Non è possibile
concepire
un mercato
globale senza
un diritto globale che garantisca
i diritti umani
e vigili contro
la soppressione
della concorrenza.
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Le interconnessioni tra etica, politica ed economia sono oggi importanti
per interpretare i complessi fenomeni della società contemporanea
e in particolare quello della globalizzazione che procede di fatto
con la diffusione delleconomia di mercato. Sono proprio questi
temi che sollecitano ulteriori riflessioni sulla distribuzione delle
risorse e sullordinato sviluppo delleconomia mondiale
e quello delle persone. La possibilità di stabilire il processo
produttivo in qualsiasi area del pianeta comporta inevitabilmente
una crescente e complessa interdipendenza fra Paesi e culture diverse.
E senza dubbio attraverso uneconomia di mercato si possono
ottenere le più diverse finalità individuali che sottintendono
le libertà dei singoli e una maggiore partecipazione popolare
con la diffusione del pluralismo nelle istituzioni pubbliche.
Prendendo a prestito la geniale intuizione di Hayek, lordine
delle società occidentali è quello del cosmos,
ovvero un ordine non preordinato, ma spontaneo, che non ha un proprio
fine ma consente il raggiungimento di diverse finalità. Mentre
lordine della taxis è quello organizzato e preordinato
ad un fine e basato su precise norme organizzative subordinate alle
decisioni di chi governa i fini.

Su tali basi leconomia di mercato, che ovviamente è
lesplicitazione di un ordine spontaneo, e la globalizzazione,
che di fatto è lestensione del mercato nei vari Paesi,
sono gli strumenti attraverso cui si realizzano le diverse finalità
individuali.
Non vè dubbio che il tema della globalizzazione sia
comunque oggi il tema più importante nelle discussioni circa
il futuro della nostra civiltà. Per la verità, il
concetto di globalizzazione, riprendendo la categorizzazione di
Michael Novak, ha sicuramente almeno tre dimensioni. Quella culturale,
se facciamo riferimento alla nuova rete di rapporti fra i popoli
e alla condivisione di modelli comuni di riferimento. Ogni anno
si calcola che viaggi un decimo della popolazione mondiale, il numero
di televisori per 1.000 abitanti è passato dal 1980 al 1995
da 121 a 235, fra il 1990 e il 1996 il tempo speso in chiamate telefoniche
internazionali è passato da 33 miliardi di minuti a 70 miliardi
di minuti, e a prezzi costanti del 1990 il costo di una telefonata
di tre minuti da New York a Londra è passato da 245 dollari
nel 1930 a 50 dollari nel 1960, a 3 dollari nel 1990 e a soli 35
centesimi nel 1999.
La seconda dimensione è quella politica e a tal proposito
basti pensare alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e
agli sforzi per completare e rendere efficace gli strumenti di regolamento
delle relazioni interstatuali. Non a caso a New York, dinanzi al
palazzo delle Nazioni Unite, sorge la statua di Francisco de Vitoria
(1486-1546), il grande pensatore cattolico precursore del diritto
internazionale.

E infine cè sicuramente quella economica, che è
però più recente e naturalmente la più discussa.
Qualche dato può fare luce sulla crescente importanza della
globalizzazione economica. Nel 1965 il prodotto mondiale lordo era
pari a circa 2 miliardi di dollari. In appena trentanni nel
1995 tale prodotto è salito vertiginosamente a 29 miliardi
di dollari. Tra il 1965 e il 1996 il commercio mondiale da un Paese
allaltro è aumentato da 186 miliardi di dollari a 6.370
miliardi di dollari. Nel 1965, l85% delle esportazioni dei
Paesi in via di sviluppo era costituito da prodotti di base, ovvero
materie prime.
Nel 1997 il 70% delle esportazioni era costituito da prodotti lavorati.
Contrariamente a quanto si pensa, quindi, il mondo dei Paesi in
via di sviluppo ha bisogno di più globalizzazione e certamente
il più importante atto di politica economica per i Paesi
industrializzati sarebbe quello di liberalizzare ancor di più
le importazioni dai Paesi in via di sviluppo.
Gli scambi giornalieri sul mercato valutario sono cresciuti da 20
miliardi di dollari del 1970 a 1.500 miliardi del 1998. I prestiti
bancari internazionali sono passati da 265 miliardi di dollari del
1975 a 4.000 miliardi di dollari del 1994. Insomma, il mondo oggi
è più ricco, più dinamico e più interconnesso.
Lespansione dei mercati ha infatti generato una continua rivoluzione
tecnologica che ha innovato i mercati con quel processo che Joseph
Schumpeter definiva «distruzione creativa».
Lo sviluppo tecnologico nel settore delle telecomunicazioni e in
quello dei computer ha facilitato lespansione nel pianeta
dei prodotti finanziari con un maggiore numero di transazioni cross
the border, costringendo obtorto collo i governi nazionali
a liberalizzare il settore finanziario e quello creditizio. Il mondo
finanziario è sicuramente più efficiente oggi che
nel passato, attraverso la maggiore produttività assicurata
dalle nuove tecnologie e dalla diffusione di sistemi di risk management.
Il sistema finanziario ha assicurato un più agevole afflusso
di capitali finanziari che hanno sostenuto il commercio internazionale,
il finanziamento delle nuove tecnologie e gli investimenti diretti
nei Paesi con un effetto evidente sulla crescita degli standard
of living.
Di pari passo, si è creata una stretta interdipendenza fra
i mercati e i suoi partecipanti sia a livello nazionale sia internazionale.
Conseguentemente, per via di una maggiore correlazione fra i mercati
si sono distribuiti efficacemente i vantaggi di un migliore arbitraggio
e di un pricing sempre più esteso per tutti i nuovi complessi
strumenti finanziari, come i derivati, ma allo stesso tempo è
cresciuta la facilità con cui disallineamenti e fallimenti
in un mercato si propagano a velocità mai prima sperimentata
nei mercati internazionali.
Le ricorrenti crisi finanziarie internazionali, cui abbiamo assistito
negli ultimi anni, non devono quindi far passare sotto tono lenorme
aumento che le economie mondiali hanno registrato nei loro commerci
e nella allocazione del capitale di investimento. Commerciare fa
bene. Benjamin Franklin sosteneva a ragione che il commercio internazionale
non ha mai rovinato gli Stati. E sul porto di Amsterdam, nel Paese
che ha meglio interpretato la necessità degli scambi internazionali,
cera scritto Commercium et pax. Infatti quando
le barriere al commercio sono abolite, i popoli sono in genere più
uniti e hanno sempre delle possibilità che uneconomia
chiusa nega. Questultima permette in effetti di consumare
soltanto tutto quello che si produce in loco o investire soltanto
tutto quello che si risparmia. Il commercio e la libera circolazione
di capitale consentono di separare al contrario lammontare
degli investimenti dal livello di risparmio prendendo la differenza
dallestero. In questo modo i Paesi meno sviluppati possono
disporre di più capitale per i loro investimenti con potenziali
future maggiori produzioni e i Paesi ricchi di capitale compensano
i minori investimenti con il reddito ricevuto dagli investimenti
dallestero.

Senza scomodare Ricardo e la teoria della specializzazione della
produzione per costi comparati, si può facilmente sostenere
che il libero commercio ha aperto nuove possibilità allaumento
della ricchezza. Nel 1970 lammontare del risparmio privato
verso i Paesi poveri ammontava solo all1% del GDP (Gross Domestic
Product, N.d.R.) dei Paesi destinatari dellinvestimento. Alla
fine degli anni Novanta questo flusso è aumentato al 3,75%.
Per dare unidea dellammontare delle transazioni coinvolte
e dellammontare ancora ridotto dei flussi di capitale che
è convogliato verso i Paesi in via di sviluppo, basta registrare
alcuni dati. Alla fine del 2001 il totale dei prestiti bancari cross
border ammontava a 9 migliaia di miliardi di dollari. Solo 700 miliardi
di dollari andava ai Paesi in via di sviluppo. Su un totale di investimenti
in titoli cross border pari a 12 migliaia di miliardi di dollari,
solo 600 miliardi di dollari erano di pertinenza dei Paesi in via
di sviluppo.
Il problema dei Paesi in via di sviluppo è quindi quello
di un maggiore afflusso di capitali e di un loro efficiente utilizzo.
La storia ha abbondantemente dimostrato che il libero flusso di
capitali ha giovato fortemente allo sviluppo economico. Anzi, le
statistiche mostrano che lo sviluppo maggiore avviene proprio nei
Paesi che pongono meno limitazioni allingresso di capitale
e che si muovono più velocemente sulla strada della integrazione
finanziaria.
Con grande lucidità e preveggenza Luigi Sturzo nel 1928
nel suo libro La comunità internazionale e il diritto di
guerra sosteneva che il «grande fiume delleconomia internazionale
può essere una grande ricchezza e può essere un grave
danno: dipende dagli uomini in gran parte evitare questo danno.
Quello che non dipende dagli uomini è che il fiume non esista.
[
] Contro lallargamento delle frontiere economiche dai
singoli Stati ai continenti, insorgono i piccoli e grandi interessi
nazionali, ma il rinnovamento è inarrestabile; lestensione
dei confini economici precederà quella dei confini politici.
Chi non sente ciò è fuori della realtà».
Dovè allora laspetto negativo delle ricorrenti
crisi finanziarie? E soprattutto, lattuale impalcatura multilaterale
costruita dopo Bretton Woods è ancora valida? Bisogna a questo
punto riconoscere che i benefici della crescente apertura dei mercati
funzionano solo in presenza di una stabilità macroeconomica
che deve essere garantita dai governi e dalle Banche centrali. Come
la ricerca della BIS ha dimostrato a iosa, le crisi economiche iniziano
sempre nel settore finanziario e le crisi bancarie accadono sovente
quando, in un sistema liberalizzato, la vigilanza e lambiente
istituzionale sono deboli. Uninefficiente attività
di regolamentazione dei mercati e delle banche, in presenza di unalta
reattività degli stessi, può senza dubbio compromettere
i benefici dellinnovazione finanziaria. Insomma, lintegrazione
finanziaria ha sicuramente aspetti positivi e benefici, ma anche
costi che possono essere molto pesanti.
La ricerca economica suggerisce che le crisi finanziarie dellAmerica
Latina sono costate fino al 2,2% del GDP annuale di quei Paesi negli
anni Ottanta. La crisi finanziaria dei Paesi del Sud Est asiatico
è costata l1,4% del loro GDP negli anni Novanta. E
per scendere in dettaglio e fuori del dato medio, la crisi finanziaria
asiatica è costata allIndonesia una diminuzione del
suo GDP del 14% nel 1998. Una percentuale altissima, che ha causato
fra laltro anche un drammatico cambio di regime allinterno
del Paese. Ogni studio sullargomento documenta abbondantemente
che nelle crisi finanziarie due potenti fattori interagiscono fra
loro: i rischi economici nei Paesi destinatari dellinvestimento
estero e lestrema mobilità dei capitali. Laffrettata
liberalizzazione non preceduta da unefficiente regolamentazione
causa un boom di prestiti generalmente diretto verso settori a più
alto rischio, come azioni e proprietà immobiliare, e non
verso investimenti produttivi. Il coinvolgimento dei rispettivi
governi amplifica il fenomeno con lintromissione dellEsecutivo
che sollecita alle banche investimenti in specifici settori senza
riferimento alla bontà del credito.
Il problema generale di un più efficace funzionamento dei
mercati finanziari internazionali non è tuttavia di facile
risoluzione. Come ha detto lex Deputy Managing Director del
FMI, Stanley Fisher, «Tutti quanti noi vogliamo un sistema
dove i privati sopportino i costi dei cattivi investimenti, ma abbiamo
bisogno di standard internazionali di contabilità, di corporate
governance, di informazioni finanziarie omogenee, di un sistema
che ci permetta di controllare ladozione di questi standard».
I risvolti concreti di questi problemi sono evidenti nelle desolanti
cifre. Ci sono oggi 1,2 miliardi di persone che vivono con meno
di 1 dollaro al giorno e la popolazione mondiale è prevista
in crescita di un altro miliardo fra il 2000 e il 2015, con il 97%
di questa crescita numerica concentrata nei Paesi in via di sviluppo.
Quello di cui abbiamo bisogno è certamente una strategia
per lo sviluppo. Uno sviluppo come libertà, nellaccezione
di Amartya Sen, capace di lasciare agli individui la possibilità
di forgiare il proprio destino. E quindi è necessario costruire,
come ha proposto Nicholas Stern, due pilastri essenziali: quello
del clima per linvestimento che lo faciliti e lo sostenga
e quello della partecipazione popolare allo sviluppo. Per investment
climate, Stern intende il focus sulle istituzioni, la governance,
le politiche pubbliche, la stabilità e le infrastrutture
che sostengano le riforme per lo sviluppo.
Essenziale per tale progetto è la buona governance che richiede
in primis il rispetto della rule of law, la lotta alla
corruzione e al crimine insieme ad unefficace struttura di
supervisione che incoraggi il settore privato. Non si tratta insomma
solo di trasferire capitali, ma di impiantare un sistema che favorisca
gli investimenti e quindi lo sviluppo economico. Non è possibile,
in altri termini, concepire un mercato globale senza un diritto
globale che garantisca i diritti umani e vigili contro la soppressione
della concorrenza. Nelle parole di Stern, «La protezione sociale
può certamente giocare un ruolo, ma la migliore protezione
sociale per la società è uneconomia che cresce».
Ancora una volta può qui risuonare familiare linsegnamento
sturziano alle virtù della concorrenza come «il rischio
che educa».
Di fatto, Paesi come la Cina, il Messico e lIndia, che si
sono mossi verso una progressiva apertura delle loro economie e
verso un maggiore commercio estero, hanno certamente registrato
uno sviluppo più marcato di quei Paesi come la Russia, il
Pakistan e molta parte dellAfrica che al contrario non hanno
realizzato un clima caratterizzato da commercio con lestero
e migliore governance allinterno. Tutto il dibattito sullo
sviluppo economico dei Paesi emergenti è quindi racchiuso
nella concreta lotta alla povertà.
Come ricorda autorevolmente padre Robert Sirico, «La povertà
è la condizione naturale della razza umana, il risultato
dellostacolo frapposto dalla natura al benessere umano: la
scarsità. Labbondanza è leccezione: non
cè bisogno di fare nulla per produrre povertà,
laddove tanto bisogna fare per produrre ricchezza». Deve oggi
rafforzarsi la consapevolezza del mercato come lo strumento che,
attraverso il procedimento di scoperta della concorrenza, amplia
le nostre scelte economiche e quindi la nostra libertà, e
diffondersi la convinzione che per il raggiungimento di tale fine
il mondo debba essere libero dalla violenza e dalla guerra per una
migliore convivenza fra i popoli. Tale visione ci porta daccapo
a considerare i problemi dello sviluppo economico per i Paesi in
via di sviluppo come temi legati allo sviluppo del commercio e alla
realizzazione di una politica che faciliti gli investimenti. Soluzione,
questa, che rientra nella tradizionale logica liberale.
Mi sia consentito di citare il brillante insegnamento di Wilhelm
Roepke, uno dei più famosi economisti cattolici e liberali,
che aveva intuito come lo iato fra cultura cristiana e liberale
necessiti di una ricomposizione. Nelle sue parole: «Antichità
classica e Cristianesimo sono i veri antenati del liberismo, perché
sono gli antenati di una filosofia sociale che regola il rapporto,
ricco di contrasti, tra lindividuo e lo Stato secondo i postulati
di una ragione inserita in ogni uomo e della dignità che
spetta ad ogni uomo come fine e non come mezzo, e così contrappone
alla potenza dello Stato i diritti di libertà dei singoli
[...]. Il liberalesimo non è nella sua essenza un abbandono
del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale
e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche
può indurre a scambiare il liberalesimo con il libertinismo.
Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto
di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni di pensiero occidentale,
lidea di umanità, il diritto di natura, la cultura
della persona e il senso di universalità».
Meglio di così non si può dire. Anche per i problemi
dello sviluppo economico.
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