Ci sono,
in terra salentina, compositori,
musicologi,
musicofili,
esecutori di ottimo livello, ma troppo spesso isolati.
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E stato scritto che la musica sacra italiana del XVIII secolo
costituisce un repertorio in grandissima parte ancora da esplorare,
la cui conoscenza rimane affidata a pochi capolavori isolati, in
attesa di ricognizioni sistematiche su generi, forme, stili e centri
di produzione, nonché di più frequenti iniziative
di edizioni critiche dei testi, esecutive e discografiche, che consentano
agli studiosi e agli appassionati di venire a contatto con autori
meritevoli di attenzione.
La notazione è di un fine saggista, Lucio Tufano, il quale
a suo tempo accolse con un plauso schietto lapparizione del
pregevole Stabat mater del galatinese Pasquale Cafaro,
riproposto in edizione moderna da Giovanni Acciai e Marco Berrini.
Penso, fra laltro, ad alcuni autori piuttosto negletti, due
matinesi che hanno svolto ruoli importanti nel campo della creatività
musicale, lo Scarlino, immeritatamente noto solo in ambito meridionale,
e il Romano, di cui dovrebbero esistere nella discoregistroteca
della Rai di Torino documenti musicali anchessi di grande
respiro e spessore: ma luno e laltro stratificati nelle
pagine ingiallite delle antologie dantan, mentre la loro modernità
andrebbe scandagliata e riproposta allattenzione dei musicofili,
e perché no, dei compositori dei nostri giorni come lezione
di continuità della tradizione melodica italiana, se vogliamo
dal Cafaro ai nostri giorni.

Cafaro, infatti, fu personaggio di gran rilievo nellaffollato
panorama della Napoli musicale del Settecento, dal momento che «nel
catalogo delle sue opere è dato rinvenire melodrammi, cantate
e pezzi sacri, ma la fama che egli si guadagnò presso i contemporanei
va ricondotta anche e soprattutto alle sue capacità di didatta,
che gli valsero lincarico di maestro di musica della regina
Maria Carolina».
Il suo Stabat è datato 1785, dunque appartiene
allestrema maturità, visto che precedette di due anni
soltanto la morte del compositore: un compositore longevo, vista
letà media dellepoca. E caso rarissimo rispetto
alle consuetudini coeve, lopera fu pubblicata a stampa, «e
in ciò è probabilmente da vedere una riprova, e, insieme,
un effetto del prestigio di cui lautore godeva e dei suoi
ottimi rapporti con la corte napoletana». Il saggista sottolinea
che nella sua dedica ai sovrani partenopei Cafaro non nascose il
proprio timore ad intonare la sequenza latina dopo linarrivabile
esempio del Pergolesi, e indicò quale occasione e destinazione
del lavoro lannuale celebrazione dei dolori di Maria
presso la Chiesa della Solitaria.
Questa straordinaria composizione, che il frontespizio settecentesco
designa musica a quattro voci e a due in canone con violini,
viola e basso, è formata da undici sezioni, che frammentano
il testo in porzioni di estensione variabile da una a quattro terzine:
il principio organizzativo che ne costituisce la successione è
lalternanza tra duetti in canone e brani a quattro voci. I
duetti non sviluppano rigorosamente il procedimento canonico, (introdotto
dagli archi che ne anticipano lintreccio, le due voci vengono
condotte in imitazione per lungo tratto, ma poi si appaiono in estese
formule cadenzali, come rileva Tufano), e mostrano una certa uniformità
e ripetitività di trattamento, sebbene Cafaro sappia creare
atmosfere espressive differenziate, assecondando le suggestioni
del testo: una limpida dolcezza permea, ad esempio, il Vidit
suum, mentre il Fac me tecum è molto intenso
e dolente.
Più vario e brillante è lo stile delle cinque sezioni
a quattro voci, nelle quali il compositore impiega, con dosaggio
calibrato e sapiente, modi di scrittura diversi: il discorso vocale
assembla blocchi omoritmici, episodi imitativi e scambi dialogici
tra le parti, mentre nello strumentale emergono forme di accompagnamento
solitamente poco elaborate, senza che manchino passi nei quali il
soprano sviluppa da solo linee melodiche estese oppure, o insieme,
fiorite, che a volte ingannano chi scorre la partitura, inducendo
a credere di trovarsi di fronte ad unaria solistica.
Come rileva il critico, sarebbe interessante «conoscere lorganico
per il quale la composizione venne concepita: momenti come quelli
appena menzionati sembrano suggerire pur in presenza di specifiche
indicazioni in tal senso una giustapposizione solista/coro
allinterno delle sezioni a quattro voci, ma è anche
possibile ipotizzare che queste ultime fossero pensate per unesecuzione
affidata ad un solo cantante per ciascuna parte». In conclusione,
lo Stabat di Cafaro esemplifica una convivenza in vivace
osmosi tra antico e moderno, tra severità contrappuntistica
e brillanti disinvolture che ammiccano anche ai generi profani.
Ci sono, in terra salentina, compositori, musicologi, musicofili,
esecutori di ottimo livello, ma troppo spesso isolati, eroicamente
impegnati a portare avanti attività professionali e iniziative
di promozione della cultura musicale. Forse, una maggiore attenzione
delle istituzioni pubbliche potrebbe aiutare costoro a progettare
percorsi conoscitivi e di divulgazione, cioè di educazione
della gente allascolto, senza dubbio di grande valore, anche
sociale. Non a caso il gusto della gente si è affinato e
la domanda di scoperte e di riscoperte culturali è notevolmente
cresciuta in questi ultimi anni.
Cominciare dai propri autori, riproporli in chiave di avvio di una
lettura rigorosa di opere di alta caratura può significare
ristabilimento di un contatto selettivo e scandito per
valori con gli uomini più rappresentativi di quella che è
stata genericamente (e quasi indistintamente) definita Scuola
napoletana, nella quale ebbero diritto di cittadinanza compositori
pugliesi di prima grandezza. Vale la pena di promuovere un progetto
del genere, anche per mettere allo scoperto uno strato nobile ma
finora negletto dei nostri giacimenti culturali.
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