Nel Bel Paese
la produzione
industriale mostra lievi segni
di crescita, sebbene noi ci siamo
riservato il piacere di distruggere
i grandi impianti.
|
|
La congiuntura continua a volgere al bello, malgrado i dubbi sul
mercato americano del lavoro, le revisioni al ribasso del Prodotto
interno lordo giapponese, o gli occasionali passi del gambero europei.
Il ciclo internazionale sembra aver avviato una discreta fase ascendente,
sebbene si porti dietro, specialmente per l’America, squilibri
irrisolti. Ma l’onda di alta marea è più forte
e può essere anche molto lunga.
Non sono soltanto gli Stati Uniti a tener su la domanda mondiale.
Anche la Cina fa la sua parte, e il resto dell’Asia (insieme
con gli Usa, una gigantesca “area del dollaro”) tira
la ripresa. In Europa, le spigolature dei dati congiunturali sono
positive, soprattutto per l’ex “grande malato”,
la Germania.
Il dollaro non è più appeso ai differenziali di crescita,
ma dipende dal deficit corrente americano: il mercato si rende conto
che non c’è da fidarsi a finanziare il disavanzo corrente
ai livelli attuali del biglietto verde e continua a domandare un
cambio più basso. Il resto del mondo, secondo previsioni
attendibili, deve abituarsi a convivere con una divisa statunitense
in corso di svalutazione.
Che cosa sta succedendo al di là dell’Atlantico?
I timori di risalita dei tassi sono stati messi a tacere dalla Federal
Reserve. Può sembrare strano che la Fed continui a mantenere
il tasso-guida all’1 per cento, un minimo quarantennale. Pur
in presenza di un ottimo ritmo annuale di crescita e di segnali
chiari che la crescita è rimasta sostenuta. E ciò
dovrebbe confortare gli incerti sul fatto che non si tratta di un
balzo una tantum. Non solo: la stessa Federal Reserve assicura che
terrà basso il costo del denaro per un periodo considerevole,
permettendo così, con un’implicita garanzia, i più
diversi arbitraggi, fra breve e lungo in particolare e fra attività
meno rischiose e attività più rischiose in generale.
Se la Fed si comporta in questo modo, evidentemente è perché
non è affatto preoccupata che nemmeno un’economia con
dinamiche stellari possa innescare nel breve periodo una spirale
inflazionistica.
Su questo, la Fed ha perfettamente ragione: le forze della disinflazione
in giro per il mondo sono ancora attive, a cominciare proprio dalla
Cina, che inonda il pianeta di prodotti a basso prezzo; e per finire
con la produttività, che permette agli Stati Uniti di abbassare
il costo del lavoro per unità di prodotto. Lunga vita ai
tassi bassi, insomma. Quanto lunga? Potrà durare ancora per
un anno o due. Ma tutto dipenderà dalla risposta dell’economia
reale: neanche i banchieri centrali hanno la sfera di cristallo,
e hanno il diritto-dovere di adattare l’opinione ai fatti
che via via si dipanano.

La performance della produttività Usa – anch’essa
stellare – si somma al deprezzamento del dollaro nell’esaltare
la competitività americana. Questa debolezza della moneta
statunitense è ormai dominata dai problemi di finanziamento
del deficit corrente, che continua a livelli attorno al 5 per cento
del Prodotto interno lordo. Dato che anche il deficit pubblico è
intorno a quei livelli, gli investitori internazionali hanno l’inquieto
sospetto di essere loro a finanziare il disavanzo pubblico e chiedono
quindi un “premio” per continuare a farlo. E questo
premio non può essere altro che un dollaro più basso.
Sia in teoria che in pratica, una situazione di questo genere rischia
l’overshooting, l’umiliazione del dollaro oltre quanto
sia giusto. Ma dato che nessuno sa veramente quanto sia “giusto”
che il dollaro scenda, ci si premunisce dandogli un margine di sicurezza,
purtroppo per noi, verso il basso.
Vita tua mors mea: la “vita” restituita alla competitività
americana rischia di diventare una “mors” per i Paesi
dell’euro, stretti fra l’incudine di una moneta in rapido
apprezzamento e il martello di costi del lavoro in assoluto più
alti e in dinamica più penalizzanti rispetto all’America?
Ad osservare i dati, si direbbe che questi timori sono esagerati.
Le prime avvisaglie di ripresa europea hanno coinciso con la ripresa
senza soste della moneta unica. Con ciò confermando che i
cambi sono, sì, importanti, ma che la competitività-prezzo
non è al primo posto fra i determinanti della crescita. Contano
di più la politica di bilancio, da un lato, e le politiche
strutturali, dall’altro.
Fuori dall’Atlantico, i cambi ripetono la scomoda situazione
delle monete asiatiche, yen escluso. Mentre quest’ultimo è
su un sentiero di apprezzamento rispetto al dollaro, le altre valute,
a cominciare dal renmimbi, fluttuano con il biglietto verde e partecipano
quindi ben poco al processo di raddrizzamento del deficit corrente
americano, che si scaricherà in gran parte su Europa e Giappone.
Una ragione in più, perché il Vecchio Continente si
prepari alla stagione medio-lunga del dollaro debole (già
nel 1995 l’Euro/Ecu era a quota 1,35 contro dollaro), riavviando
con alacrità i cantieri incompiuti delle riforme.
Per la tenuta della ripresa, è in corso una duplice prova
del nove. Quella per gli Stati Uniti, dove la domanda cui rispondere
non è nuova: continueranno i consumatori Usa a spendere e
magari a scialare un po’, dando impulsi di espansione all’intero
sistema? La risposta è soprattutto indipendente dal mercato
del lavoro. Che ha continuato a migliorare. Molti sono stati spiacevolmente
sorpresi dallo scarso numero di posti creati a fine anno. Ma è
solo il dato dei dipendenti, mentre questa fase di rilancio accompagnata
da ristrutturazione continua e accresce l’occupazione indipendente,
soprattutto quella collegata al lavoro delle famiglie. Ciò
spiega i progressi nelle vendite, tornate a salire a passo robusto.
Di conseguenza, si è ottimisti riguardo all’aumento
del Pil, spinto dal settore manifatturiero: il quale è ai
massimi da oltre vent’anni, mentre le scorte hanno ripreso
a salire, l’export avanza più rapidamente dell’import,
gli ordini di beni di investimento sono sempre in ascesa, il mercato
immobiliare non dà segni di stanchezza.
La seconda prova del nove riguarda la tenuta della ripresa in Eurolandia,
in presenza di un euro che si rafforza, seppure meno di quanto il
cambio bilaterale con il dollaro lasci intendere. Se si considera
che questo apprezzamento è in corso ormai da trentasei mesi
e che quindi già avrebbe dovuto far sentire i suoi contraccolpi
sulla dinamica dell’economia, non si può che essere
rassicurati dal risveglio della crescita, che si sta sempre più
nettamente profilando migliore rispetto alle previsioni: puntare
a un aumento del Pil tra i Dodici nel corso di questo 2004, con
un 2 davanti alla virgola, appare ora meno velleitario. Basta vedere
come l’ascesa del cambio non freni il rialzo di fiducia degli
imprenditori tedeschi, i più sensibili in materia, e come
anzi in Germania produzione industriale, ordini, indici di diffusione
e anticipatori siano in netto miglioramento, in quantità
e composizione, (la domanda interna fa la sua parte). Anche in Italia
sono più le sorprese positive di quelle negative, sia pure
con tutte le accidentalità che si verificano nel Bel Paese:
la produzione industriale mostra lievi segni di crescita, sebbene
noi ci siamo riservato il piacere di distruggere i grandi impianti,
di cui dispone – tanto per fare un esempio – la Francia;
l’export avanza fuori dall’Unione europea, (di nuovo,
l’effetto cambio non è evidente, seppure sicuramente
ci sarà: senza di esso, potremmo addirittura essere in fase
di quasi-boom); i consumi delle famiglie accennano a salire: qualcuno
li calcola in una crescita del 2,5 per cento, cifra non più
vista dalla fine del 2000.
Parliamo dell’inflazione. Può un sistema-mondo che
vive una stagione di robusta crescita corale non riscaldare un poco
anche i listini? Se guardiamo ai prezzi delle materie prime in dollari,
(industriali ed energetiche), la risposta è negativa. E pure
se osserviamo i vari indici in giro per il globo di prezzi al consumo,
dobbiamo constatare che il punto di minimo dell’inflazione
è stato toccato. Questo non vuol dire che si debba correre
a suonare l’allarme. Prima di tutto, perché il livello
di inflazione da cui si parte rimane molto basso, nettamente inferiore
a quello osservato nelle passate fasi di riavvio del ciclo. Secondo,
perché le pressioni concorrenziali, gli avanzamenti tecnologici
e di produttività, e l’ampia capacità inutilizzata
sono una garanzia contro un veloce surriscaldamento dei prezzi.
Eppoi, in fondo, è un quadro rassicurante, dopo i timori
di deflazione patiti fino a poco tempo fa.
L’Italia, Paese ancora smarrito, saprà trarre una qualche
lezione positiva per la crescita reale? Il nostro mondo politico
saprà venir fuori dal limbo dei reciproci massacri, per mettere
mano seriamente alle riforme strutturali, all’occupazione,
all’aumento della produttività, perché il Paese
non si disancori pericolosamente dall’Europa? Oppure dovremo
restare vincolati alla pessimistica visione che Giorgio Amendola
aveva del nostro “capitalismo straccione”, all’ombra
di uno Stato che sapeva produrre soltanto instabilità e declino?
|