Perché
gli Stati Uniti
non devono
sperimentare
una versione
annacquata della crisi valutaria che, ad esempio,
ha colpito
l’Indonesia?
|
|
La ripresa americana è stata alimentata da una politica
fiscale e monetaria molto espansiva. I tagli delle tasse voluti
dal Presidente hanno fatto certamente lievitare il deficit pubblico,
ma la politica monetaria di Alan Greenspan e della Federal Reserve
ha tenuto bassi i tassi di interesse. Una scelta giusta di politica
economica, dato il livello di capacità produttiva inutilizzata
dell’economia statunitense. Per il momento non c’è
alcun motivo di preoccuparsi del futuro, nella speranza che la spesa
in conto capitale delle aziende si stia riprendendo, come sembra.

Non c’è dubbio che i tassi di interesse prima o poi
dovranno salire. La questione è quando. Personalmente, non
faccio previsioni di medio e lungo periodo, dopo tutto non le fa
neanche il Governatore della Federal Reserve. In questi quindici
anni Greenspan ha imparato a basare le sue scelte di politica monetaria
su previsioni di breve periodo, e devo dire che la strategia ha
avuto grande successo.
Ci si chiede se gli alti deficit pubblici possano finire per causare
un “crowding out” del risparmio privato e possano frenare,
di conseguenza, lo sviluppo. Ma anche Keynes ha affermato che non
c’è “crowding out” quando le risorse di
un’economia non sono sfruttate nella loro interezza. Quello
che mi preoccupa piuttosto sono le implicazioni dei tagli fiscali
sulla crescita futura. Avrei preferito vedere aumenti nelle spese,
ad esempio più sussidi alla disoccupazione, anziché
una manovra fiscale che favorisce soltanto i redditi più
alti; oppure maggiori trasferimenti ai singoli Stati. Se i deficit
saranno ancora alti quando si raggiungerà il pieno impiego,
e tutte le previsioni puntano in questa direzione, i tassi di interesse
dovranno salire, e così anche le tasse, soffocando la crescita
futura.
Altra preoccupazione dell’economia statunitense, il deprezzamento
del dollaro. Ebbene: se devo essere sincero, questo per me è
un mistero: ma non tanto il deprezzamento della divisa americana,
quanto il fatto che sia così ordinato e graduale, e così
in ritardo. L’investimento in dollari dal punto di vista di
un investitore europeo o giapponese è palesemente svantaggioso.
Non solo: se i tassi di interesse americani saliranno presto, chi
detiene obbligazioni del Tesoro statunitense sarà colpito
anche da una probabile perdita in conto capitale. Perché
in questa situazione non si verifica una crisi valutaria, perché
gli Stati Uniti non devono sperimentare una versione annacquata
della crisi valutaria che, ad esempio, ha colpito l’Indonesia?

Certo, non è un mistero assoluto, non del tutto, almeno.
Il motivo per cui gli stranieri continuano a investire in dollari
nonostante l’avverso differenziale dei tassi di interesse
e la colossale dimensione del deficit commerciale americano è
la fiducia di fondo nell’economia americana. Ma se mi fosse
stata chiesta una previsione sul dollaro uno o due anni fa, avrei
scommesso su un deprezzamento molto più rapido e molto più
intenso. E avrei sbagliato completamente.
In ultima analisi, va messo in rilievo il fatto che la Borsa ha
assorbito del tutto lo shock dell’11 settembre, senza grandissimi
contraccolpi, e non credo che sarebbe diverso se un 11 settembre
dovesse malauguratamente verificarsi una seconda volta. L’impatto
avverso potrebbe essere semmai nei rapporti con il resto del mondo,
oltre che sul commercio, sugli investimenti esteri negli Stati Uniti.
Sulla fiducia dei consumatori? E’ un dato in cui proprio non
credo.
|