Dopo essere stato per un certo
periodo di tempo motivo di
consenso, l’euro è diventato oggetto di scontro politico
e sociale.
|
|
Si tratta di nuvole passeggere
oppure di un’incomprensione destinata a durare e magari ad
acuirsi nel tempo? Forse è ancora troppo presto per dirlo,
ma è sufficientemente chiaro che il rapporto degli italiani
con la moneta unica è diventato la storia di un profondo
disamore. E’ lontano il tempo in cui nella michelangiolesca
Piazza del Campidoglio migliaia di cittadini attendevano sotto una
pioggia battente la celebrazione dell’entrata ufficiale della
lira nell’euro.
Quel 3 maggio 1998 i loro eroi si chiamavano Romano Prodi e Carlo
Azeglio Ciampi, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro
delle Finanze. Avevano appena strappato, malgrado la rude opposizione
degli olandesi, il consenso all’ingresso dell’Italia
nella moneta unica.
Quel giorno, la scommessa di rimettere un poco di ordine nei conti
pubblici, che soltanto due anni prima sembrava un’impresa
semplicemente impossibile, era stata vinta. Gli imprenditori, seguendo
l’esempio di Giovanni Agnelli, si felicitavano; i sindacalisti
festeggiavano; i cittadini, non senza un certo orgoglio, restavano
in attesa delle novità.
«Dopo tante avversità, l’Italia ha l’impressione
non solo di entrare in Europa, ma anche di tornare ad essere se
stessa, di ritrovarsi», scrivevano i quotidiani. L’euforia
sembrava giustificata. Infatti: da allora, l’euro è
rimasto stabile. Ma agli occhi di molti (troppi) italiani ha smarrito
come d’incanto tutte quante le sue iniziali attrattive.
Non sono solamente i piccoli industriali e gli artigiani del Nord-Est,
attivissimi e ricchi di iniziative, ad esprimere la propria rabbia
perché vedono le esportazioni locali penalizzate da una moneta
forte. L’abitudine alla manovra dei tassi di cambio e alla
svalutazione competitiva della lira ha lasciato tracce abbastanza
profonde. E molto spesso anche dei rimpianti. Nei negozi, nelle
piazze e lungo i viali di Torino, di Roma, di Palermo o di Bari
si brontola contro il nuovo strumento monetario e si impreca sempre
più ferocemente per il rincaro dei prezzi nella Penisola
e in genere in Eurolandia.
A Francoforte la Banca centrale europea aveva fissato il tasso
di cambio a 1.936,27 lire per un euro. Ma nel Paese di Pinocchio
non pochi commercianti hanno finto di aver capito che mille vecchie
lire valevano un euro, e i conti non tornano. Persino la zia del
presidente del Consiglio si è lasciata andare, stando a quanto
ha raccontato il suo illustre nipote: «Una mia zia ottantenne,
che dirige il teatro Manzoni, voleva approfittare del passaggio
all’euro per arrotondare il prezzo del biglietto verso l’alto...
Ho fatto di tutto per convincerla a fare il contrario. Non ho potuto
farci proprio niente. La maggior parte dei commercianti si è
comportata alla stessa maniera. La sola àncora di salvezza
è stata la grande distribuzione». Avevano dunque ragione
gli abitanti dell’isola di Stromboli, quando si opposero con
inusitata tenacia all’introduzione della moneta unica europea?

Malgrado quel che si è verificato, l’Istat ha messo
in rilievo che l’inflazione italiana resta inferiore al 3
per cento e minimizza l’impatto dell’euro sul rialzo
dei prezzi. Ma secondo l’opinione più diffusa, questo
non è vero. Le cifre ufficiali continuano ad essere contestate.
E in un Paese che non manca d’immaginazione si inventano originali
forme di protesta: contro il rincaro dei prezzi attribuito alla
moneta unica, “sciopero della spesa”!
Secondo i promotori, il 47 per cento degli italiani, vale a dire
ventisei milioni e mezzo di consumatori, avrebbero preso parte a
questa eccentrica forma di protesta. Ma con scarsi risultati, se
ancora oggi sei italiani su dieci chiedono semplicemente l’abbandono
dell’euro e il ritorno alla buona vecchia lira. E ciò
perché l’impoverimento reale delle famiglie, con un
tasso di indebitamento del 15 per cento rispetto al 2003, e con
un risparmio finanziario pressoché dimezzato nel giro di
un anno, è essenzialmente attribuito alla moneta unica.
Secondo una recentissima indagine, fra l’altro, è cresciuto
in misura preoccupante il ricorso delle famiglie ai prestiti personali,
perché molti salari e stipendi non consentono di giungere
alla fine del mese. Fino a quando potrà durare questo stato
di cose non è dato saperlo. Quel che si paventa è
in modo particolare la prospettiva del passo successivo: quando
le banche o le finanziarie chiuderanno per questi bisognosi i rubinetti
dei prestiti, i soggetti deboli potranno essere costretti a fare
ricorso al micidiale pianeta dell’usura, cioè a quella
finanza nera e da nodo scorsoio che potrà determinare forti
scompensi sociali, umani ed economici, con un prevedibile sconvolgimento
delle regole civili e con la moltiplicazione delle situazioni di
disagio nella società italiana.
In conclusione. Dopo essere stato per un certo periodo di tempo
motivo di consenso, l’euro è diventato anche oggetto
di scontro politico e sociale. «Perché i prezzi sono
aumentati soltanto in Italia?», si è chiesto il presidente
della Commissione europea in aperta polemica con il presidente del
Consiglio italiano. «E’ ora di finirla con le menzogne»,
ha aggiunto, rincarando la dose e accusando il governo di Roma di
non aver controllato efficacemente il rialzo dei prezzi. «La
prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo»,
ha replicato il ministro dell’Economia, parlando del “disastro
euro”, che sembra un modo di ammettere che i prezzi, nel nostro
Paese, con l’ingresso della moneta unica sono praticamente
raddoppiati.
Di qui, la diffusa opinione che gli italiani pagano in euro, mentre
continuano ad essere salariati e stipendiati in lire. E di qui,
anche, il sordo conflitto, lo scontro permanente sul tema, che finisce
per influenzare anche il confronto politico, spaccando il Paese.
Oltre tutto, emerge con prepotente gravità il problema dei
pensionati, o, per meglio dire, dei differenti trattamenti economici
riservati ai pensionati. Secondo le più recenti rilevazioni,
un pensionato del Sud prende circa 1.500 euro in meno rispetto a
quello che smette di lavorare al Nord. Nelle regioni meridionali,
infatti, l’importo medio della pensione non supera i 7.500
euro all’anno: una cifra ben lontana dai 9.000 euro della
media dei pensionati del Nord e dagli 8.800 di quelli del Centro.
Le cifre emergono dal Rapporto annuale del Dipartimento per le
Politiche di Sviluppo (Dps) del ministero dell’Economia e
delle Finanze. Lo studio dimostra, infatti, come il diverso livello
“storico” di sviluppo economico e di occupazione nelle
singole aree del Paese sia ricaduto anche sulla distribuzione territoriale
del numero di pensioni e, soprattutto, sulle differenze di importi.
«Si crea così in un’area rimasta a lungo arretrata
un circolo vizioso per cui la scarsa ricchezza del passato genera
pensioni basse in futuro. Per superarlo, lo Stato deve intervenire
con politiche di perequazione».
Mentre al Nord e al Centro l’assegno, calcolato per tutte
le tipologie di prestazione, è decisamente superiore alla
media nazionale, al Sud l’importo si riduce notevolmente.
Fatta 100 la media italiana, infatti, nelle regioni del Settentrione
l’indice tocca il 106 per cento; al Centro il valore scende
al 104 per cento, restando comunque superiore alla media; mentre
al Sud crolla al livello dell’88 per cento.
Anche la distribuzione territoriale della spesa previdenziale conferma
la maggiore consistenza delle pensioni del Nord. Oltre la metà
del totale di questa voce va, infatti, alle regioni settentrionali
(51,7 per cento); il 27,1 per cento è destinato al Mezzogiorno,
mentre la quota più bassa (21,2 per cento) spetta al Centro.
Nel Sud, inoltre, il rapporto tra il valore delle pensioni e il
numero dei pensionati si ribalta. Se al Nord e al Centro l’importo
supera, in termini percentuali, i beneficiari delle prestazioni,
al Sud si verifica il contrario. In altri termini, al Nord ci sono
meno della metà del totale dei pensionati, mentre la spesa
previdenziale è ben al di sopra del 50 per cento. Nelle regioni
settentrionali, infatti, vive il 48,7 per cento dei pensionati,
che però percepiscono complessivamente il 51,7 per cento
della spesa previdenziale. Il rapporto si mantiene anche al Centro,
dove risiede il 20,5 per cento dei pensionati, che assorbono il
21,5 per cento del totale.
Viceversa, al 30,8 per cento dei pensionati meridionali è
destinato non più del 27,1 per cento della spesa complessiva.
I redditi da pensione nel 2002 (ultimi dati a disposizione) sono
stati pari a 189,3 miliardi di euro, con una crescita del 4,6 per
cento rispetto all’anno precedente, mentre il numero dei pensionati
è diminuito di 16.000 unità, passando a 16 milioni
345 mila. Ma questo non ha portato alcun vantaggio nelle loro tasche.
Semmai, i rialzi impunemente prodotti nel costo dei beni di consumo
ha aggravato i problemi dei ceti sociali meno protetti.
Si torna così al discorso iniziale, con una domanda d’obbligo:
basterà emettere biglietti da uno e da due euro per dare
consapevolezza di spesa ai consumatori? E i prezzi al dettaglio
saranno calmierati da una spinta spontanea? Oppure, giunti dove
siamo giunti, è semplicemente inutile farsi illusioni?
|