LItalia ha messo in disarmo
numerosi impianti con conseguenze evidenti sul piano delloccupazione
e del ventaglio delle produzioni.
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Il sistema Italia continua a perdere colpi e risulta
sempre meno competitivo. Per il terzo anno consecutivo il nostro
Paese scende nella classifica del Global Competitiveness Report,
elaborata dal World Economic Forum. Nel 2003 si piazza al quarantunesimo
posto su centodue economie, cedendo otto piazze rispetto alla rilevazione
dellanno precedente. A superarci non sono stati soltanto Paesi
europei come il Lussemburgo, Malta, la Repubblica Ceca, la Lituania
e la Lettonia, ma anche Paesi africani come il Botswana, e asiatici
come la Giordania e la Thailandia.
A penalizzare la nostra capacità di competere sono fattori
noti da troppo tempo. Nellordine, quelli più citati
dagli imprenditori sono linefficienza della burocrazia, linadeguatezza
delle infrastrutture, la restrittiva legislazione del lavoro, le
tassazioni elevate e le difficoltà di accedere ai finanziamenti.

Mentre fa cospicui passi del gambero il potenziale di crescita
a cinque-otto anni, vale a dire il fattore che viene misurato dallindice
principale della competitività, rimane invece stabile la
collocazione del sistema Italia (al ventiquattresimo posto su novantacinque
Paesi) secondo lindicatore della performance produttiva attuale,
il Business Competitiveness Index.
Il Rapporto viene pubblicato dal 1979 con cadenza annuale dal World
Economic Forum (organizzazione internazionale indipendente e no
profit, con sede a Ginevra), che per lultima edizione presentata
a Washington si è avvalso della collaborazione di 104 centri
di ricerca internazionale (i dati per lItalia sono stati raccolti
dalla Sda Bocconi). Il metodo che segue per le sue ricerche è
una combinazione di dati macroeconomici pubblici con la rilevazione
delle opinioni di manager e di imprenditori. In tutto il pianeta
hanno partecipato 7.741 operatori.
Alla scarsamente soddisfacente performance italiana si è
contrapposto invece un buon risultato globale per lEuropa.
Le prime quattro posizioni sono rimaste invariate, con la Finlandia
al primo posto, (seconda posizione occupata dagli Stati Uniti),
e con la Svezia e la Danimarca, nellordine, al terzo e quarto
posto. Nella top ten si trovano anche la Svizzera (scesa
dal quinto al settimo posto), lIslanda (ottava posizione)
e la Norvegia (nona posizione).
Migliorano leggermente le due maggiori economie del Vecchio Continente,
spinte da una migliore percezione dello stato delle pubbliche amministrazioni
e delle tecnologie: la Germania passa al tredicesimo posto (era
un gradino più giù), e la Francia al ventiseiesimo
(era ventottesima). Il Regno Unito arretra di quattro posizioni,
scalando alla quindicesima posizione. Ma è sempre parecchio
più avanti rispetto al nostro Paese.
A margine di questi dati, e del dibattito che hanno aperto sullo
stato di salute della nostra economia, alcune considerazioni emerse
negli ultimi tempi. Che si sono sviluppate in particolare su tre
versanti. Il primo riguarda la filosofia imprenditoriale italiana,
secondo la quale per un lungo periodo si è gridato ai quattro
venti che piccolo era bello. Il che, si
fa notare, andava bene, e forse anche benissimo, in giorni di economia
integrata più o meno strettamente in ambito europeo.
Le aziende familiari avevano la possibilità di svilupparsi,
di produrre e di esportare, senza raggiungere dimensioni macroscopiche,
senza impantanarsi in pastoie burocratiche interne e risolvendo
i problemi interni, soprattutto di carattere sindacale e rivendicativo,
in modo diretto e immediato, al riparo del principio non scritto
ma quasi costantemente perseguito del rapporto tra lavoratori e
un rispettato pater familias. Questo sistema ha funzionato fino
al giorno dellintroduzione delleuro come moneta unica,
e soprattutto fino al momento dellingresso nellUnione
europea dei Paesi dellEst continentale, ricchi di manodopera
a buon mercato, dunque con forti richiami di investimenti esteri
e di traslochi di imprese manifatturiere.

Il secondo versante riguarda la caduta verticale delle imprese
di grandi dimensioni. LItalia ha messo in disarmo numerosi
impianti (acciaio, gomma, prodotti farmaceutici, ecc.) con conseguenze
evidenti sul piano delloccupazione e del ventaglio delle produzioni.
E vero che si trattava in massima parte di imprese a partecipazione
statale, governate nominalmente dai cosiddetti boiardi
(generalmente legati a interessi di parte politica), e in genere
di mediocre e scarsa produttività, per non parlare di certe
scelte di strategia produttiva (acciai, e derivati, in particolare);
ma è anche vero che nel resto dEuropa questo non si
è verificato a livelli diffusi: basti pensare alle strenue
difese contro gli smantellamenti, e più ancora contro le
privatizzazioni, in Francia e in Germania, (si pensi, in modo particolare,
alle telecomunicazioni).
Sorrette dai rispettivi Stati, queste grandi imprese sono presenti
sui mercati internazionali con il duplice peso del proprio prestigio
e dellappoggio pressoché incondizionato delle istituzioni
politiche nazionali. E quel che è stato privatizzato, in
questi e in altri Stati dellUnione europea, non è finito
sotto il controllo di pochi privilegiati, o di amici o sostenitori
di singole parti politiche: è stato privatizzato sul serio,
con titoli ad amplissima diffusione e con concreti benefici per
le pubbliche istituzioni.
Terzo e ultimo versante, quello della scuola. LItalia ha
scuole che producono in dosi eccessive quote professionali di burocrazia
e di impiego pubblico, e incentivano scarsamente la cultura delliniziativa
privata. Sicché questa nasce, quando nasce, quasi del tutto
priva di know how, di conoscenze e di formazione tecnologiche, giuridiche,
per lanalisi dei mercati e delle conseguenti strategie commerciali
richieste dai moderni comportamenti produttivi.
Un dirigismo fuori luogo e fuori tempo assegna alla scuola compiti
che sono propri dellesperienza umana. Così si introducono
insegnamenti di segnaletica stradale e di educazione sessuale, di
recitazione, e di altre astruserie, mentre si rende sempre più
esangue la storia, si esilia la geografia, si ignora lanalisi
logica; e lircocervo rappresentato dallattuale scuola
dellobbligo vede allungata letà della generica
preparazione di base: troppi giovani sanno tutto del telefonino
cellulare, ma non sanno redigere un curriculum, si sentono perduti
fra gli sportelli di una banca, manifestano scarso atteggiamento
critico di fronte a Internet, ignorano le norme essenziali del diritto
del lavoro e quelle fondamentali del commercio con lestero,
sono tuttal più in confidenza teorica con le sperimentazioni
nei campi della chimica e della fisica, non seguono stages presso
esemplari aziende produttive o commerciali, come accade in vari
Paesi europei e in America.
E via sottolineando, nel campo di un apprendimento umanisticamente
sempre più degradato e tecnico-scientificamente sempre più
impoverito dalla mancanza di strutture, di strumenti, e in ultima
analisi di idee.
Sotto il profilo più squisitamente culturale, forse stiamo
vivendo unepoca di crisi, cioè di transizione, di passaggio.
Crisi di lunga durata, dunque più radicale e profonda, che
lottimismo riferisce a unaltrettanto radicale e profonda
innovazione, della società e del lavoro. E forse in
questa direzione che guardano il Governatore della Banca dItalia
e il superministro dellEconomia, quando si confrontano con
franchezza sui temi fondamentali della nostra economia, a volte
dicendo cose analoghe con parole diverse, altre volte cose diverse
con parole analoghe.
Schermaglie politiche a parte, e schermaglie tecniche
altrettanto a parte, fine ultimo e decisivo della dialettica che
intercorre tra Istituto di emissione e Superministero è il
futuro di un Paese ancora condizionato da troppi vincoli, da endemiche
contraddizioni e da non temperate divisioni. E qui che la
riflessione va approfondita, nel nome del bene comune. Un sistema
efficiente nasce dal concorso di tutte le forze, intellettuali,
professionali, politiche, e dai loro contributi sapientemente orchestrati.
Ultimo equilibrio da realizzare: lItalia ha le radici nel
Mediterraneo e la testa in Europa. Si tratta di due fonti di ricchezza,
anche economica, oltre che civile e morale, politica e culturale,
da armonizzare con intelligenza e con forti capacità predittive.
Una visione complessiva, polifunzionale, reciprocamente stimolatrice,
può creare i presupposti per uno sviluppo dinamico che, solo,
può eliminare o ridurre al minimo gli strappi cardiaci che
rendono tanto spesso precaria la ripresa delleconomia italiana.
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