C’era chi difendeva le ragioni dell’arte
dei suoni e chi
si rifugiava nella
distinzione tra la “nobiltà” della
musica teorica
e la “viltà” della musica pratica.
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Poco più
di due secoli fa (nel 1785, per l’esattezza), il mondo intellettuale
partenopeo fu messo a soqquadro da una vivacissima polemica che
si tradusse in un fitto scambio di pamphlet dai titoli insoliti
e bizzarri.
A dare avvio alla polemica fu una causa legale intentata da un poco
noto compositore napoletano e discussa nelle aule di giustizia della
capitale del Sud: dal contrasto forense (a dir la verità
non eccessivamente significativo, e per certi versi addirittura
banale) scaturì tuttavia un ampio dibattito che giunse a
toccare le spinose questioni della collocazione socio-professionale
dei musicisti e dello stesso statuto della musica.
Un saggio di Rosa Cafiero, apparso negli atti del convegno “Civiltà
musicale calabrese nel Settecento”, (Lamezia Terme, 1994),
aveva già contribuito a richiamare alla memoria e all’attenzione
degli specialisti questo interessante episodio, noto da tempo, ma
mai sistematicamente studiato, provvedendo all’esatta identificazione
del “maestro di cappella” che aveva scatenato involontariamente
la polemica, e scovando gli autori celati dietro l’anonimato
o la pseudonimia di alcuni dei libelli. Ora, un altro studio, di
Andrea Luppi, torna brillantemente sullo stesso argomento, per fornire
sia una dettagliata ricostruzione dell’intera vicenda sia
una cospicua antologia di brani estratti dagli otto pamphlet che
ne tramandano il ricordo. Questo saggio, infatti, è diviso
in due parti: la prima, “Filarmonici e disarmonici”,
analizza antefatti e fatti verificatisi all’epoca; la seconda,
“I testi”, sceglie fior da fiore i brani più
significativi degli autori che intervennero nella querelle su fronti
opposti.
Le motivazioni intorno alle quali si era accesa la gran tempesta
polemica si può riassumere in poche parole: nel 1784 il maestro
Cordella si era rivolto al tribunale ordinario, allo scopo di ottenere
un supplemento di compenso per la prestazione fornita al priore
di una congregazione cittadina, ma il giudice preposto al processo
aveva respinto la sua richiesta, dal momento che era stata avanzata
oltre i termini di tempo consentiti. Il casus belli era determinato
dal fatto che gli ordinamenti vigenti prevedevano tempi diversi
per il passaggio in prescrizione a seconda della categoria professionale
del richiedente; e la sentenza del magistrato aveva assimilato implicitamente
Cordella alla classe dei semplici artigiani.
Ad assumere la difesa del musicista in occasione del ricorso in
appello fu Saverio Mattei, interessante figura della cultura musicale
napoletana della seconda metà del Settecento, il quale mise
a frutto tutte le sue vaste conoscenze classiche e veterotestamentarie
per sostenere l’altissima funzione educatrice e civilizzatrice
della musica e il suo inalienabile diritto di cittadinanza tra le
arti liberali. Utilizzando argomentazioni enfatiche, il difensore
elevò vibrate proteste contro il verdetto sfavorevole inflitto
al Cordella in primo grado, verdetto che, secondo la versione proposta
dal forbitissimo difensore, offendeva e mortificava l’intera
categoria dei musicisti, alla quale andavano invece riconosciuti
un’elevata caratura e un altrettanto alto livello professionale.

Attratti da tanta profusione di dottrina, ma anche di retorica,
scesero in campo uomini di legge e di cultura (Francesco Pepe, Giuseppe
Maria Carobelli, Luigi Serio, Ferdinando Galiani, Felice Parrilli,
Michelangelo Grisolia, Francesco Pellegrini Barone), i quali intrecciarono
un serrato dialogo costantemente sospeso tra il serio e il faceto,
nel quale la riflessione giuridica si alternava all’ironia,
e spesso anche al sarcasmo, senza che questo escludesse l’esibizione
di una specifica erudizione. Così, com’è stato
notato con sorridente spirito critico, la controversia legale, dalla
quale pure tutti prendevano le mosse, passava di frequente in secondo
piano, e c’era chi difendeva le ragioni dell’arte dei
suoni senza tuttavia ritenere fondate le richieste avanzate dal
Cordella, e chi si rifugiava nella distinzione tra la “nobiltà”
della musica teorica e la “viltà” della musica
pratica; chi si aggirava trasognato nelle remote regioni del mito
in compagnia di Orfeo e di Anfione, e chi guardava con occhio disincantato
alla realtà contemporanea delle professioni; chi denunciava
l’altrui ipocrisia, e chi tentava un’ecumenica mediazione;
chi dava sfogo ad antichi rancori personali, e chi preferiva lo
svolazzo dichiaratamente beffardo; chi si irrigidiva su posizioni
moralistiche, e chi escogitava la scappatoia di un tertium genus
hominum nel quale relegare i musicisti come in una sorta di limbo
rassicurante.
Il saggio rappresenta una guida perfetta per attraversare i meandri
della polemica, consentendo di attingere in presa diretta alle fonti
scorrendo i brani selezionati. Fra i vari passi prescelti, gustosissimo
il “Guazzabuglio filosarmonico” di Ferdinando Galiani,
splendido esempio di quell’umorismo che tanto fece prima amare
e poi rimpiangere il petit abbé nei salotti parigini.
E comunque è possibile fare qualche riflessione sulla polemica
partenopea, che alla fine si impantanò e si esaurì
senza approdare ad una soluzione univoca, ma che proprio nel suo
girare a vuoto fece emergere con immediatezza e prepotenza alcuni
problemi scottanti. Spogliati dagli eccessi eruditi, dai cavilli
legali e dai divertenti dileggi, gli otto opuscoli del 1785 restituiscono
il senso del disagio, (condiviso dalla maggior parte degli esponenti
della cultura italiana dell’epoca), di fronte alla necessità
di ripensare l’importanza e il ruolo della musica e dei musicisti,
la prima acerbamente protesa verso il riconoscimento di una piena
dignità estetica, i secondi ancora poco consapevoli e spesso
noncuranti della propria condizione professionale.
Il problema fondamentale era che gli autori impegnati nella querelle
utilizzavano strumenti concettuali impropri, arrugginiti, finendo
per arrampicarsi su specchi, quasi tutti opachi, di superate tassonomie,
incapaci di regimentare la sempre più veloce evoluzione del
loro stesso presente. Come è stato sottolineato, il ricorso
agli exempla della potenza della musica presso gli antichi e alle
astrazioni della retorica altro non erano se non il segno palese,
tattile quasi, della mancanza di categorizzazioni adeguate alla
realtà contemporanea, cui gli stessi ordinamenti giuridici
facevano fatica a star dietro. Sotto altri cieli e sull’onda
di altre sollecitazioni intellettuali, la musica verrà di
lì a poco celebrata come espressione sublime dello spirito
umano.

Nella capitale del Mezzogiorno, nell’anno di grazia 1785,
una cultura più legata alla tradizione e all’erudizione
che non incline e propensa allo slancio fantastico riusciva a denunciare
il problema, ma subito dopo si arenava tra le secche del quesito
«se i maestri di cappella son compresi fra gli artigiani».
E un (ilare?) magistrato li annovera indiscriminatamente fra gli
uomini di braccio e di fisica fatica, falegnami, scalpellini, fabbri
ferrai, carradori, sartori, calzonai, maestri muratori, e quant’altro
annoverabile fra questa complessiva e pur meritoria categoria di
lavoratori. Infinita scaturigine delle risorse immaginifiche partenopee:
forse culla del diritto, probabilmente tomba della giustizia!
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