Quella voce
che riproduceva
i suoni
che ha il mare verso Punta Palascia. Quella voce
che resuscitava
le voci dei monaci sapientissimi
di Casole.
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Scrivere è un modo di tornare: ad un’Itaca, un’origine,
un punto di partenza, ad un’infanzia, una giovinezza, un cielo
terso, là dove si è lievitato il destino, dove si
è diventati così come si è.
C’è sempre una nostalgia al principio del ritorno:
un desiderio di ritrovarsi e ritrovare un tempo della memoria, anche
se a volte sfarinato, quel rocchetto che avvolge il gomitolo da
cui si è dipanato il filo del viaggio con una meta, o il
vagabondaggio senza orizzonte, l’erranza, la fuga.
Poi c’è sempre una malinconia alla fine della strada
del ritorno, del viaggio all’incontrario, del riavvolgersi
psicologico dei giorni e delle ore: la malinconia che viene dalla
materializzazione della consapevolezza del trasformarsi delle cose,
della scomparsa delle creature, dei mutamenti della storia.
Nostalgico e malinconico fu il ritorno di Odisseo.
Nostalgico e malinconico fu il ritorno di Carmelo Bene.
Il grande mito di Otranto, quella grande bolla colorata, quella
raffigurazione senza tempo, stralucente, quello spazio della mente
che stringe e comprende fantasticheria e memoria, realtà
e invenzione, diventa per Carmelo Bene il luogo del ritorno, del
ritrovamento, del rispecchiamento.
In questo luogo-non luogo, nel tempo rappreso, matura la coscienza
dell’assenza, del non esserci, del non esserci mai stato.
Tutto poggia sul vuoto, sull’immateriale, sull’inesistenza;
tutto è inconsistente, ha la parvenza di una nuvolaia.
In questo luogo generato da una realtà immaginaria, nella
sostanza degli esseri che lo abitano, delle cose che lo compongono,
manca il senso della gravità.

Non hanno peso gli esseri, le cose: sono levitanti, volitanti,
semoventi; sono essenzialmente simbolo e metafora, rifrazioni e
riflessi del pensiero.
Perché in questo Sud, in questa Magna Grecia, anche il pensiero
procede a levare, ad eliminare ogni ridondanza, “dispensa”,
si spensiera fino a sublimarsi, fino a trasformarsi in filosofia
pura, fino a diventare estasi ed ascesi.
Grazia che accarezza l’ignoranza dell’uomo. E lo fa
alzare in volo.
Giuseppe Desa, il Frate Asino, Giuseppe Boccaperta “illetterato
et idiota”, toccato dalla Grazia si alzava in volo.
Giuseppe Desa, grande Santo tra i Santi, è l’apoteosi
del depensamento del pensiero del Sud.
Per Carmelo Bene questo pensiero ha una tensione intrinseca verso
la sintesi, l’essenzialità simbolica, verso la metafora
capace di confondere le sfere della terra e del cielo, del mito
e del rito, della memoria e dell’oblio; è un pensiero
che contempla la forma e la deformazione, l’astratto e il
concreto, l’ineluttabilità della storia e il rifiuto
della storia stessa.
Pensare il Sud, pensare il Salento, pensare Otranto e il suo tempo,
per Carmelo Bene vuol dire celebrare un progressivo ritrarsi delle
sue connotazioni storiche e un progressivo assumere la fisionomia
del mito.
Quell’accaduto che sembra l’esito di un’invenzione,
quell’invenzione che sembra concretezza pietrosa, quella storia
che sembra determinata da una causa incausata e quella fantasticheria
che sembra provenire dalla precisione di un evento, tutto questo
destina la terra ad una condizione di ambiguità, di indecifrabilità,
e, quindi, ad una polisemia che riproduce se stessa all’infinito,
generando varianti dalle varianti, sensi dai sensi, vertigini dalle
vertigini.
Per Carmelo Bene il Sud trova ogni guadagno nelle sue perdite, ogni
spinta verso il volo dai suoi azzoppamenti, ogni forza di pensiero
dalla ricerca di una leggerezza di pensiero.
Il Sud per Carmelo Bene è un’infanzia eterna: da quella
infanzia si fugge per tutta la vita; a questa infanzia si torna
per tutta la vita. Volenti o nolenti. Con felicità o disperazione.
Nella realtà o nel sogno ad occhi chiusi o aperti.
A questo Sud tornò Carmelo Bene. A quella sua casa in faccia
all’infinito. Tornò allo stupore di quelle sue madonne
bionde, dimenticate in certe stagioni della vita, mai tradite, però.
Mai visceralmente abbandonate. A questo Sud tornò Carmelo
Bene. Perché qui s’era fatto il suo destino.
Tornò a questo Sud che aveva rifiutato ma che, come le Madonne,
non aveva mai tradito. Da questo Sud aveva preso in prestito la
voce: quella voce. Quella voce che riproduceva i suoni che ha il
mare verso Punta Palascia. Quella voce che resuscitava le voci dei
monaci sapientissimi di Casole.
Quella voce che rimodulava le urla di dolore sopra il colle della
Minerva. I sussurri dei pescatori. I bisbigli dei rosari nella penombra
delle chiese. I silenzi delle attese di un ritorno, sotto al porto.
Quelle voci. Quella voce.
* * *
Per il tempo che è durata la lettura di Nicola a Copertino,
il racconto di Vittore Fiore edito dai Quaderni del Bardo di Maurizio
Leo, con uno scritto di Rina Durante e una nota di Massimo Melillo,
il pensiero è andato continuamente alla figura di Giovanni
Drogo, il personaggio del Deserto dei tartari.
Non c’è alcun nesso tematico, né strutturale,
né semantico tra il romanzo di Dino Buzzati e il racconto
di Vittore Fiore, se non che tanto Nicola quanto Drogo siano militari
in servizio malvolentieri in qualche posto e, soprattutto, costantemente
in attesa pacata di un qualcosa di incerto, indefinito, non detto.
Non c’è alcun nesso se non una sorta di fuga dal tempo
da parte dell’uno e dell’altro personaggio e una martellante
interrogazione senza risposta sulla ragione del loro essere lì,
in quell’ora.
Ma quando Vittore Fiore scrisse questo racconto, che uscì
nel ‘52 su “Il Mondo” di Mario Pannunzio, non
poteva non conoscere il romanzo di Buzzati, pubblicato sette anni
prima da Mondadori.
E allora: se ad un lettore accade di associare Nicola e Giovanni
Drogo, probabilmente anche in modo inconscio, non si può
escludere che, forse altrettanto inconsciamente, una certa associazione
possa essere stata fatta anche dallo stesso scrittore.
Ovviamente si tratta di supposizioni.
Non ci sono analogie tra Dino Buzzati e Vittore Fiore.
Però. Però il paesaggio che circonda la piccola casa
sulla ferrovia, e quella descrizione di un paese bianco, immobile,
immutabile, chiuso in se stesso come se fosse vuoto, immerso in
un’aria rarefatta, distillata, e quel senso di solitudine
che prende alla gola, fanno pensare al pianoro che si stende intorno
alla Fortezza dalla quale Buzzati osserva il mondo enigmatico e
il destino di un manipolo d'uomini.
Ad amici e studiosi dell’uomo nato sui mari del tonno, figlio
di Maria Piccolo e di Tommaso, mancava un’edizione agevole
di Nicola a Copertino.
Rina Durante individua in questo racconto quell’elemento che
ha sempre caratterizzato il pensare e l’agire di Vittore:
«la ricerca della verità che sostanzia l’anelito
alla libertà, che si rivela anche nelle piccole cose, nel
modo di accostarsi alla donna o in quello di concepire l’amicizia».
Melillo, invece, con tratti rapidi ed essenziali – quasi trasposizione
in parola del ritratto di Fiore fatto da Carlo Levi e ripreso in
copertina – ricostruisce la vicenda esistenziale, politica,
culturale (tre termini che Vittore impastò in una passione
sola) del meridionalista capace di annodare con i fili del presente,
passato e futuro, Sud ed Europa, evidenziando quella onestà
di pensiero e quella lucidità intellettuale che hanno sempre
impedito a chiunque di considerare Fiore soltanto come l’espressione
vivente della storia meridionale.

Fino agli ultimi giorni del febbraio del ‘99, Vittore Fiore
ha dato voce viva e autentica, anche con umane nostalgie, ad un
impegno e una poesia civile puntando lo sguardo verso un orizzonte
sociale ancora tutto da realizzare, ha continuato a dare lezioni
di analisi politica con una concretezza e una nitidezza eccezionali.
Melillo ricorda un’intervista all’ “Espresso”
in cui Fiore diceva: «I giovani del Sud da soli non ce la
fanno. Ai partiti il compito dell’unificazione politica su
basi di riequilibrio tra Nord e Sud. Non servono gli appelli moralistici
ai giovani del Sud. Che rompano i giochi, attraverso una severa
militanza politica, e si gettino nella mischia, sapendo che oggi
la battaglia è più difficile di ieri, che sono cambiati,
anche socialmente, i dati della questione meridionale, che è
necessaria una più agguerrita progettualità».
Ecco, dunque: un pensiero svincolato da qualsiasi schema; un’esistenza
dedicata interamente al culto della libertà; una capacità
straordinaria di cominciare sempre qualcosa di nuovo, di rimettere
tutto in discussione, senza risparmiarsi mai, senza considerarsi
mai quel punto di riferimento obbligato e insostituibile che rispondeva
al nome di Vittore Fiore.
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