L'Europa rischia di sparire dalla carta geografica
proprio nel momento in cui l’allargamento a nuovi Paesi sembra
invece renderla più forte.
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«Senza le riforme, l’Europa sparirà dalla carta
geografica». All’indomani del mancato accordo sulla
nuova costituzione europea, questa affermazione del presidente della
Commissione europea non appare affatto retorica e costituisce un
ottimo punto di partenza per dipanare la matassa dell’economia
mondiale, sempre più aggrovigliata. Mentre l’Europa
indugia, ripiegandosi su se stessa come se il resto del mondo non
esistesse, le carte geoeconomiche si stanno modificando con rapidità
estrema: un vero e proprio terremoto economico sta cancellando posizioni
consolidate talvolta da decenni, talvolta addirittura da secoli,
disegnando un’economia dura e diversa, ancora difficile da
decifrare, nella quale l’Italia e l’Europa devono trovare
la loro strada per non essere sospinte verso la marginalità
e l’irrilevanza.
Quando il presidente della Commissione paventa la sparizione dell’Europa,
i suoi occhi sono puntati soprattutto sulla Cina, dove vive un quinto
dell’umanità. Qui, e precisamente nelle zone costiere
che si affacciano sul Mar Cinese, lungo gli oltre mille chilometri
che separano Canton da Shanghai, si trova il nuovo “ombelico
del mondo”; qui è affluita in pochi anni, dall’interno
agricolo e poverissimo, una massa umana stimata in almeno 150 milioni
di persone; e parallelamente vi si è riversata una massa
straordinaria di capitale estero, il cui flusso nel 2002 (ultimi
dati disponibili) ha superato quello diretto verso gli Stati Uniti.
Si è così creata una concentrazione senza precedenti
di fabbriche, uffici, città, aeroporti, cervelli.

I processi di base di questa crescita, che lascia sbalorditi gli
economisti e non è riscontrabile nel passato né per
intensità né per durata, sono in atto ormai da un
quindicennio, ma negli ultimi due-tre anni l’economia cinese
è letteralmente “esplosa”, pur riuscendo a rimanere
sufficientemente al riparo dall’inflazione. Un calcolo sommario
mostra che, con dati misurati a parità di potere d’acquisto,
quella cinese è la terza economia del mondo, dopo Stati Uniti
e Unione europea. Nel 2003 dalla Cina è derivato circa la
metà dell’intero incremento produttivo mondiale, il
che fa di questo Paese – straordinaria mescolanza di socialismo
e di capitalismo, di libertà economica e di carenza di libertà
politiche – il principale motore di crescita del pianeta,
non scalfito dalle incertezze che caratterizzano le economie occidentali.
Quello che una volta si chiamava Celeste Impero ha raggiunto il
primo posto nella classifica produttiva mondiale di un gran numero
di beni, dalle biciclette ai televisori; è in grado di fabbricare
aerei e reattori nucleari, missili, satelliti, e, insieme col Giappone
e con la Malaysia, sta svisoftware che le permetteranno di affrancarsi
dall’elettronica americana; è ai primissimi posti nell’importazione
delle principali materie prime industriali e le sue esportazioni
di prodotti sempre più sofisticati sono aumentate di tre-quattro
volte nei pochissimi anni che ci separano dall’inizio del
secolo.

Le sue riserve in valuta estera sono all’incirca raddoppiate
in due anni e i cinesi le impiegano in buona parte nell’acquisto
di titoli del debito pubblico dei Paesi ricchi, al punto che gli
Stati Uniti e l’Italia difficilmente riuscirebbero a collocare
a basso tasso di interesse i federal funds, i Btp e simili, se non
ci fossero gli acquirenti cinesi. Per numerosi Paesi ricchi si crea
così una dipendenza dal finanziamento cinese, il che pone
nelle mani del governo di Pechino un’arma importante per resistere
alle pressioni perché rivaluti la moneta, il che frenerebbe
le esportazioni, e alle minacce di più elevate tariffe doganali
sui prodotti cinesi. Il cambio dello yuan, la moneta cinese, rimane
così ostinatamente ancorato a un dollaro svalutato, il che
rende le merci cinesi sempre meno care, consente nuove invasioni
commerciali e l’accumulo di nuove riserve valutarie in un
circolo virtuoso per i cinesi, ma guardato con preoccupazione crescente
negli Stati Uniti e in Europa.
Non è solo la Cina a far nascere preoccupazioni per la stabilità
del sistema economico mondiale; sulla nuova mappa economica del
mondo gli Stati Uniti sono il secondo punto strategico e dolente.
La loro economia è stata salvata dalla depressione grazie
a una dose impressionante di sgravi fiscali, all’abbattimento,
fino a livelli minimi, del costo del denaro, all’aumento massiccio
della spesa pubblica, soprattutto per scopi militari. Con il risultato
che sono sempre più indebitati sia gli Stati dell’Unione
(la California di Schwarzenegger è sull’orlo della
bancarotta) sia il governo federale (gli Stati Uniti non potrebbero
essere ammessi nell’area dell’euro perché il
loro deficit pubblico, interamente creatosi durante la presidenza
Bush, supererebbe i limiti imposti dal Trattato di Maastricht; le
famiglie americane, dal canto loro, hanno sostenuto l’economia
con l’acquisto di nuove abitazioni, approfittando del bassissimo
costo del denaro, e ora sono più indebitate di prima. Per
questi motivi, la ripresa americana, della quale si vedono soltanto
segni contraddittori, potrebbe risultare debole e di breve durata.l
dollaro non brilla, ma anzi si sbriciola, uno sviluppo a lungo incoraggiato
dal Tesoro di Washington nella speranza – finora dimostratasi
infondata – di esportare di più e di importare di meno
è oggi forse sfuggito di mano. Il deficit commerciale ha
ormai superato la cifra di un miliardo di dollari al giorno, e continua
ad aumentare: a causa della loro struttura economica, gli Stati
Uniti, anche con un cambio svalutato, hanno relativamente poco da
vendere agli altri Paesi (essenzialmente elettronica, medicine,
grano e armi), mentre gli altri Paesi, nonostante i dazi e i sussidi
ai produttori americani, continuano ad aumentare le vendite sul
mercato statunitense. I calcoli sbagliati sul costo e sulla durata
della guerra irachena hanno accresciuto in maniera del tutto imprevista
il deficit pubblico degli Stati Uniti.
Nonostante questi elementi negativi, la grande vitalità
delle imprese americane potrebbe ancora avere la meglio e trainare
il pianeta su un nuovo sentiero di sviluppo; smaltita la bolla finanziaria,
la “nuova economia” potrebbe dar luogo a prodotti economicamente
validi, pur senza gli utili astronomici un tempo promessi e mai
realizzati. Si tratta di una prospettiva che, per il momento, non
ha ancora convinto i mercati finanziari, nei quali le azioni mostrano,
sì, una tendenza alla crescita, ma estremamente cauta e guardinga.
Il discorso torna, a questo punto, su quell’Europa che, com’è
stato detto, rischia di sparire dalla carta geografica proprio nel
momento in cui l’allargamento a nuovi Paesi sembra invece
renderla più forte. In realtà, anche con l’ingresso
di dieci nuovi Paesi, la popolazione dell’Unione europea è
solo di poco superiore a quella della provincia cinese di Wu Han;
la sua credibilità politica è minata da frequenti
dissidi e differenze d’opinione chiaramente emersi nel 2003
con le spaccature a proposito della guerra in Iraq e con il fallimento
del progetto di nuova costituzione; le sue capacità militari
si sono ridotte in termini relativi e forse anche assoluti nel corso
dell’ultimo decennio. La sua coesione e la sua forza sono
concentrate nella politica commerciale e doganale comune e nella
moneta comune di dodici Paesi su quindici, che costituisce l’unica,
per quanto parziale, alternativa al dollaro.

La domanda europea si è appiattita negli ultimi dodici mesi,
lasciando di stucco governi ed economisti – i quali, al contrario,
si attendevano una buona ripresa – per motivi che rimangono
ancora largamente oscuri. Sembra che su tutto abbia giocato la paura
delle famiglie di perdere pensioni e lavoro a seguito delle liberalizzazioni
e di riforme che hanno introdotto nuova flessibilità nei
mercati; per premunirsi, hanno accantonato risorse finanziarie e
quindi non hanno aumentato i consumi. Una quota maggiore del solito
di questi consumi quasi fermi è stata soddisfatta dalle agguerrite
importazioni dalla Cina e da altri Paesi emergenti, mentre gli sforzi
europei per esportare hanno incontrato resistenze sempre maggiori
e una concorrenza più accanita. Assieme alla Germania, l’Italia
è il Paese europeo nel quale simili difficoltà sono
state maggiormente sentite.
L'apertura all'Est derivante dall’allargamento dell’Unione
europea ha buone possibilità di modificare radicalmente in
meglio questa situazione; perché questo avvenga, è
necessario che i programmi infrastrutturali dei nuovi Paesi membri
vengano adeguatamente finanziati. Il finanziamento ai Paesi dell’Est
sarebbe, infatti, un finanziamento alle industrie, in larghissima
prevalenza europee, che realizzeranno per le nuove infrastrutture.
Nel gennaio 2004, poi, sono entrati in vigore gli sgravi fiscali
tedeschi, il che dovrebbe stimolare la domanda della maggiore economia
europea.
In definitiva, anche se sono ormai due anni che le previsioni di
miglioramento si rivelano errate, questa volta qualche segnale di
miglioramento c'è. A forza di gridare “ripresa, ripresa!”,
forse in Europa la ripresa arriverà davvero.
Una ripresa europea, parzialmente sganciata dall’eventuale
analogo movimento americano, non basta certo a risolvere i problemi
del pianeta. Il sistema dei cambi è scosso e dovrebbe essere
stabilizzato: se i mercati non saranno capaci di farlo da soli,
ci penseranno i governi e le Banche centrali.
Non è da escludere, nei prossimi mesi, un sostegno al cambio
del dollaro, sotto forma di prestiti agli Stati Uniti, da parte
europea e giapponese, per evitare che la caduta continui; e forse
ci sarà una parallela, anche se piccola, rivalutazione dello
yuan da parte dei cinesi. Così, nel migliore dei casi, il
sistema riprenderà la sua corsa, il che rappresenta una condizione
necessaria, ma non sufficiente, perché il pianeta recuperi
l’ottimismo. I divari di reddito e di potere economico, oltre
che militare, stanno aumentando, e il modo per affrontarli non è
stato ancora trovato.
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