Docente di Sociologia
del mondo musulmano
Università di Trieste
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Quasi diciotto anni fa papa Giovanni Paolo II organizzò
per la prima volta lincontro per la pace fra le grandi religioni:
liniziativa era dettata già allora da una forte preoccupazione
per landamento del mondo. Si percepiva il venir meno delle
tensioni ideologiche, ma questo annunciava linizio di tempi
più oscuri e più inquieti. La Chiesa aveva già
capito che etnie e religioni stavano per diventare i paradigmi delle
nuove conflittualità politiche, in particolare nelle relazioni
tra Islam e Occidente e tra Islam e Israele. Si sottovaluta spesso
la capacità del mondo della Chiesa non tanto di anticipare
i tempi, ma, soprattutto, di recepire i segnali che provengono dal
mondo: e questi segnali non sono solo elaborazioni di centri di
studio, ma provengono dal contatto effettivo con i diversi popoli,
direttamente attraverso le missioni o indirettamente attraverso
le minoranze cristiane, anche nel mondo arabo-islamico. E la Chiesa
deve ascoltarle, non soltanto per dare conforto e speranza, ma essenzialmente
per mettere in guardia chi talvolta gioca con il fuoco senza accorgersene.

Nel momento attuale, la guerra in Iraq ha suscitato e suscita molta
preoccupazione: per alcuni è allorizzonte un sogno
di libertà e di democrazia, per altri invece le inquietudini
aumentano: molti intellettuali arabi e non richiamano
alla cautela perché questa guerra ha innescato un pericoloso
connubio fra un nazionalismo agonizzante e un radicalismo islamico
dal volto cinico. Bisogna saper ascoltare queste voci, che ci possono
aiutare a non fare passi falsi, a limitare i danni, e forse a fondare
una speranza. Perché è proprio di ciò che quella
parte di mondo ha bisogno: alla fine, per questi popoli le violenze
non hanno bandiera, cambia poco se siano interne o provengano dallesterno;
essi leggono la propria storia come una mera successione di eventi
tragici, in cui la vita umana non conta nulla. Certo, anchessi
devono recitare il mea culpa, devono esercitare unautocritica,
e lo sanno; ma in questo tempo mi sembra cinico, direi crudele,
chiedere loro di compiere un tale sforzo, perché non vi sono
né i presupposti né le condizioni. Il disastro è
economico, sociale, politico e culturale; sono accecati in un mondo
che non riconoscono più, e non riescono a riconoscersi in
un nuovo mondo che non cè ancora.

Certo, dallalto delle nostre cattedre, davanti ai nostri
computer, di fronte a una storia che non possiamo vivere nella sua
sofferenza e tragicità perché ne siamo fuori, è
facile lanciare anatemi, dare consigli, stendere bilanci: ma a un
certo punto dobbiamo pur pensare che non abbiamo a che fare con
essere immaginari, ma con individui che esistono, che piangono,
che sognano. Mi rifiuto di abbracciare il politically correct, ma
mi batto per un linguaggio della verità, un linguaggio dellalterità,
che poggi sullesperienza di vita, sulla scrittura, sulla speranza.
E bisogna nutrire una forte speranza nellIslam. Nel Corano
un versetto dice che Abramo non era né un ebreo né
un cristiano né un musulmano. Egli era un puro. In questi
tempi inquieti pensiamo alla Pasqua cristiana, ai giorni in cui
si commemora la passione di Cristo, morto e risorto per lumanità
intera: in questa umanità ci sono anche gli arabi, i musulmani,
gli ebrei. Quella passione ci faccia sperare in un nuovo giorno
dellumanità, in cui lo scontro di civiltà si
limiti a comparire in un libro e non diventi unamara realtà.
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