Ascoltare le
proprie voci di dentro, guardarsi vivere macinando il tempo, è
una pena che soltanto la poesia può
lenire.
|
|
Uno si chiede con quali occhi abbia guardato la sua terra, Vittorio
Pagano. E in quale antro sinfossasse per guardarla, su quale
nuvola salisse, quale campanile, in quale bosco si addentrasse,
dentro quale torre dirupata.
Uno si chiede come abbia fatto ad avere uno sguardo così
profondo e lungo, pluriprospettico, microscopico, macroscopico,
totale. Come se guardasse a volte da una feritoia, altre volte dagli
abissi o dalla cresta di unonda, da un altare, una tomba.
E poi si chiede, uno che ha letto Pagano e lo ha riletto e lo rilegge
ancora, poi si chiede come facesse ad auscultare il vento, le voci
delle ombre, le preghiere degli alberi di ulivo, le bestemmie delle
zolle, le parole del mare, il pianto delle statue, il silenzio dei
viventi, le urla dei morti.
Come facesse ad assaporare il dolore di questa terra: il dolore
duro, concreto, che si tocca, si assapora come acino acerbo.

Come facesse noi non lo sappiamo, o almeno io non so capirlo. Riesco
solo a vedere una tensione disperata, lansia di far combaciare
i versi col colore di una lucertola, con una punta di scoglio, il
muschio, lo sfibrarsi di un tramonto.
Capisco solo quel suo lasciarsi risucchiare dai vortici del ricordo
e delloblio, per narrare la morte sorpresa in unassurdità
che lo innamora, per raccontare di bianchi e catastrofici paesi
che ripetono ancora sempre lantica inutile scena
di un diluvio.
Nemmeno egli stesso, forse, ha mai capito razionalmente come facesse
a guardare quella sua pianura di sogno in quel modo così
straniato, stravolto, oppure non lo ha più capito a un certo
punto.
Terra del Sud, o volto in me sommerso, / se non sai darmi
che questebbro pianto, / distruggi anche il mio verso.
Ecco, dunque, forse il punto è questo: la terra, che non
sa dargli altro che un pianto, tenta di distruggergli anche la poesia.
E a questo punto che comincia la sfida di una discesa in interiore
nelle viscere di se stesso e del tempo, alla ricerca spasmodica,
smaniosa, di quel volto della terra in sé sommerso,
della sua cultura, della sacralità, della sua origine, del
suo mistero. E a quel punto che Pagano serra il verso, costruisce
spirali perfette, avvolgimenti a coda di serpente, trombe daria
di parole che smantellano e travolgono e trascinano il paesaggio,
i miti, i riti, le storie, le folle di creature, le immagini illusorie.
A questo punto si sgretola, la terra, si frantuma, si polverizza,
si trasforma in luce rappresa, nella fantasmagoria di una finzione,
ritorna ad essere quel che forse è stata quando fu soltanto
caos, unesplosione dal nulla o la creazione di una mente divina,
un mistero di luce che splende e non esiste.
Uno si chiede se Pagano abbia trovato mai in un istante,
un attimo, una visione, un sogno quel volto della terra dentro
sé. Si chiede se poi non fosse vano il suo cercare, se il
volto della terra non gli rassomigliasse, se non fosse esattamente
uguale al volto suo, se i due volti non fossero, ognuno, il rispecchiamento
dellaltro.
Forse il volto sommerso della terra non era altro che il cuore.
Forse il Salento di Vittorio Pagano non era altro che il suo cuore.
Su questa terra, su questo cuore, ha misurato la sua vita e la sua
poesia, in questa essenza si è cercato per riconoscersi o
non riconoscersi, per ritrovarsi oppure per disperdersi.
Ha fatto questo: fino a quando il cuore ha tenuto; fino a quando
si sono incontrate la luce della terra e dei suoi occhi.
Tutto si sgretola, nella poesia di Pagano: la terra, gli uomini,
i miti, la pianura, gli uliveti, le scogliere, i frontoni delle
chiese. Tutto si distrugge, in natura, per Pagano. Il senso del
creato è solo questo: procedere, rotolare verso una qualsiasi
fine, verso linferno inconoscibile del niente; aspettare,
istante dopo istante, solamente lurlo, lo schianto, loscurità
che copre lessere e lesistere, i paesaggi, le storie
che corrono nel pensiero o sopra un foglio di parole rutilanti.
Nulla si salva. Nulla. Non la carne, né le ombre dei morti
che ritornano sospinte da un vento di geenna, non si salvano i sogni,
non si salva lamore. Si rivela vano qualsiasi tentativo di
sfuggire al vuoto che si apre ad ogni passo.
E la terra la sua terra non è altro che una
tomba che lo accoglie, vivo, mentre un Dio con un volto di mostro
gli compare davanti, lo sorprende nel corso di una fuga disperata
che ha come motivo e come fine solo il gioco che fa dimenticare
il travaglio e la malinconia dei giorni, la disfatta, la paura scatenata
dallascolto di se stesso.
Ascoltare le proprie voci di dentro, guardarsi vivere macinando
il tempo, è una pena che soltanto la poesia può lenire,
forse quella poesia che stringe lillusione di riuscire in
qualche modo a sopravvivere alla fisicità attraverso la magia
della parola, quella trasposizione in forma rigorosa dellimprovvisata
messinscena che luomo si ritrova ogni giorno ad allestire.
E allora: allora quello stile fosforescente e lucido, quella forma
armoniosa, ondeggiante sono coerenti con un modo di pensare, aderenti
ad una visione del mondo, ad unidea del destino. Sono la traduzione
di una percezione e di una riflessione sul vivere la terra e sul
viverci dentro fino ad esserne sommerso, sul senso delle storie
che ci portiamo dentro e che ci accadono intorno, sullincastonarsi
tra uomo e uomo in una creta informe.
Vittorio Pagano avverte la vita come un percorso sugli argini di
un baratro di cui non si vede il fondo. Il suo versificare è
la mimesi dello sforzo di restare in equilibrio: la tensione alla
perfezione formale è lequilibrio; la nodosità
dei concetti rappresenta lo sforzo.
Pagano pretende di catturare nella rete della forma tutto quello
gli esseri, le cose che gli passa sotto gli occhi,
nel pensiero, nel sonno, nel ricordo. E che gli sfugge, che si perde,
irrimediabilmente. E la pretesa disperata di un poeta che
resiste allassalto del tempo solitario, sfidante
sui merli del castello di parole che ad ogni istante gli crolla
sotto i piedi e che lui ricostruisce sillaba su sillaba, ogni volta
più bello, più fragile ogni volta.
|