E necessario
che le istituzioni
forniscano
una risposta
convincente
e chiara alla sfiducia che aleggia: ed è
necessario anche
che la risposta
sia rapida.
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Come il 2002, il 2003 è stato caratterizzato da continue
polemiche in merito alle rilevazioni ufficiali dei prezzi al consumo.
Secondo molti commentatori, linflazione effettiva in Italia
è stata superiore a quella riportata dallandamento
dellindice dei prezzi al consumo rilevata nel nostro Paese
dallIstat. Unindagine conferma che la grande maggioranza
degli italiani è convinta di questa ipotesi. Solo il 13 per
cento crede che il livello dinflazione rilevato dalle fonti
ufficiali corrisponda al reale aumento dei prezzi. Il 14 per cento
ritiene che inflazione vera e inflazione registrata
siano abbastanza simili, il 27 per cento che ci sia poca rispondenza,
il 41 per cento che inflazione reale e inflazione ufficiale non
corrispondano affatto.
Si tratta di un evento molto preoccupante. Significa che i cittadini
italiani non si fidano delle fonti statistiche ufficiali per quanto
riguarda una delle misurazioni di maggiore importanza per il calcolo
del benessere delle famiglie. E cruciale che sia fatta luce
su questi timori, per evitare che la diffidenza (la sfiducia) degeneri.
Se non ci si fida delle rilevazioni ufficiali dei prezzi, perché
mai fidarsi delle rilevazioni ufficiali del tasso di disoccupazione
o del Prodotto interno lordo? La fiducia nelle istituzioni è
un collante essenziale per la vita sociale, e sarebbe pericoloso
osservare unestensione della sfiducia ad altre variabili economiche.

Quali sono state le cause dellaumento dei prezzi, secondo
gli italiani? Soltanto il 2 per cento ritiene che si tratti di un
aumento legato alla crescita dei prezzi del petrolio. Il 9 per cento
pensa che siano cresciuti a causa di manovre speculative
da parte delle imprese. Ma il colpevole viene identificato nellintroduzione
delleuro dal 77 per cento. Mettendo insieme le due risposte,
emerge con chiarezza qual è la tesi che aleggia nella mente
di gran parte degli italiani. La tesi è la seguente: leuro,
introdotto fra molte difficoltà soprattutto per la spinta
dei governi dei vari Paesi europei e non certo a furor di popolo,
ha causato una crescita dei prezzi che i governi stessi non hanno
voluto rilevare per non ammettere il fallimento del proprio progetto.
In realtà, occorre distinguere tra limpatto di breve
periodo dellintroduzione delleuro in termini di prezzi
al consumo e limpatto generale sullo scenario macroeconomico.
Dal primo punto di vista, ci sono ormai pochi dubbi che si sono
rivelate errate le previsioni di chi riteneva che leuro avrebbe
comportato un passaggio indolore in termini di prezzi assoluti e
relativi. Al contrario, molte categorie hanno approfittato del momento
di transizione per rivedere verso lalto il prezzo relativo
dei beni e dei servizi, causando in vari casi una vera e propria
rincorsa agli aumenti. Ci si può augurare in maniera fondata
che si tratti solo di un fenomeno transitorio, tale da non trasformarsi
in una rincorsa prezzi-salari che non può che avere come
esito una forte inflazione.
Quanto allimpatto generale delleuro, la stabilizzazione
macroeconomica è certamente difficile da apprezzare in una
fase storica di caduta dei mercati azionari e dellattività
economica. Le stesse regole prescritte dal Patto di Stabilità
sono diventate per molti, anche per alcuni paladini delle regole
e del rigore, una camicia di forza fatta indossare al malato nel
momento peggiore possibile. Daltra parte, non si può
ritenere che la via che porta fuori dalla recessione debba passare
attraverso un aumento della spesa pubblica, addossando i costi dello
sbilanciamento alle generazioni future. Senza leuro, che cosa
sarebbe successo al mercato azionario italiano e ai tassi di interesse
nazionali dal 2000 ad oggi? La risposta è ovvia, ma viene
spesso ignorata nel dibattito corrente.
Il 60 per cento degli intervistati per campione ha affermato di
essere al corrente della situazione di malessere presente nel mondo
economico e finanziario americano, in particolare per quanto riguarda
i bilanci truccati delle imprese e le frodi commesse da alcuni grandi
manager dazienda. Secondo il 37 per cento di coloro che sono
al corrente, questa situazione ha «incrinato molto il grado
di fiducia nellinvestimento azionario». Il 25 per cento
afferma che il grado di fiducia è stato un po incrinato.
Il 33 per cento soltanto di coloro che hanno seguito levoluzione
dei fatti presenta un grado immutato di fiducia nellinvestimento
azionario.
Più preoccupanti sono state le risposte alla domanda che
riguarda in maniera specifica lEuropa e lItalia. In
particolare, è stato chiesto «per quali motivi in Italia
e in Europa non sono ancora emersi casi analoghi a quelli del mercato
statunitense». Le risposte si sono concentrate su due possibilità:
per il 29 per cento si tratta soltanto di una questione di tempo
perché casi gravi emergeranno una volta o laltra sia
in Italia sia nel resto dellEuropa; per un altro 29 per cento
invece ci si trova di fronte a un fatto estremamente grave: manca
la volontà di ricerca dei colpevoli da parte delle autorità
di sorveglianza e regolamentazione. Cè poi il 14 per
cento che ritiene che non sia la volontà quella che manca,
ma la capacità. Solo il 14 per cento pensa che il mercato
statunitense abbia problemi diversi da quello europeo, e possa dunque
essere considerato un caso differente.
Chi può ristabilire la fiducia? Gli italiani sono divisi.
Il 26 per cento chiede una risposta al governo, probabilmente pensando
che si tratti di un problema politico o comunque di un problema
troppo ampio per essere affidato semplicemente ai tecnici. Fra i
tecnici, le banche riscuotono i maggiori consensi (16 per cento
delle segnalazioni), poi viene la Consob (9 per cento), seguita
dalle imprese che presentano bilanci puliti (7 per cento), dalla
Banca dItalia (7 per cento). L8 per cento afferma sconsolato
che ormai è tardi: ci vorranno molti anni per ripristinare
la fiducia distrutta.
Queste valutazioni sono molto tristi ed estremamente gravi, specie
se analizzate alla luce delle risposte sullinflazione e sulleuro.
Molte teorie economiche ritengono che uno dei principali fattori
della crescita economica sia il capitale sociale, quellinsieme
di relazioni di fiducia che lega fra di loro i vari fattori della
produzione e consente di aumentare la produttività, di avere
fiducia nellimpiego del risparmio, di pensare al futuro in
maniera serena. Questo capitale ha subìto un colpo durissimo,
anche se non quantificabile. E necessario che le istituzioni
forniscano una risposta convincente e chiara alla sfiducia che aleggia.
E necessario anche che la risposta sia rapida. Occorre evitare
un continuo deterioramento del capitale di fiducia nelle relazioni
personali ed economiche.
Tra laltro, resta difficile il rapporto tra gli italiani e
i mercati finanziari. Le scelte di investimento del 2002 e dei primi
nove mesi del 2003 sono state coerenti con un quadro generale fortemente
deteriorato: è risalita la quota di coloro i quali hanno
acquistato titoli pubblici, pari al 13 per cento, coerentemente
con il tentativo di cercare soprattutto sicurezza e liquidità
dai propri investimenti. Inoltre, è passata dal 7 all11,5
per cento la percentuale di coloro i quali hanno acquistato una
casa.
La sicurezza è da sempre il principale elemento di preoccupazione
degli investitori italiani. Tale caratteristica si è rafforzata
nel corso dellultimo anno. Questo è evidentemente indice
di come gli obiettivi nelle scelte degli investimenti, contrariamente
a quanto sostenuto dalla teoria economica, non siano esterni alla
situazione dei mercati, ma pesantemente influenzati dalla dinamica
dei prezzi e dalla volatilità. Proprio in corrispondenza
della crisi dei mercati del 2000, da una situazione in cui gli obiettivi
erano piuttosto stabili si è passati a una situazione nella
quale tutti gli altri perdono rilevanza a vantaggio della sicurezza
e del contenimento del rischio, legata alla grande incertezza che
il risparmiatore avverte.
Si conferma una regolarità importante: pochissime famiglie
affrontano linvestimento finanziario senza obiettivi. Purtroppo,
nella maggior parte dei casi il significato economico di tali obiettivi
non viene compreso a fondo: solo l8 per cento, infatti, collega
rischio e rendimento in maniera corretta, cercando di massimizzare
il rendimento, dato il livello di rischio (il titolo di studio appare
però importante per la cultura finanziaria, dato che la quota
di chi si comporta correttamente è del 13 per certo tra i
laureati e del 15 per cento tra gli insegnanti). Il 28 per cento
vuole minimizzare il rischio, con punte per alcune categorie specifiche:
per esempio, per il 32 per cento dei pensionati, contro il 23 per
cento dellanno precedente.
I risultati descritti devono essere posti nella prospettiva del
tempo impiegato per linformazione finanziaria. Il 70 per cento
non sa quanto tempo dedica in media alla settimana allinformazione
finanziaria. Il tempo dedicato dal restante 30 per cento è
suddiviso in questo modo: il 22 per cento dedica meno di dieci minuti
settimanali, il 13 per cento tra undici e venti minuti, il 19 per
cento tra ventuno e trenta, il 24 per cento fra trentuno e sessanta,
il 12 per cento tra una e due ore, il 10 per cento oltre due ore.
Sono quindi pochi coloro che dedicano tempo alla formazione e allinformazione
finanziaria. Soltanto tre italiani su cento dedicano più
di venti minuti al giorno allinformazione finanziaria. Negli
ultimi anni il rapporto tra gli italiani e il risparmio si è
ulteriormente complicato. Da un certo punto di vista, una fase così
difficile non veniva attraversata dagli anni Settanta, altro periodo
contrassegnato da tassi di interesse nominali inferiori al tasso
dinflazione, mercati azionari in calo, debole livello di attività
economica. La differenza tra allora e oggi è costituita dalla
presenza di un robusto settore di intermediazione finanziaria dedito
alle attività di gestione del risparmio. Levidenza
che traspare dallindagine mostra comunque qualche crepa nel
rapporto tra gli italiani e il settore del risparmio gestito. Si
ha la sensazione che a volte i professionisti del risparmio non
siano in grado di proporre strumenti adatti agli investitori, e
che, specie nel recente passato, abbiano forzato la mano ai risparmiatori,
collocando prodotti complessi e rischiosi a investitori che sino
a dieci anni fa detenevano esclusivamente depositi bancari e titoli
pubblici.

Tramontata leuforia dellinvestimento azionario (Nasdaq
docet!), è tempo di ricostruire il rapporto tra investitori
e intermediari. Tocca a questi ultimi fare il primo passo, con segnali
comprensibili e semplici: un abbassamento nel costo dei servizi
proposti, una maggiore efficienza finanziaria, una speciale attenzione
al rischio dei prodotti, unattenzione ad evitare il collocamento
di titoli di dubbia qualità, una prudenza più elevata,
una particolare cura delle reali esigenze degli investitori. Non
cè dubbio che appena lindustria finanziaria dimostrerà
più attenzione per gli investitori, questi ultimi potranno
riacquistare la fiducia persa o smarrita, e il settore potrà
diventare un importante motore di crescita per leconomia italiana
ed europea.
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