Una nuova
dottrina si aggira per l’Europa:
in fatto di crescita economica e
di ricchezza, più
dei mercati
liberalizzati conta la demografia.
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La popolazione mondiale è attualmente di 6,1 miliardi di
persone. Fra tre secoli sarà scesa a 2,3 miliardi o sarà
esplosa a 36,4 miliardi? Verosimilmente, almeno secondo le cifre
di uno “scenario intermedio”, sarà cresciuta
fino a nove miliardi. In ogni caso, tenuto conto del fatto che una
minima oscillazione del tasso di fecondità può provocare
enormi variazioni, è piuttosto difficile fare congetture.
Una cosa sembra inevitabile: il declino dell’Europa.
Il Dipartimento degli affari economici e sociali delle Nazioni Unite
ha pubblicato i suoi scenari demografici mondiali. Le ipotesi del
Dipartimento non avevano mai preso in considerazione un periodo
così lungo: il rapporto precedente guardava “soltanto”
fino al 2150. Quello attuale si spinge fino al 2300. Queste previsioni
sono utili «agli specialisti dell’ambiente, ai responsabili
politici e a tutti quelli che valutano a lungo termine le implicazioni
demografiche», chiarisce l’analisi. «Forse servono
soprattutto a capire fino a che punto una piccola variazione nel
tasso di fecondità attuale abbia conseguenze davvero straordinarie
a lungo termine», sottolinea il capo della Sezione Evoluzione
dell’Ufficio federale di statistica (Ofs) elvetico.
Così, lo scenario “basso” dello studio dell’Onu
presuppone un tasso di fecondità mondiale pari a 1,85 figli
per donna, e lo scenario “alto” di 2,35 figli. Da notare
che oggi il tasso è di 2,69: i demografi dell’Onu non
prendono neanche in considerazione l’ipotesi secondo cui potrebbe
restare costante. Se così fosse, infatti, la popolazione
mondiale raggiungerebbe nel 2300 ben 134 miliardi di persone: un’ipotesi
ritenuta “irrealizzabile”.
Lo scenario “intermedio”, che sembra essere quello più
plausibile, presuppone un tasso di fecondità stabilizzato
a due figli per donna, cioè leggermente inferiore al tasso
di rinnovamento della popolazione (2,1). Si osserva qui un cambiamento
di atteggiamento dell’Onu: fino a questo momento i demografi
erano sicuri che, alla lunga, sarebbe risalito a 2,1, mentre già
nel rapporto del 2000 hanno ammesso, per la prima volta, che il
concetto di soglia di rinnovamento della popolazione potrebbe sparire
dal nostro orizzonte. Il che non impedirà alla popolazione
di invecchiare, ritengono gli esperti, i quali confidano in un grande
miglioramento della speranza di vita, in particolare nei Paesi in
via di sviluppo.

Le medie mondiali sono più impressionanti che interpretabili,
ma le differenze regionali parlano chiaro. Secondo lo stesso “scenario
intermedio”, nel 2300 la quota dell’Africa nella popolazione
mondiale si sarà raddoppiata, passando al 24 per cento, mentre
la parte dell’Europa si sarà ridotta dal 12 al 7 per
cento. Il declino dell’Europa, che oggi è ferma a 1,4
figli per donna, è considerato né più né
meno che una “certezza”. E questo anche se lo “scenario
intermedio” scommette su un livellamento dei tassi di fecondità
intorno a due figli per donna. Il demografo svizzero critica in
ogni caso la scelta compiuta dai suoi colleghi internazionali, quella
di disegnare un futuro ipotetico privo di movimenti migratori: «Il
saldo migratorio è l’unico fattore di crescita dei
Paesi sviluppati. Uno scenario che mantenesse il saldo attuale darebbe
un’immagine diversa della futura ripartizione delle popolazioni».
E’ proprio l’Europa, e non i Paesi sviluppati in generale,
ad essere più toccata dall’inverno demografico. L’America
del Nord, con due figli per donna, sfugge alla depressione riproduttiva.
Così India, Cina e Stati Uniti fra tre secoli saranno ancora
i Paesi più popolati del mondo. Questi numeri danno ragione
agli economisti, che attenuano il pessimismo delle analisi puramente
politiche sul declino americano: una parte decisiva della battaglia
si svolge sul piano demografico – spiegano – perché
se una natalità galoppante può frenare lo sviluppo,
un Paese troppo vecchio è condannato al declino economico.
Dopo le previsioni, che comunque restano sempre nel limbo dell’astrazione,
vediamo i commenti. Si dice che, al pari del mitico fantasma, una
nuova dottrina si aggiri per l’Europa. Non c’entra nulla
con la “borsetta liberista” della Thatcher né
con il colbertismo dirigista di Chirac. Dice che, in fatto di crescita
economica e di ricchezza, più dei mercati liberalizzati e
dei campioni industriali nazionali, conta, appunto, la demografia.
E aggiunge che, su queste basi, è quasi impossibile che i
Paesi dell’Unione europea raggiungano le performances
degli Stati Uniti, e men che meno l’obiettivo di una crescita
media del 3 per cento fissata al vertice Ue di Lisbona del marzo
2000. Anzi: gli ostacoli frapposti dalla maggior parte dei membri
della stessa Ue agli immigrati potenzialmente in arrivo dai Dieci
Paesi entrati in Unione fanno pensare che la situazione non sia
destinata a migliorare nel breve periodo.
L’impatto dell’andamento demografico sull’economia
è sempre più al centro del dibattito degli economisti
e degli statistici. Ora, un’analisi americana aggiunge qualche
considerazione e alcuni numeri.
In sostanza, calcola che nel confronto tra Stati Uniti ed Eurolandia
le differenze nella ricchezza e nella crescita del Prodotto interno
lordo dipendano dal fatto che la popolazione europea lavora meno
e aumenta meno.
I punti di partenza sono due. Primo: nel 2003 il Pil pro capite
della zona euro è stato del 30 per cento inferiore a quello
americano in termini di parità di potere d’acquisto.
Secondo: negli ultimi dieci anni il Pil americano è cresciuto
in media dell’1 per cento in più ogni anno di quello
di Eurolandia.

L’Europa, cioè, rispetto all’America continua
ad impoverirsi. E si sottolinea: dal momento che la produttività
(Pil prodotto per ogni ora lavorata) in Eurolandia è simile
a quella degli Stati Uniti, la differenza di ricchezza pro capite
prodotta è data dal fatto che, sempre nel 2003, l’utilizzazione
del lavoro in Europa è stata del 28 per cento inferiore rispetto
agli Usa. La metà di questo 28 per cento dipende dal fatto
che i lavoratori europei hanno lavorato il 15 per cento di ore in
meno. L’altra metà dipende dal fatto che in Europa
lavora meno gente: per ogni cento persone tra 15 e 64 anni che in
America lavorano, in Europa solo 81 sono occupate, (in Italia, fanalino
di coda, si scende a 59).
Risultato: al di qua dell’Atlantico l’anno scorso abbiamo
prodotto un terzo di ricchezza in meno rispetto agli americani.
E negli ultimi dieci anni, la crescita della produttività
è stata praticamente uguale: l’1,8 per cento in Eurolandia
e l’1,6 per cento negli Stati Uniti. L’utilizzazione
del lavoro è cresciuta dello 0,1 per cento in America ed
è invece calata dello 0,2 per cento in Europa. Distanze non
enormi. Ciò che ha fatto la vera differenza nella crescita
dei rispettivi Pil è stato il fatto che la popolazione americana
è aumentata dell’1,2 per cento l’anno, mentre
quella di Eurolandia di meno della metà: 0,5 per cento.
Un guaio destinato a crescere. Per il prossimo decennio, l’Eurostat
calcola che la crescita della forza lavoro europea sarà sostanzialmente
uguale a zero. Su queste basi – al netto di riduzioni nell’orario
di lavoro e considerando una crescita della produttività
costante – il Pil della zona euro aumenterà in media
del 2 per cento annuo per tutti i prossimi dieci anni. In questo
quadro, l’Italia è nelle posizioni peggiori sia per
i trend demografici sia per l’occupazione.
Sulla base di queste analisi, c’è pochissima possibilità
che Eurolandia raggiunga il tasso di crescita medio del 3 per cento
l’anno nel prossimo decennio, a meno che non ci sia un cambio
significativo nei trend demografici. La stessa analisi sottolinea
però che «questo richiederebbe un grande cambiamento
nel pensiero politico europeo per incoraggiare un’immigrazione
molto maggiore». Succede, infatti, che, con l’eccezione
dell’Irlanda e della Gran Bretagna, i membri Ue stanno applicando
gli “accordi transitori” previsti con i nuovi Dieci
entrati, cioè ricorrono a limitazioni al libero movimento
dei lavoratori dei nuovi Paesi membri, restrizioni applicabili in
diverso grado, in teoria, fino al 2011. Senza entrare nel merito
di scelte che non sono solo economiche, ma anche sociali e politiche,
questa chiusura toglie per molti anni all’Ue uno dei benefici
(anche questi, comunque, in teoria) maggiori dell’allargamento:
la possibilità di attrarre lavoratori giovani e di frequente
ad alta scolarizzazione – come in media sono quelli polacchi,
cechi, ungheresi, baltici – che potrebbero «aiutare
ad affrontare i problemi associati con l’invecchiamento della
popolazione di Eurolandia». Opportunità invece colta
dall’Irlanda, che nei confronti dell’immigrazione dai
Dieci Paesi ha scelto la politica della porta aperta.
La conclusione degli economisti – e della nuova “dottrina
della demografia” – è piuttosto radicale e ribalta
le certezze dominanti da anni nelle Cancellerie europee: le riforme
strutturali sono importanti, ma non avranno il risultato di creare
una crescita di stile americano, come è stato suggerito dall’Agenda
di Lisbona.
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