano fatto perdere
al Mar Mediterraneo il ruolo di baricentro del mondo. L’asse
della storia era inclinato ad Ovest, e mentre gli Stati Iberici
e quelli del Nord dell’Europa, con le loro formidabili marinerie,
allargavano i loro Imperi, Comuni e Stati italiani entravano in
crisi, fatalmente declinando.
In questa fase si sviluppò una classe nuova, aggressiva,
spregiudicata, che sconvolse le antiche regole del gioco e determinò
nuovi modi di produzione, nuove dinamiche del profitto, concentrazioni
monopolistiche, instaurazione di scambi sempre più vasti.
I feudatari furono in massima parte travolti da crisi lunghe e laboriose.
Famiglie un giorno potenti naufragarono in difficoltà economiche
e finanziarie: abituati a vivere di rendita, incapaci di trasformarsi
in mercanti, in agricoltori, in produttori, furono costretti a indebitarsi.
Ma con chi? Inizialmente, almeno, furono i mercanti, gli artigiani,
i piccoli industriali ad esercitare verso i signori feudali le funzioni
di prestatori. Il denaro veniva concesso a tassi di interesse elevatissimi,
malgrado i fulmini contro l’usura lanciati dai Pontefici.
Tanto per fare qualche esempio, Federico II di Svevia, che per le
sue lotte contro i Comuni e il Papato aveva un continuo bisogno
di denaro, pagava normalmente l’interesse del 36 per cento
sulle somme che prendeva a prestito dai mercanti romani, senesi,
fiorentini, emiliani. Una volta ad alcuni mercanti di Parma dovette
corrispondere il 60 per cento; un’altra volta per un prestito
di 500 once d’oro pagò ai mercanti senesi più
del 66 per cento.
Ugualmente, gli Angioini re di Napoli ricorrevano a prestiti da
mercanti fiorentini, genovesi, pisani, e a denaro offerto soprattutto
dalle compagnie fiorentine dei Bardi, degli Acciaioli, dei Portinari,
dei Capponi e dei Peruzzi, e in seguito anche dai Medici, ma obbligandosi
al pagamento di formidabili interessi, concedendo inoltre come premio
ai loro creditori la facoltà di fare incetta di frumento
nelle regioni cerealicole del Regno, e di ricavare quindi guadagni
che si possono definire favolosi. Nacquero da tutto questo le prime
operazioni di credito che la storia ricordi. E grazie a queste,
i mercanti a poco a poco diventarono arbitri della vita stessa delle
classi aristocratiche, alle quali di volta in volta sottrassero
terre e case, oltre misura arricchendo se stessi, mentre gettavano
sul lastrico quelle.
Il capitale circolante era creato dai traffici, dallo sfruttamento
delle miniere orientali, dalla lavorazione della lana, della seta,
delle pellicce, del cuoio, dal risparmio investito e dalle rendite
fondiarie che ormai raggiungevano il 12-15 per cento. Succursali
delle compagnie erano state aperte nelle Fiandre, in Francia, in
Tirolo, in Germania, in Dalmazia, a Roma, a Napoli, in Sicilia...
Poi, con le scoperte geografiche, come dicevamo, la grande crisi
italiana, e i conseguenti vantaggi di Portogallo, Spagna, Francia,
Inghilterra, Olanda, che ebbero la possibilità di sviluppare
ceti imprenditoriali e manifatturieri e una nuova classe mercantile,
già allora collegata all’industria. Dunque: un gran
rimescolamento di fortune, un terremoto sociale, il sogno venuto
meno di un capitalismo italiano in anticipo sui tempi. La storia
abbandonava il Mare Nostrum, per trasferirsi fra gli orizzonti più
vasti degli oceani.
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