Non è il caso
di sottovalutare
i problemi gravi che i Paesi occidentali devono affrontare.
Ma va respinto il pessimismo della modernità,
secondo il quale il Male si identifica sempre
ed esclusivamente con lOccidente.
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Uno spettro si aggira ad ovest del mondo: la decadenza. Ci si occupi
della Borsa o dellambiente o della qualità della classe
politica, tanto per fare qualche esempio, il leitmotiv
che accompagna le analisi degli esperti di turno è
sempre lo stesso: la civiltà occidentale è in caduta
libera.
Qual è lorigine di tanto pessimismo? Il punto di partenza
è sempre rappresentato dalla convinzione che la cultura di
un Paese sia alle prese con un inarrestabile processo di declino.
Non per niente Francis Fukuyama non si stanca di ripetere che «è
stato il Novecento a rendere tutti pessimisti riguardo alla storia».
E sicuramente il secolo breve è stato orribile
per la cognizione del dolore, ma né il pessimismo culturale
né le teorie della decadenza sono un fatto nuovo. Non abbiamo
dovuto attendere il XX secolo o gli allarmi dei pensatori postmoderni
per veder comparire gli araldi della disperazione. Già Esiodo,
verso la fine dellVIII secolo a.C., aveva suddiviso la storia
del mondo in cinque fasi, iniziando da unetà delloro
e finendo con unetà del ferro. Egli era convinto di
vivere in questultima fase, la peggiore, al termine della
quale lintero ciclo sarebbe ricominciato. Lo stesso Seneca
attendeva con stoico fatalismo lannientamento del suo mondo
e di tutto ciò che ne faceva parte.

Lidea di decadenza non è appannaggio del solo mondo
classico, è anche parte integrante della teleologia giudaico-cristiana,
che ha lasciato un segno profondo nella cultura dellOccidente.
Del resto, che cosè la cacciata dal Paradiso, se non
unidea di decadenza? Il Medioevo non ha mai avanzato dubbi
sullineluttabilità dellApocalisse. In seguito,
con gli adattamenti operati dallabate Gioacchino da Fiore,
lApocalisse fu calata nella storia. Da qui, lassociazione
fra distruzione apocalittica e ricostruzione politica, che ritroviamo
nella nostra epoca con innegabili assonanze: nel senso che cè
un filo rosso che unisce Gioacchino a Marx e alla sua visione di
un mondo borghese corrotto e decadente, che il proletariato deve
abbattere in nome del comunismo.

Certo, lOccidente non è il Paradiso. Ma altrettanto
sicuramente non è nemmeno lInferno. Ha ragione lo storico
Oliver Bennet: il de contemptu mundi è un lamento
che, come un refrain, ha risuonato in ogni epoca, e che ai nostri
giorni trova i suoi sostenitori irriducibili soprattutto negli intellettuali
del mondo occidentale: Europa e America. LOccidente, insomma,
è dipinto come un luogo perduto nel quale la logica del profitto
schiaccia i più deboli e sfortunati, a vantaggio dei ricchi
e degli sfruttatori. Appunto: un Inferno caratterizzato da quel
neocolonialismo in cui consisterebbe la globalizzazione, fenomeno
destinato a cancellare ogni tradizione locale e a sostituirla con
quellorrendo tossico mentale e morale costituito dal Pensiero
Unico. In sintesi: Occidente significa in particolare capitalismo
e America, quindi va combattuto senza soluzione di continuità.
Questo è il messaggio dei neoapocalittici.
Non è il caso di sottovalutare i problemi gravi e urgenti
che i Paesi occidentali devono affrontare, come il degrado ambientale,
o le questioni legate ai flussi migratori, o gli stessi egoismi
nazionali che frenano lorchestrazione di continenti federali
o confederali. Ma va respinto il pessimismo della modernità,
secondo il quale il Male si identifica sempre ed esclusivamente
con lOccidente. Con ogni probabilità, in nessuna epoca
i diritti individuali sono stati garantiti come lo sono ai nostri
giorni nei Paesi occidentali, e mai come oggi il benessere vi è
stato più diffuso. LOccidente ha scritto Karl
Popper è la migliore società perché
è la più capace di autocorreggersi.

Quanto al capitalismo, sarebbe ora che i detrattori delleconomia
di mercato riflettessero sul fatto che senza di essa sprofonderemmo
nella più drammatica indigenza. E vi è di più,
nel senso che economie di mercato e Stato di diritto vivono e muoiono
insieme. Le libertà individuali sono destinate a scomparire
là dove lo Stato (o qualche privato) detenessero tutti i
mezzi. Fu Von Hayek ad ammonire che «chi possiede tutti i
mezzi stabilisce tutti i fini».
Leconomia di mercato è lesposizione pubblica
di soluzioni di problemi: di soluzioni nuove per problemi vecchi
e anche antichi, di soluzioni di nuovi e magari prima inimmaginabili
problemi. Il mercato, con il suo principio di concorrenza,
è un processo di scoperta e di invenzione; arricchisce il
mondo; mette a disposizione beni senza obbligare alcuno
ad usufruirne; amplia, quindi, la possibilità di scelta,
cioè la nostra libertà; è strumento di una
sempre migliore conoscenza e di una sempre migliore convivenza tra
i popoli. La globalizzazione economica, intrinsecamente connessa
con la globalizzazione dellinformazione, offre nuove opportunità,
anche se ci pone di fronte a nuove sfide e a nuovi rischi. E il
rischio più grande è che un mercato globale non venga
simultaneamente regolato da un diritto globale, vale a dire da un
sistema legale internazionale in espansione che garantisca i diritti
umani e che vigili contro ogni tentativo di soffocare la concorrenza.
E perché la globalizzazione non si trasformi in un disumano
incontro del forte con il debole è necessario non che il
forte si indebolisca, ma che il debole diventi forte. E debole è
colui che non sa e non può: che non sa perché privo
di conoscenze scientifiche e tecnologiche; che non può perché
anche quando avesse le necessarie conoscenze per progettare e per
costruire beni e servizi, è oppresso da uno Stato che vieta
la libertà dimpresa e di commercio. Eccola la sfida
epocale dellOccidente: è tempo di esportare e mettere
a disposizione ovunque nel mondo il meglio di sé i
diritti umani, lo Stato di diritto, la conoscenza scientifica e
tecnologica o know how.
E questa la via impervia che esige etica, intelligenza, lungimiranza.
Da un mercato globale abbiamo tutti da guadagnare. Dalla giungla
dove il più forte depreda il più debole abbiamo tutti
da perdere: eticamente, tutti e sempre; economicamente e politicamente,
prima o poi.
E qui va chiarito che una civiltà globale non equivale a
una civiltà uniforme nelle idee, negli ideali, nei costumi.
Una civiltà globale è fatta da tante civiltà:
è una civiltà aperta alle più diverse civiltà,
diverse nella visione del mondo filosofico o religioso, nella scelta
dei valori etici, nei costumi. Quello che sprezzantemente è
stato più volte definito Pensiero Unico devessere
in realtà il pensiero che non solo permette, ma include e
auspica la convivenza del maggior numero possibile di pensieri nella
scienza, in ambito etico, in quello filosofico e religioso.
Il pensiero unico (con le iniziali minuscole) esclude solo una variante
di pensiero: il pensiero unico degli intolleranti e dei violenti,
il pensiero di coloro i quali intendono imporre ad ogni costo, magari
con le lacrime e il sangue, la loro presunta Unica Verità
e i loro presunti esclusivi Valori Unici. Esclude gli integralismi
e i fondamentalismi, compresi quelli razionalistici. Che sono sempre
destinati a perdere.
Post Scriptum
14 dicembre 2003
Iconoclastie
Europa. I quotidiani italiani
ed europei (ma anche americani e asiatici) riferiscono che la Convenzione
europea è andata in baracca, e che la bozza di Costituzione
continentale non è stata firmata: tutto rinviato alla presidenza
irlandese (illusione: ci sono importanti tornate elettorali e dunque
tutto è rinviato, se va bene, alla fine del 2004). Motivi
del generale disaccordo? Francia e Germania scalpitano in nome di
unegemonia europea che non meritano; Spagna e Polonia, una
entrata tardi nel consesso europeo, laltra ancora fuori fino
a maggio, vogliono contare di più; lInghilterra resta
fuori euro e sta, come sempre, alla finestra. E crollata limmagine
dellEuropa politica.
Chi si è opposto, in realtà, vuole un Trattato classico
fra Stati sovrani, non una Costituzione che preluda allEuropa
unita, non un attore politico che un giorno possa parlare con una
sola voce, al modo della Costituzione americana. Ciascuno Stato
intende mantenere intatto il proprio potere di interdizione e di
veto; non tollerano che nasca qualcosa di nuovo, nel Vecchio Continente,
né desiderano un soggetto politico che sia in grado di prendere
decisioni rapide, efficaci, democratiche. Sono per lo status
quo, cioè un insieme di Stati legati da vincoli non
forti, che non limitino le vecchie sovranità: che tuttavia
oggi è solo apparente, perché nessuno Stato è
in grado di difendere da solo i propri interessi.
Cè chi ha proposto unazione trainante dei vecchi
Sei fondatori. Ciò significherebbe unEuropa a due velocità,
e forse a tre, con lingresso degli altri Dieci previsto da
qui a qualche mese. Così, il sogno di Ernesto Rossi e di
Altiero Spinelli andrebbe in soffitta. Washington, che non ha mai
amato unEuropa federale e confederale, ritenendola pericolosa
come potenza politica e preferendola come zona di libero scambio,
sembra soddisfatta, e continua ad adulare gli egoismi nazionali
che si riesce a far morire al di qua dellAtlantico. E linsipienza
europea li incoraggia a proseguire sulla strada della disgregazione
dei Quindici, poi Venticinque, incapaci di trasformare il loro complesso
e forse anche precario Zollverein in unoccasione propizia
a un decisivo balzo politico.
Iraq. Non si fa in tempo a
leggere gli editoriali, che si apprende della cattura di Saddam
Hussein. O meglio: di un fantasma, di un relitto che sembra emerso
da una grotta segregatrice della Barbagia. Sguardo spento, gesti
remissivi. Era stato un satrapo genocida, luomo che risale
dalla botola a pelo di suolo, alla fine ridottosi ad una sorta di
automa narcotizzato, attonito. Tradito e venduto da chi, non importa.
Il crollo della sua immagine ha due valenze formidabili: non è
morto combattendo, né si è suicidato, cioè
non ha saputo assurgere a martire della causa araba, e per questo
ha sconvolto le aspettative delluniverso onirico di decine
di milioni di uomini che si esaltavano con la leggenda della sua
imprendibilità: così, una sorta di metamorfosi kafkiana
ce lo ha presentato, nel delirio mediatico seguito alla sua cattura,
non più come il personaggio-simbolo della tirannide monocratica
che affligge il mondo arabo, ma come lavventuriero che ha
perso la guerra moderna dellimmagine, devastata dal suo profilo
di clochard che sopravviveva fra residui di pasti consumati al buio,
fra chiazze escrementizie, stoviglie sporche, vestiti laceri, una
branda con le coltri disfatte, uno spazio appena sufficiente a contenere
un corpo disteso e una via duscita bloccata dallesterno.
Continui oppure diminuisca la pressione della guerriglia, la svolta
simbolica è lacerante. Non più leggenda di un combattente
tenace e ubiquo, dunque invulnerabile. Non più mito del condottiero
con poteri illimitati. Non più leroe pronto al gesto
estremo, che aveva promesso in caso di cattura, ma non ha avuto
la forza di compiere. Ma un vile che, per aver salva la vita, si
è sottoposto allumiliazione e al ludibrio, dunque al
disonore. Al tempo dei kamikaze!
Italia. Testo della lettera
inviata da Nerio Nesi alla Stampa di Torino: «Leggo
la lettera del padre di un laureando allUniversità
di Torino che racconta che allinvito di alzarsi in piedi
per onorare i caduti di Nassiriya fatto durante le lezioni da un
docente, hanno aderito solo sette su oltre 120 studenti presenti.
E un episodio agghiacciante, secondo, per gravità,
solo a quello di quel gruppo di studenti, sempre purtroppo dellUniversità
di Torino, che hanno definito i carabinieri caduti a Nassiriya Ignobili
mercenari. Leggendo questo racconto e quelle parole è
sorta in me spontanea la domanda: come è potuto accadere?
Come sono stati educati questi ragazzi? A quali valori? A quali
sentimenti? Appartengo organicamente alla sinistra e alla Camera
ho votato contro linvio della spedizione italiana in Iraq.
Ma forse proprio per questo provo un profondo disprezzo verso chi
insulta il sacrificio e la memoria di soldati che sono caduti servendo
il Paese. Il mio giudizio su costoro è durissimo e non modificabile
da alcuna delle tante ragioni ambientali che verranno certamente
addotte da difensori alla ricerca di alibi».

Egregio vicepresidente della Commissione parlamentare Lavori Pubblici
ed ex presidente della Banca Nazionale del Lavoro. Qualcuno dirà
che lestremismo è una malattia della gioventù,
come il morbillo lo è per linfanzia. E si tratta, appunto,
di un alibi idiota. Perché non di malattia esantematica né
di acne giovanile si tratta, ma di una patologia vera e propria,
trasmessa da una cultura giacobina che ancora oggi non riesce a
ripiegarsi su se stessa e a coltivare la riflessione al posto della
violenza. E non di politica si tratta, ma di ideologia, che è
sempre stata, e resta, un tossico inoculato a ragion veduta dai
saturnini maîtres à penser che occupano
accademie e cattedre, scranni parlamentari, uffici di professionisti
di antimafie, banchi di toghe e tocchi, poltrone direzionali di
opulente pubblicazioni, spazi di consulenze editoriali e colonne
di quotidiani. Non tutti, ma quanti bastano, con la loro proterva
pervicacia, e con la determinazione a perseguire gli interessi delle
parti realmente più conservatrici del nostro disgraziatissimo
Paese (è lei a definirlo così; io preferisco parlare
di Patria). Càpita spesso, dunque, che universitari che in
massima parte provengono non da famiglie diseredate, ma per lo meno
agiate, se non proprio ricche, facciano del cinismo opportunista
lo strumento (troppe volte vincente, ancora oggi) di affermazione
della propria baronia, del proprio clan, del familismo dirigente
che non ha bisogno di meritocrazie, ma di servilismo, di obbedienza
cieca, di presenzialismo, alimentati dallorgoglio di mamma
e papà felici di allevare rampolli di così tracotante
imbecillità.
Sono figli dei suoi e dei miei tempi, questi campioni del culo di
pietra, che rimane fissato sui banchi di unaula anche quando
si commemora chi è stato massacrato da ciechi integralisti
portatori di morte. E per costoro non fa differenza fra portatori
di pace e mercenari. Gli sta bene, al contrario, piazza Tien an
Men, come gli sta bene oggi Castro, come gli stava bene ieri Pol
Pot. Gli sarebbe stato bene, laltro ieri, un Hitler. O uno
Stalin. O a volersi rovinare, un Ceausescu o un necrofago allAmin
Dada.
Sono figli del regno della menzogna che abbiamo costruito tutti
quanti, con le nostre cortine psicologiche, politiche, culturali,
adatto solo allo scontro, non al confronto; al recinto del dogma
acritico, non al mondo delle idee. Con buona pace (ma più
mia che sua) di chi guarda oltre, non accettando di camminare con
la testa stravolta.
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