Se lItalia vuole aprirsi varchi
in un mercato
potenzialmente sterminato,
deve darsi un più alto profilo
strategico a livello internazionale.
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Gli europei, e in particolare gli italiani, non amano il dollaro
debole. Non lo amano soprattutto coloro i quali, avendo dei risparmi,
non intendono lasciarli inerti, e tornano a giocare in Borsa, anche
se con le dovute cautele, dopo lesplosione della bolla speculativa
che in un recente passato ha falciato gli investimenti effettuati
al di là dellAtlantico. Sono in fondo gli stessi che
oggi si sentono frustrati dal fatto che leconomia statunitense
è in forte ripresa, e associano quasi istintivamente il dollaro
forte agli antichi trionfi a Wall Street che facevano vincere tanto
e tanto velocemente.
Solo che qualcun altro ha lo stesso interesse a vincere, e si tratta
del Presidente degli Stati Uniti, il quale nel 2004 si troverà
alle prese con le elezioni, e non ha nessuna intenzione di dover
esibire uneconomia stagnante. Il dollaro debole, confermato
alla conferenza di Dubai, gli consente di dare una forte spinta
alla macchina produttiva americana, ma anche di tenere sotto controllo
gli entusiasmi degli investitori in Borsa, perché non diventino
eccessivi nelle aspettative e non creino illusioni di fulminee ricchezze.

Per costringere alla ripresa leconomia, lamministrazione
statunitense ha dato luogo a un disavanzo del bilancio pubblico
di 374 miliardi di dollari nellanno fiscale chiuso nel mese
di settembre. Parecchio meno di quanto era stato previsto dai pessimisti,
ma pur sempre una cifra enorme. Alla quale il riconfermato presidente
della Federal Reserve, Greenspan, ha sommato il tasso di sconto
più basso da quarantacinque anni a questa parte. Due decisioni
senza tentennamenti, due atti imponenti, che sono stati sufficienti
perché questanno si sia determinata una crescita economica
di fortissimo impatto. E ciò, sebbene questa straordinaria
ripresa abbia lasciato a poco meno di nove milioni i senza lavoro
e occupi soltanto il 73 per cento della capacità produttiva
dellindustria manifatturiera. Due esiti non proprio coerenti
con quanto solitamente si verifica nelleconomia statunitense
alla ripresa del ciclo. Ma alla quale poi poteva aggiungersi un
ulteriore guaio: la crisi del dollaro originata da un disavanzo
estero già esagerato, e che, per paradosso, comè
stato notato, il proseguire della ripresa nel 2004 avrebbe reso
insostenibile.
E a Dubai non solo gli americani, ma anche gli altri banchieri centrali
del G7, auspicando una maggiore flessibilità nei tassi di
cambio, hanno solertemente approvato. Il cumularsi del disavanzo
estero in conto merci degli Stati Uniti al disavanzo mercantile
è il più grave disequilibrio delleconomia mondiale.
E, appunto, un calo del dollaro ben controllato oggi in Asia vuole
servire a ridimensionarlo. Anche se non bisogna dimenticare che
lattuale Presidente americano è un duro, circondato
in maggioranza da altri duri. E, di conseguenza, questo pacato ragionare
da ufficio studi non deve essere stato il solo e unico motivo a
convincerlo. Laltro è il fastidio di industriali e
di disoccupati per una Cina che si giova della ripresa del ciclo
americano molto meglio di quanto facciano gli stessi americani.
E iniziano a reclamare dazi, ad auspicare quel protezionismo che
ha occupato la storia degli Stati Uniti molto più del liberismo.
Per assecondare costoro, ed evitarlo, ecco il secondo motivo per
cui serve al Presidente americano una moneta più debole,
cosa che ha conseguito senza andare tanto per il sottile.

Perché è sicuramente vero che il surplus mercantile
cinese è ammontato nel 2002 a 103 miliardi di dollari, e
che la Cina ha contato per l11 per cento del totale delle
importazioni americane, dal 3 per cento che erano nel 1990. Ma è
altrettanto vero che le esportazioni del Giappone, della Corea e
di Taiwan nello stesso periodo sono calate dal 27 al 17 per cento
del totale. Inoltre, non sono solamente gli americani, e, in proporzione
minore, gli europei a perdere posti di lavoro nei settori manifatturieri.
Tra il 1995 e il 2002 la stessa Cina vi ha perso sedici milioni
di occupati. Di conseguenza, anchessa ha patito leffetto
della crescita della produttività.
Sia come sia: agli europei ovviamente preme che alla fine leuro
non si rafforzi eccessivamente. Certo è che nei grafici degli
ultimi mesi il rafforzarsi dello yen è più continuo,
mentre quello delleuro è più ondivago. Sarà
sufficiente? E la Cina?
Gli americani hanno fatto sapere di recente che i tassi resteranno
invariati, e che temono un po più la deflazione e parecchio
meno linflazione: un modo di parlare che non lascia presagire
un dollaro forte nel breve e forse medio periodo. Dunque, stiano
attenti gli entusiasti della ripresa americana, ma avversari della
divisa statunitense debole.
E non dimentichino che la Cina comincia a firmare contratti di esportazione
in euro; che la sua forza lavoro è sterminata e che i salari
sono estremamente bassi; che in quella che è diventata ormai
una potenza economica planetaria si esercita su larga scala anche
la contraffazione di prodotti di prestigio e di lusso che dir si
voglia; che esponenti di primo piano italiani ed europei sono stati
costretti a recarsi a Pechino non solo per allacciare nuovi e più
stretti rapporti commerciali, ma anche per tentare di far rivalutare
la divisa cinese, e, fatto non secondario, per stringere un patto
anti-contraffazione perché non si mettano in ginocchio griffes
di primordine soprattutto nel campo dellabbigliamento
e della pelle-cuoio. Mafia cinese, con le Triadi sparse in tutto
lEstremo Oriente e in diverse basi internazionali, (Italia
compresa), consentendo.
Non occorrerà un gran tempo per verificare se gli accordi
raggiunti saranno stati mantenuti. Se la divisa cinese sarà
rivalutata, se il dollaro dopo le elezioni presidenziali americane
vedrà ripristinata la sua forza dacquisto reale, se
leuro non dovrà essere compresso, forse ci ritroveremo
sulla strada di un riequilibrio accettabile e necessario.
Altrimenti, sfioreremo una mezza catastrofe. Infatti, non sarà
agevole venire a capo di questo complesso problema: a chi invoca
lintroduzione di dazi doganali a protezione dei nostri prodotti,
i cinesi replicano, se si vuole in maniera provocatoria:
perché, invece di diffondere il vostro piccolo mercato, che
annovera sì e no un mercato potenziale di venti milioni di
acquirenti di nostri prodotti di modesta fattura, non pensate al
grande giacimento di capacità di spesa per consumi
di qualità rappresentato dai circa duecento milioni
di cinesi abbienti che comprerebbero volentieri i vostri prodotti
griffati da stilisti di fama mondiale? Il che, per noi, significa:
se lItalia non vuole perdere lultima occasione di aprirsi
varchi in un mercato potenzialmente sterminato, deve darsi un più
alto profilo strategico a livello internazionale, sia in termini
di politica estera sia in termini di politica economica e commerciale.
La Cina accoglierebbe con favore la presenza di un interlocutore
privilegiato nellUnione europea che le consentisse lapertura
di un canale di comunicazione attraverso il quale accelerare, con
unoperazione triangolare (Ue-Nato-Usa), il proprio ingresso
formale tra i Grandi (G7 più uno con la Russia,
più due aggiungendo appunto la Cina) e lindividuazione
di procedure di coordinamento delle rispettive politiche commerciali
e di sicurezza. Pechino non ha mai attuato politiche egemoniche
né esercitato indebite interferenze negli affari altrui.
E un Paese che, a differenza della Francia e della Russia,
preferisce la stabilità del sistema internazionale, non antagonistica
nei confronti degli Stati Uniti. Italia e Cina condividono, sotto
il profilo culturale, una tradizione millenaria, e sotto quello
socio-politico, una forte attenzione allindividuo e alla famiglia:
sono fattori che ne riducono la distanza nella reciproca comprensione.
Per noi si tratta di cogliere tutte le opportunità, in termini
di competitività e di innovazione, rispetto alle altre potenze
industrialmente avanzate. Il dollaro debole ci aiuta, questo è
probabile, forse certo, speculatori in Borsa a parte. Non ci aiutano,
invece, iniziative sparse. Le nostre aziende devono instaurare rapporti
organici con questo grande mercato, con una top priority, una priorità
alta della politica commerciale complessiva del nostro Paese. In
alternativa, la nostra stagnazione durerà a lungo. Fino a
che potrà durare.
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