Poter esibire
un ulivo in un
giardino pensile
è tendenza esplosa da qualche anno
a questa parte,
un lusso che
si permettono vip, industrialotti e
altre faune opulente.
Coll.:
Arnaldo Celli
Lucio De Rosa
Leda Maccagli
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Qualcuno lo ricorda ancora: i contadini che lasciavano i paesi-dormitorio
e si recavano in campagna, allalba, per lavorare la terra,
passando vicino a un albero secolare dulivo si toglievano
la coppola, in segno di saluto, di rispetto, e di gratitudine verso
quei monumenti verdi. Così facevano anche al ritorno, mentre
il sole, tramontando, allungava le ombre delle foltissime chiome,
rifugio di gazze e di merli dal becco giallo. Passavano generazioni
di uomini, e quei tronchi sempre più robusti, sempre più
contorti, e sempre più vitali, erano là, radicati
nella terra rossa, a fruttificare con i loro cicli naturali: monumenti
vegetali, certo; ma soprattutto miracoli dei nostri campi e della
civiltà del lavoro dei nostri padri, che con quei monumenti
dialogavano confidenzialmente, dopo il saluto mattutino, con il
linguaggio semplice e schietto degli uomini terragni che andava
diritto al cuore dei problemi: invito a una buona produzione, alla
qualità del raccolto, alla ricchezza di quel succo doro
che sarebbe stato lolio premuto dalle leccine, dalle bitontine...

E sempre stata ordinata la campagna pugliese e salentina.
E dunque umanizzata. Con le terre coperte dai vigneti (ad alberello,
i più antichi; poi a tendone, o a spalliera), e con quelle
meno polpose, più aride e innervate da inestirpabili scogli,
segnate dai filari degli ulivi piantati a distanze regolari, in
perfette geometrie che consentivano a Folco Quilici, nel suo Puglia
dal cielo, di creare immagini dinamiche suggestive con le riprese
in diagonale: un mosso mare verde che veniva incontro allelicottero
che sfiorava le punte laminate degli alberi!

Questa puglia, scriveva Mario Praz, bisogna infilarla tutta, per
giungere fino al fondo dellinfinita pianura, nella quale si
assiste ancora allincontaminato spettacolo di interminabili
distese di una flora anteriore alla discesa degli indoeuropei: solo
ulivi e viti, viti e ulivi, «le piante che nel nome, tenacemente
conservato e trasmesso, rivelano ancora di essere state trovate
sul posto dagli invasori ariani... In realtà, il severo paesaggio
della Puglia è in queste distese di mastodontici ulivi, in
questi tappeti a non finire di viti basse, che si tengon ritte da
sé...». Sotto il sole rovente, che in un piccolo testo
quasi clandestino, comunque oramai introvabile così
fu descritto da Ungaretti, in Tavoliere di luglio: «Il sole
vuole lo si sappia bene, che sia, questo giorno, tutto quanto preda
sua. Sè messo di buonora a arrosolirgli le ultime
erbe. Sulla pietra ulcerata investendo dun fulgore favoloso
la vecchia croce, non si stancherà mai di renderle, tra i
due bracci di ferro, più lievi martello e lancia, chiodi
e tenaglia. E già ha fulminato la seconda rondine...».
Blu del cielo e del mare, dalle frastagliate rocce di Leuca a Finisterre
allo sperone bauxitico del promontorio garganico: «Lattimo
che ci ha scosso il cuore: il divino trova qui il colore del tempo».
Gli ulivi. Sono essenziali, quasi fantasmatici, nelle tele di Luigi
Gabrieli, pur così intense nellimpasto dei colori (vi
predomina un rosso deciso, folgorante) che sottendono, appunto,
quel sole ungarettiano, ardente, prepotente. Comparivano qua e là
nelle campagne arse, segnate da scheletrici pali di telegrafo, come
a segnare i limiti estremi duna desertica aridità,
antica maledizione della Puglia e di Terra dOtranto: pure
vinta dal disossamento delle terre dal loro osso, dai filamenti
nervosi delle pietre, dalle rudi scogliosità delle macchie,
con sconosciute epopee rurali e faticose redenzioni di campi altrimenti
indominabili.
Ed erano, fra muricce e sassi spatolati, opulente cattedrali solitarie,
a volte quasi trasparenti, ma sempre con chiome imperiali, quelli
di Vincenzo Ciardo, i dominatori del paesaggio del Capo,
con distese a perdita docchio: magiche divinità vegetali
sulle brevi pianure che celavano dolmen e menhir, millenarie divinità
vegetali che scollinavano le creste delle Serre, senza che da queste
si potesse presagire la salsedine delle brezze ioniche o adriatiche,
umide fra crepuscolo e crepuscolo.
E sono umanizzati in Lionello Mandorino: ulivi-esseri-umani, emblematici
testimoni della sofferenza del mondo otrantino, del dolore di una
storia matrigna. Eppure ulivi sopravvissuti a quellantico
e costante dolore, profondo come le radici dalle quali sorgono tronchi
di sofferta nodosità ma di simultanea determinazione a manifestare
la propria identità e lidentificazione con luomo.
Ulivi che vivono fra noi come nostri padri, e in quanto tali emergono
dalle tele mandoriniane in campo lungo e in primo piano, indifferentemente,
con i fusti tormentati, con le chiome mosse: linfa vitale della
nostra civiltà e cultura, della nostra disgraziata intelligenza,
del nostro amore e del nostro furore.
Che cosa ci fanno questi ulivi nei terrazzi degli attici e nelle
chiazze dei giardini del Nord? Che senso ha depredare gli uliveti
del Sud, inzollare gli alberi tosati come capre, pesarli, avvolgerli
nei contenitori di plastica, e deportarli nellItalia boreale?
Perché condannarli a morte, dopo una lenta, inesorabile agonia?
Poter esibire un ulivo in un giardino pensile, accanto alle pareti
di un attico terrazzatissimo, o ai vertici di un miniparco
domestico, è tendenza esplosa da qualche anno a questa parte,
un lusso che si permettono vip, industrialotti, finanzieri, grossisti
e altre faune opulente che prosperano al di là della Linea
Gotica, e che trovano facile venire in possesso di piante di veneranda
età grazie alla complicità di personaggi (proprietari
di uliveti, commercianti che hanno scoperto questo ricco filone)
delle varie aree meridionali che comunque restano in ambito legale:
un decreto luogotenenziale del luglio 1945, infatti, vieta labbattimento
degli ulivi, ma lo consente nei casi di permanente improduttività,
purché il proprietario delluliveto collochi una pianta
nuova al posto di quella eradicata. E sufficiente una semplice
domanda (una volta alla locale Camera di Commercio, oggi allIspettorato
provinciale dellAgricoltura), e il gioco è fatto.
Alcune regioni hanno varato regolamenti rigorosi, al fine di vietare
le deportazioni: il Piemonte nel 95, la Toscana nel 98,
il Veneto nel 2002. Tra quelle che non hanno mosso un dito, le due
più ricche di ulivi secolari, e in alcuni casi persino millenari:
la Puglia, nella quale si ritiene che si siano sviluppate storicamente
le prime coltivazioni, risalenti agli anni della Magna Grecia, e
la Calabria, che vanta anchessa i più antichi uliveti
del bacino mediterraneo.
Secondo alcuni censimenti (in realtà piuttosto approssimativi)
il nostro Paese ospiterebbe tra i 120 e i 130 milioni di ulivi,
contro i circa 50 milioni della Spagna, i 30 milioni della Grecia,
i 20 milioni della Turchia, i 25 milioni di Israele e i 10 milioni
del Marocco. Per quel che ci riguarda più da vicino: un quarto
del territorio della Puglia è piantato ad uliveti, ospitando
tra i 15 e i 20 milioni di alberi. Anche grazie a questa folta presenza,
lItalia è primo produttore al mondo di olio doliva.
I dati del massacro si riducono a un paio di cifre: un ulivo inzollato,
delletà di uno o due secoli, viene pagato 5.000 euro,
poco meno di dieci milioni delle vecchie lire; invece uno che sfiori
il mezzo millennio raggiunge la cifra di 10-12 mila euro. E nella
nostra regione, come in Calabria, piante di questa età sono
tuttaltro che rare, al punto che alcuni gruppi attivi del
Wwf si stanno prodigando per salvarle, spingendo lUnesco a
dichiararli Patrimonio vegetale dellUmanità. Sulla
stessa linea donda sono alcuni esponenti dItalia Nostra,
che teme il depauperamento della memoria storica di una civiltà,
quella contadina, che rischia un tramonto definitivo.
E non soltanto di ulivi, si tratta. Ma anche di carrubi, anchessi
eradicati, inzollati, imballati e deportati in aree le cui temperature
sono proibitive per piante che vivono bene solo in zone climatiche
che registrino da dieci gradi in su. Dove le temperature sono basse
per buona parte dellanno, vanno bene gli aceri o i tassi,
fanno paesaggio le abetaie (quelle che gli sciocchi neoricchi delle
nostre contrade hanno piantato ai confini delle loro ville pretenziose)
o al limite i castagneti o i faggeti. Ulivo e carrubo sono piante
dun altro pianeta, e non cè moda mediterranea
che tenga a consentire il saccheggio per linnaturale trapianto.
Come non cè per le altre cose che sono oggetto di predazione.
Ci riferiamo ai veri e propri furti di trulli, sia quelli conici
che caratterizzano la Puglia centrale, sia quelli a tronco di cono
o a tronco di piramide che sono tipici delle campagne di Terra dOtranto:
che vengono smontati, numerati pietra per pietra, spediti al Nord
e lì rimontati, ad onore e gloria di molti personaggi trimalcioneschi.
Ai quali sono destinati persino interi muri a secco, le muricce
di confine tra campo e campo o tra strada e campo; e anche le chianche,
la cui tratta va crescendo di giorno in giorno, vanno a lastricare
pavimenti nordici su indicazione di architetti che ne conoscono
la rarità e il valore.
A scrivere delle muricce, del duro lavoro di scavo delle campagne
e della messa in luce, del riordinamento in sistemi e gradoni, a
scalinate, a geometrie complesse nelle zone pianeggianti delle pietre
affioranti, è stato Giuseppe Cassieri. E se Cesare Brandi
parlò di questo e di altri fenomeni della Puglia arcaica
come della manifestazione di una lunga civiltà neolitica,
il garganico Cassieri incentrò il suo discorso sulla fatica
immane che nei secoli ha impegnato generazioni di contadini per
trasformare le terre macchiose in terreni coltivabili,
finendo col creare un paesaggio unico al mondo.
Così come dai letti delle fiumare della Calabria si continua
ad asportare pietrisco, con il quale si pavimentano i viali e i
sentieri di chi può consentirsi la spesa del furto e del
trasporto. Si sono creati persino fondi sassosi di laghetti artificiali,
con le piccole pietre levigate dalle acque torrentizie calabresi
portate lontano dai loro bacini naturali. Così si va spogliando
una miniera di alberi, di case, di pietre a cielo aperto, si saccheggia
in lungo e in largo il Sud, nella generale disattenzione delle istituzioni.
Ricordiamo laltra rapina diffusa a mano disarmata, proprio
negli anni della ricostruzione, alla vigilia del boom. Allora passavano
per le case di città e di campagna, e soprattutto dalle masserie,
personaggi che ritiravano mobili vecchi (cioè
antichi, di valore anche altissimo), arredi, oggetti ornamentali,
e quantaltro, con in più un po di soldi, in cambio
di mobili nuovi, gli orribili mobili svedesi la cui
moda tramontò fortunatamente una decina di anni dopo, ma
a saccheggio compiuto, a beneficio di antiquari callidi dellItalia
del Centro-Nord. Analogo discorso dello scambio di oro vecchio per
oro nuovo, sempre con conguaglio di denaro, e sempre facendo leva
sullignoranza della gente!
Del resto, ancora oggi i furti su commissione rastrellano abbeveratoi,
stompi, carrucole in pietra e in ferro, piloni,
canalette di carparo, colonne, stemmi, mensole, lastricati, ferri
battuti, e tutto ciò che testimonia della civiltà
contadina e della vita rurale degli anni che furono. Niente è
ormai risparmiato. Niente è stato mai protetto. E adesso
che scopriamo i danni prodotti dallincuria (nostra) e dalla
furbizia (altrui), e facciamo i calcoli sommari delle chiazze pelate
nelle campagne di Bari, di Mola, di Rutigliano, di Conversano, dellintero
Salento, e di Reggio Calabria, di Cirò Marina, del Catanzarese,
dei bacini aspromontini e silani, adesso, dicevamo, ci mettiamo
in gramaglie; mentre è tempo di varare norme severe, rigorose,
invalicabili per proteggere flora, ambiente e patrimoni che non
hanno ragioni storiche, economiche, persino estetiche, di esistere
oltre i confini naturali di nascita.
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