La Messa
veniva celebrata con il sacerdote
e i fedeli rivolti verso Oriente
e così è stato
per lunghi secoli fino alla riforma
liturgica: l’Oriente
simboleggia infatti
il luogo dal quale
il Signore
ritornerà.
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A quarant’anni
dall’approvazione della costituzione “Sacrosanctum Concilium”
sono state numerose le rievocazioni e le riflessioni su quel documento,
che ha segnato l’inizio della riforma liturgica voluta dal
Concilio Vaticano II.
Com’è noto, il rinnovamento liturgico costituì
uno degli impegni preminenti della Chiesa cattolica negli anni del
dopo-Concilio, in quanto, per dirla proprio con la “Sacrosanctum
Concilium” (SC), «anche se la liturgia non esaurisce
la totalità dell’agire ecclesiale» (SC n. 9),
«la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione
della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua forza»
(SC n. 10).
Già dai brani riportati si coglie l’importanza che
la liturgia ha per la vita stessa della Chiesa. Non a caso, il n.
14 della costituzione sottolinea come sia necessario che tutti i
fedeli vengano formati «a quella piena, consapevole e attiva
partecipazione alle celebrazioni liturgiche che è richiesta
dalla natura stessa della liturgia».
Sul quaderno n. 3684, 20 dicembre 2003, de La Civiltà Cattolica,
padre Cesare Giraudo S.I., in un articolo commemorativo dell’anniversario
della “Sacrosanctum Concilium”, richiama alla memoria
nella prima parte del suo scritto il vecchio rito preconciliare,
perché «tale evocazione consentirà, per contrasto,
di porre in evidenza i tratti salienti della riforma liturgica».
E così prosegue: «Immaginiamo di entrare, durante la
celebrazione della messa, in una chiesa […], poniamo, a metà
degli anni Cinquanta, o Quaranta, o anche Trenta. La fisionomia
celebrativa di questi decenni è sempre la stessa, né
si discosta sostanzialmente da quella dell’intero millennio
cui appartengono. Notiamo subito che i fedeli hanno preso posto
nella navata, che una barriera, spesso munita di cancelli quasi
sempre chiusi, separa dallo spazio riservato al sacerdote. Oltre
quella barriera, denominata “balaustra”, nell’area
che chiamano “presbiterio”, durante i riti i laici non
possono andare […]. I fedeli risultano rigorosamente divisi
in gruppi, per età e per sesso. […] Tutti restano quasi
sempre in ginocchio; si siedono soltanto per ascoltare la predica.
Pure la comunione, distribuita alla balaustra […], è
ricevuta in ginocchio. […] II sacerdote, davanti all’altare,
volgendo le spalle ai fedeli, “dice” messa, in latino
[…]. Non è necessario diffondersi in ulteriori dettagli.
Quelli che abbiamo evocato bastano per farci un’idea abbastanza
precisa di come i sacerdoti “dicevano” messa e di come
i fedeli “ascoltavano” la messa. Si tratta di espressioni
assai comuni, tuttora attestate nel linguaggio parlato […]».
Prendendo spunto dalla “evocazione” fatta dal padre
gesuita sulla liturgia pre-conciliare, vorrei svolgere qualche considerazione
sui tratti essenziali della riforma, almeno quelli immediatamente
evidenti agli occhi di quanti si recarono in chiesa il 30 novembre
1969, prima domenica di Avvento, per partecipare alla nuova messa:
a) uso della lingua volgare, in luogo del latino;
b) diverso orientamento del sacerdote e dell’altare;
c) eliminazione, laddove possibile, di balaustre e di quanto altro
potesse assumere il significato di separazione fra spazio riservato
al sacerdote (presbiterio) e spazio riservato ai fedeli (navata).
a) Introduzione della lingua parlata
Spinto dalle sollecitazioni di padre Giraudo, vado indietro nel
tempo (fine anni Cinquanta / primi Sessanta), per riconsiderare
quanto ebbi a vivere in quel periodo, quando, da studente, frequentavo
a Lecce il Collegio Argento.

L’istituto è retto dai padri gesuiti. Torno con la
memoria alla mia III elementare, insegnante la signorina Rosa de
Secly.
In quell’anno mi preparavo, assieme ai compagni di classe,
a ricevere per la prima volta Gesù. Affiora ancora l’emozione
con cui ci apprestavamo a incontrarLo, finalmente!, dopo averne
sentito parlare dai preti e aver “studiato” il catechismo
di San Pio X – Dio, Gesù, lo Spirito Santo; chi è
il cristiano, quello che egli deve credere (Credo), sperare e chiedere
(Padre nostro), fare o non fare (Comandamenti), i mezzi per salvarsi
(Sacramenti) – e alcuni rudimenti di storia sacra.
Arriva il grande giorno. Dieci minuti-un quarto d’ora prima
dell’inizio della messa siamo già tutti in chiesa ai
nostri posti. Ciascuno di noi in silenzio recita le orazioni che
precedono il rito. Il sacerdote sta facendo altrettanto in sacrestia.
Comincia la messa, ovviamente in latino..., ma siamo “preparati”.
Abbiamo ricevuto un messalino nuovo di zecca. Ogni facciata è
divisa in due parti: una con il testo della messa in latino, l’altra
in italiano. Sul rito e la sua struttura siamo stati adeguatamente
istruiti, specialmente sulla parte centrale, quando sull’altare,
grazie al sacerdote (che agisce “in persona Christi”
– “alter Christus”), si rinnova (ancora una volta)
l’unico e grande Sacrificio... la Parola diventa Carne...
“il cibo di cui si nutre il cristiano”.
L’altare non lo si chiama ancora mensa; il termine “banchetto”,
se usato, è seguito dall’aggettivo “sacrificale”;
l’altare non è il luogo del convivio, ma del sacrificio
incruento, memoriale di quello cruento di Gesù sulla croce;
del Figlio che si offre liberamente al Padre per liberarci, con
la Sua morte e risurrezione, dalla schiavitù del peccato
e ridarci la dignità di figli di Dio.
Ci inginocchiamo spesso durante la liturgia, è vero, specie
alla balaustra per ricevere (“con timore e tremore”)
Gesù, ma quella posizione del corpo non la sentiamo né
come limite né come “deminutio”.
Come stare, d’altronde, dinanzi a Colui che è tutto?
Nella vita di ogni giorno tanti si prostrano dinanzi a re, presidenti
e altre autorità terrene, perché non dovremmo farlo
noi cristiani dinanzi a Colui che fece tutto dal nulla; a Colui
che tutto può; a Colui che ci ha donato Suo figlio per salvarci?
Come esprimere con il corpo, se non in ginocchio, l’atteggiamento
di chi interiormente sta adorando stupefatto la Maestà divina;
di chi ha la consapevolezza di essere creatura dinanzi al creatore;
di chi affida le proprie miserie nelle mani misericordiose di Dio?
Come si vede, era possibile anche ad un ragazzino di 8-9 anni “sentire”
e “capire” (per quanto possibile alla sua età)
ciò che il prete “diceva” in latino e quanto
il popolo “rispondeva”, sempre in latino.
Questo è il mio ricordo della messa preconciliare. Senza
voler assolutizzare e generalizzare un’esperienza personale,
mi pare che «l’uso esclusivo della lingua latina, conosciuta
dai sacerdoti e, in varia misura, anche dalle persone colte, ma
inesorabilmente carica di mistero per i più» (Giraudo)
non costituisse, almeno in quegli anni, un limite insormontabile.
Basti pensare ai numerosi programmi di alfabetizzazione di massa
che molti Stati avevano avviato proprio in quel periodo.
Ma se il latino era un limite (già superabile, almeno in
parte, con il messalino e gli altri libretti bilingue), era un limite
che, in un certo senso, nemmeno gli stessi padri conciliari avevano
mai pensato di “eliminare” del tutto: «L’uso
della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei
riti latini. Dato però che, sia nella messa sia nell’amministrazione
dei Sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso
della lingua volgare può riuscire di grande utilità
per il popolo, si conceda ad essa una parte più ampia, specialmente
nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti»
(Sacrosanctum Concilium n. 36). La questione della lingua liturgica
ritorna al n. 54 della costituzione, che recita: «Nelle messe
celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua
parte alla lingua volgare, specialmente nelle letture e nell’orazione
comune […]. Tuttavia si abbia cura che i fedeli possano recitare
e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario
della messa che spettano ad essi».
Come e perché poi, in nome del Concilio e in attuazione del
Concilio, si sia andati oltre lo stesso dettato conciliare, questo
non lo so. Ma come cattolico del terzo millennio avverto che il
problema non è costituito (tanto) dal cambiamento di lingua,
ma (soprattutto) dal cambiamento di prospettiva liturgica, come
si vedrà più avanti.
b) L’orientamento dell’altare e del celebrante
Dopo aver fatto presente nella seconda parte dell’articolo
ciò che ha significato e significa per la Chiesa di oggi
la costituzione “Sacrosanctum Concilium” e la riforma
liturgica che ne seguì, padre Giraudo constata, nell’ultima
parte, intitolata “A quarant’anni dalla ‘Sacrosanctum
Concilium’: il punto sulla situazione”, che «qualcosa
non ha funzionato» e richiama l’enciclica Ecclesia de
Eucharistia in cui il Santo Padre «segnala l’esistenza
di “ombre” e perfino di “abusi”».
Giraudo precisa, subito dopo, che si tratta di «sbavature
che hanno offuscato e purtroppo continuano ad offuscare la liturgia».
Pur non volendomi addentrare nella differenza qualitativa fra le
parole “abuso” (utilizzata dal Papa) e “sbavatura”
(usata dal gesuita), credo che una “sbavatura” sia molto
meno di un “abuso” e che l’abuso di per sé,
anche in campo liturgico, può sfociare in un atto invalido
o in un errore dottrinale, come d’altronde precisa lo stesso
Pontefice (che l’Autore richiama in nota): «Si aggiungono,
nell’uno o nell’altro contesto ecclesiale, abusi che
contribuiscono ad oscurare la retta fede e la dottrina cattolica
su questo mirabile Sacramento» (“Ecclesia De Eucharistia”,
n.10).
Dinanzi al lungo elenco di “sbavature”, steso da Padre
Giraudo, ma altre se ne potrebbero aggiungere, qualcuno potrebbe
essere indotto a fare, più o meno, questo ragionamento: la
riforma liturgica era non solo opportuna, ma anche indispensabile.
Se oggi, a quarant’anni dalla Sacrosanctum Concilium, constatiamo
che vi sono, assieme alle “luci”, anche “sbavature”
(per dirla con Giraudo) o “abusi” (secondo il Papa)…
pazienza, è lo “scotto” che bisogna pagare! D’altronde,
prima della riforma le cose andavano comunque male (in quanto la
gente entrava nelle chiese per “sentire” una messa che
non capiva, perché “detta” in latino da un prete
che voltava le spalle al popolo, in una struttura in cui c’era
uno spazio, delimitato dalla balaustra, inaccessibile ai fedeli).
Un ragionamento del genere sarebbe, perlomeno, “scorretto”.
Non sarebbe corretto, infatti, tentare di salvare la mediocrità
del presente (se di questo si tratta), “oscurando” un
passato, che va, invece, inquadrato nella giusta luce, non per riproporlo
meccanicamente, ma per meglio conoscerlo e, così facendo,
per cercare di trovare, partendo da esso, spunti utili per comprendere
i problemi di oggi.
Investigare il passato con serenità e senza pregiudizi è
quello che da alcuni anni stanno facendo studiosi e uomini di Chiesa.
Uno per tutti, il Prefetto della Congregazione per la dottrina della
fede, Joseph Ratzinger, che, con i suoi Introduzione allo spirito
della liturgia (da cui sono tratte le citazioni che seguono) e Il
Dio vicino, offre al lettore la possibilità di “riconsiderare”
taluni “luoghi comuni”, che ad un esame più approfondito
mostrano la loro inconsistenza.
E’ il caso, ad esempio, dell’orientamento del celebrante
e dell’altare. Dopo aver ricordato che, partendo da una «presunta
posizione del celebrante» sull’altare della Basilica
di San Pietro, gli autori della riforma liturgica stabilirono che
«l’Eucarestia deve essere celebrata versus populum (in
direzione del popolo). L’altare [...] deve essere disposto
in maniera tale che il sacerdote e il popolo possano guardarsi a
vicenda», il cardinale contesta che questa norma corrisponda
all’immagine dell’Ultima Cena: «In nessun pasto
all’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea
di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano
tutti seduti, e distesi, sul lato convesso di una tavola a forma
di sigma o di ferro di cavallo».
La Messa veniva, dunque, celebrata con il sacerdote e i fedeli rivolti
verso Oriente e l’Est simboleggia il luogo dal quale ritornerà
il Signore e così è stato per lunghi secoli fino alla
riforma liturgica: «Al di là di tutti i cambiamenti,
una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità,
fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a Oriente
è una tradizione che risale alle origini ed è espressione
fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia». L’Oriente
significava infatti l’annuncio del «ritorno del Signore».
«La conseguenza più visibile» della riforma post-conciliare
è quella di «una nuova idea dell’essenza della
liturgia come pasto comunitario». Nel vecchio rito tridentino,
rimasto in vigore fino all’ultima riforma, la Messa era, invece,
essenzialmente il riaccadere del sacrificio della Croce, non un
“pasto” o un “convito” come nella tradizione
protestante. Per Ratzinger, l’Eucarestia non può essere
«descritta adeguatamente dai termini “pasto” e
“convivio”».
Il cardinale continua poi a valutare il risultato della riforma
liturgica: «Ora il sacerdote – o il “presidente”,
come si preferisce chiamarlo – diventa il vero e proprio punto
di riferimento di tutta la celebrazione. Tutto termina su di lui.
E’ lui che bisogna guardare, è alla sua azione che
si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua
creatività a sostenere l’insieme della celebrazione».
«L’attenzione – commenta con amarezza il cardinale
– è sempre meno rivolta a Dio [...]. Il sacerdote rivolto
al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto
chiuso in se stesso».
Ma quella di Ratzinger non è una mera «nostalgia per
il passato». Dopo aver chiarito che sarebbe «un errore
rifiutare in blocco le nuove forme» della liturgia, il cardinale
insiste nel dire che l’orientamento dell’altare, del
sacerdote e dei fedeli verso Est, verso il Sole che sorge, «durante
la preghiera eucaristica» non è «qualcosa di
casuale» ma di «essenziale».
Rigirare, allora, gli altari verso Oriente? In linea di principio
la cosa non dispiacerebbe al cardinale, anche se si rende conto
che «niente è più dannoso per la liturgia che
il mettere continuamente tutto sottosopra».

Forse una soluzione può essere costituita dal riposizionare
al centro dell’altare almeno la Croce, perché essa
sia «il punto in cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote
che la comunità orante». «Tra i fenomeni veramente
assurdi degli ultimi decenni – conclude il prefetto –
io annovero il fatto che la Croce venga collocata su un lato per
lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la Croce, durante l’Eucarestia,
rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante
del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più
presto possibile».
c) Eliminazione, laddove possibile, di balaustre e di quanto altro
possa assumere il significato di separazione fra spazio riservato
al sacerdote (presbiterio) e spazio riservato ai fedeli (navata)
Riprendiamo ora il pensiero di padre Giraudo, secondo cui: «La
fisionomia celebrativa di questi decenni [preconciliari] è
sempre la stessa, né si discosta sostanzialmente da quella
dell’intero millennio cui appartengono. Notiamo subito che
i fedeli hanno preso posto nella navata, che una barriera, spesso
munita di cancelli quasi sempre chiusi, separa dallo spazio riservato
al sacerdote. Oltre quella barriera, denominata “balaustra”,
nell’area che chiamano “presbiterio”, durante
i riti i laici non possono andare…».
Il richiamo all’«intero millennio» lascia intendere
che in quello precedente (il primo), le “cose” stessero
diversamente.
Infatti, per Giraudo basta considerare che «quei liturgisti
e pastori illuminati che hanno dato vita al movimento liturgico
del XX secolo [...] insoddisfatti degli usi ai quali ci si era affezionati,
hanno scoperto che questi corrispondevano spesso alla prassi radicatasi
nel secondo millennio, ma divergevano molte volte dalla Tradizione
(con la “T” maiuscola) che, maggiormente modellata sull’insegnamento
dei Padri della Chiesa, aveva governato le celebrazioni nel primo
millennio. Allora le cose non andavano così. Allora i fedeli
partecipavano attivamente alla messa. Allora “celebravano”
la messa con il loro sacerdote: lui in forza del sacerdozio ordinato,
essi in forza del comune sacerdozio battesimale».
In altre parole: secondo taluni, la liturgia preconciliare (e, sostanzialmente,
medioevale) si era sovrapposta, stravolgendola, alla liturgia del
primo millennio e in particolare a quella dei tempi apostolici.
Ma è proprio così? Le tesi possono essere diverse,
resta il fatto, però, che la divisione tra “presbiterio”
e “navata” risale non al Medioevo, ma ai primi tempi
della Chiesa, quando il senso di “spazio sacro” era
molto più accentuato rispetto ad oggi.
Lo spazio riservato al rinnovamento del Sacrificio della Croce non
poteva essere confuso con lo spazio rimanente. Anzi, tutto lo spazio
occupato dalla chiesa aveva il suo punto focale nel presbiterio,
o, per meglio dire, nell’altare.
Come si è visto, la chiesa era orientata in modo che il luogo
della celebrazione liturgica fosse verso Oriente, avendo cura che
lo spazio delimitato dalle mura avesse la forma della croce, o quasi.
In tal modo, su questa croce disposta orizzontalmente, il presbiterio
e in particolare l’altare si venivano a collocare all’incrocio
dei bracci della croce.
Ancora più a Oriente vi era l’abside, mentre verso
Occidente vi era la navata. I bracci Sud e Nord della croce erano
posti all’altezza del presbiterio.
In tal modo l’altare corrispondeva al cuore del Crocefisso,
l’abside alla testa del Crocefisso, la navata al corpo del
Crocefisso, i bracci del transetto alle braccia del Crocefisso.
Seguendo questa distribuzione, il posto del successore degli Apostoli
era nell’abside, in corrispondenza della testa; il posto dell’altare,
e quindi del celebrante e dei ministri, era al centro del presbiterio,
in corrispondenza del cuore; il posto dei fedeli era nella navata,
in corrispondenza del corpo.
Per di più, in questa navata, fin dai primi tempi della chiesa,
vi erano due zone distinte: la parte centrale riservata agli uomini
e le parti laterali riservate alle donne e perciò detti “matronei”.
L’abside, oltre a delle raffigurazioni relative a Cristo in
gloria, giudicante o benedicente, aveva una precisa forma circolare
e, in particolare, aveva delle finestre da cui entrava la luce del
sole al suo nascere e si riversava sull’altare. In seguito,
questa funzione venne svolta dalla cupola che, mantenendo sempre
la forma circolare, veniva posta in corrispondenza del centro della
croce, esattamente sopra l’altare.
Circa, invece, la supposta partecipazione piena dei fedeli alla
liturgia, da Giraudo intesa come una “concelebrazione”
(«Allora “celebravano” la messa con il loro sacerdote»),
si fa appello a San Giovanni Crisostomo per concludere che «Allora
i fedeli capivano quello che si leggeva nelle letture, quello che
il sacerdote diceva nelle preghiere, in particolare nella preghiera
eucaristica».

Sono un semplice fedele e non un liturgista, mi pare, però,
che non sia possibile sostenere che «i fedeli, allora, capivano
quello che il sacerdote diceva nella preghiera eucaristica»,
semmai si può dire che la conoscessero a memoria, ma
certo non potevano neanche sentirla; e non perché il celebrante
la recitasse a bassa voce (come nella liturgia preconciliare), ma
perché la consacrazione avveniva lontano dagli occhi dei
fedeli. Al momento della celebrazione dei Misteri il presbiterio
veniva chiuso con una tenda e la consacrazione avveniva nel mistero,
appunto.
Altro che balaustra che separa, la parte piú importante della
Messa si svolgeva di nascosto, in perfetta coerenza con ciò
che realmente accade: il Mistero si svolgeva nascostamente, misteriosamente.
Ora, quest’uso era diffuso in tutta la Chiesa, d’Occidente
e d’Oriente. In Occidente, l’uso della tenda che separava
il presbiterio dalla navata andò perdendosi e venne sostituito
da altre pratiche corrispondenti, come il silenzio assoluto che
si doveva mantenere nel corso del Canone insieme alla postura dei
fedeli, in ginocchio e col capo chino, mentre della tenda rimase
solo un ricordo nella velatura del tabernacolo al centro dell’altare.In
Oriente, invece, l’uso si è mantenuto fino ad oggi,
anzi, una delle componenti essenziali della Chiesa orientale è
proprio l’iconostasi, e cioè la separazione netta tra
presbiterio e navata, realizzata addirittura con un’intera
parete colma di icone, con ai lati due porticine che, al momento
opportuno, vengono chiuse.
Concludendo: se non si può dire che prima del Vaticano II
tutto fosse perfetto e dovesse rimanere immutato in campo liturgico,
mi pare che sarebbe altrettanto errato tentare di “coprire”
certe incongruenze di oggi, dipingendo a tinte fosche la vita liturgica
preconciliare. Non va dimenticato, infatti, che da quella Chiesa
e con quella liturgia sono scaturiti tante vocazioni, tanti martiri,
tanti santi.
Questo è quello che anche il Padre Giraudo credo voglia dire
quando scrive: «E’ comunque doveroso riconoscere che
allora i sacerdoti “dicevano” messa con grande devozione
e i cristiani “ascoltavano” la messa con sincera
pietà. La fede dei nostri vecchi si è nutrita così
per oltre mille anni. Anche se il richiamare alla memoria questa
loro prassi può farci abbozzare un sorriso, esso non sminuisce
affatto l’ammirazione e la venerazione che dobbiamo avere
verso quanti ci hanno trasmesso la fede».
Nel chiedere anticipatamente scusa al padre Giraudo per eventuali
inesattezze in cui posso essere incorso, mi piace, da impertinente
ex alunno dell’Argento, dissentire garbatamente da lui: piuttosto
che “abbozzare un sorriso” verso quanti si nutrirono
della liturgia preconciliare, voglio aumentare il senso di gratitudine
e di ammirazione nei confronti di chi, per dirla con San Paolo,
ci ha trasmesso (fedelmente) ciò che ha ricevuto.
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