La spiegazione
segreta di unopera
va cercata nella vita
del suo autore.
(Ch. A. Sainte-Beuve)
Si identificò,
lui, grande
intellettuale del Mezzogiorno,
umanista raffinato, con tutti i reietti
della sua terra,
condividendone le ragioni antiche della liberazione dalla servitù
padronale e del riscatto sociale.
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Chi si accosti a questo libro di Tommaso Fiore senza alcuna preliminare
informazione, può essere tratto in inganno dal titolo: che
si tratti di una più o meno piacevole favola allegorica,
sul tipo, poniamo, dei Viaggi di Gulliver di Gionata Swift, autore,
per altro ben noto, allo scrittore pugliese, tra le cui prime giovanili
letture vanno annoverate proprio quelle degli umoristi inglesi,
anche per una certa affinità di predisposizione mentale.
Del Gulliver, sin dalle prime pagine, rimbalzano in contrapposizione
i semantemi lillipuziani e giganti.
Riferiamo un passo: «Non bisogna andare molto lontano per
trovare una strana terra, dalle casettine lillipuziane [...]. Sono
minuscole capanne tonde, dal tetto aguzzo, in cui pare non possa
entrare se non un popolo di omini [...]. Mi chiederai come ha fatto
questa gente a scavare ed allineare tanta pietra. Io penso che la
cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti. Questa è la
Murgia più aspra e più sassosa; per ridurla a coltivazione,
facendo le terrazze [...], non ci voleva meno della laboriosità
di un popolo di formiche»1: le sedulae formicae del suo Virgilio,
la cui presenza letteraria attraverserà variamente le sei
Lettere pugliesi che costituiscono il libro, come vedremo. Di esse,
le prime quattro sono inviate a Piero Gobetti, per la sua rivista
La Rivoluzione Liberale, tra il gennaio e il luglio
1925; le altre due, del luglio e agosto 1926, al valdese calabro-romano
Giuseppe Gangale, direttore della rivista Conscientia,
dopo la soppressione del periodico torinese, voluta dal fascismo.
Non cè tuttavia soluzione alcuna di continuità
programmatica e metodologica tra le une e le altre, anche perché
è comune ad entrambe le riviste lintento di promuovere
iniziative culturali mirate a realizzare nelle istituzioni pubbliche
e nelle coscienze quella riforma morale e intellettuale, la cui
mancanza, in Italia, aveva provocato la decadenza e poi il crollo
dello Stato liberale: motivo, peraltro, ricorrente nel pensiero
di Croce e di Gramsci, pur nella diversità delle soluzioni
prospettate.
Lindagine sociologica si sarebbe allargata ad altre zone della
regione, oltre la Murgia e il Salento, con linvio di altre
Lettere, se non fosse sopraggiunta la cessazione anche della rivista
di Gangale, a seguito della promulgazione delle Leggi speciali.
Ne è comunque prosecuzione, laltro libro del Fiore,
Il cafone allinferno, che raccoglie dati, impressioni e documenti
demologici dellarea garganica, in gran parte elaborati fra
le due guerre, e che vedrà la luce nel 1955, con leditore
Einaudi. Interessante su di esso il giudizio di Calvino, valido
anche, implicitamente, per un Popolo di formiche: «Mi sembra
un libro esemplare, un libro come ce ne sarebbe bisogno se ne scrivessero
tanti, per ogni regione, per ogni problema [...]; un libro insieme
di alta civiltà letteraria e di intelligenza poetica di paesi
e cose». Nella scrittura di Fiore, infatti, coesistono organicamente
puntuale precisione sociologica e catturante genialità di
artista: caratteri che distanziano notevolmente i due libri dalle
inchieste sulla condizione meridionale di Franchetti-Sonnino, Jacini,
Villari, fermi sui referti statistici, dei quali peraltro, quando
occorre, si avvale anche Fiore. Il formicone di Altamura,
piuttosto, può essere accostato allilluminista Giuseppe
Maria Galanti, le cui Relazioni sullItalia meridionale si
affretta a pubblicare nel 1952, a ridosso della prima ed. di Un
popolo di formiche, nella milanese Universale Economica,
al fine di accendere con altri stimoli il dibattito meridionalistico
del dopoguerra .
Basta poi inoltrarsi di qualche pagina già dalla prima Lettera,
perché alla illusione della dilettevole favola allegorica
subentri lamara realtà delle lacrimae rerum,
«le lagrime di venti secoli che aspettano», dei contadini
e dei braccianti pugliesi, la constatazione «che del tempo
è passato inutilmente», dallepoca «delle
tante pubblicazioni meridionaliste di venti, trentanni fa»,
che insomma «la Puglia è anzitutto una espressione
archeologica».
E da questo ristagno socio-economico e politico che muove
la penna di Tommaso Fiore, che tuttavia trema di commossa trepidazione
al pensiero delle potenziali risorse celate nella classe contadina,
sol che acquisti una compiuta coscienza di sé: «Ognuno
vive in campagna, fiero del suo lavoro e della sua indipendenza,
e grande è lamore pel loro paese: nessuna nostra plaga
ha contadini più fieri, più indipendenti, più
spregiudicati. Non oserei dire che da sé arrivino più
in là, ma è chiaro che questi figli della terra, una
volta non più sviati ed intristiti da preoccupazioni di salari
e di tasse, svolgerebbero rapidamente un vero spirito di autonomia,
che, divenuto conscio di sé, opererebbe politicamente, come
ha sin ora operato economicamente». In questa esaltazione
della funzione redentrice del lavoro non alienato nei campi, si
avvertono congeniali echi virgiliani: «labor omnia vicit /
improbus et duris urgens in rebus egestas» (Georgiche; I,
145-46: «Ha sempre vinto tutto, il lavoro costante, e lurgente
bisogno nelle dure circostanze»).
E questo labor improbus che commuove ed esalta insieme Fiore,
che ne dà notizia agli amici di Rivoluzione Liberale,
auspicio di prodigiosa risorsa, unica ma decisa, per risollevare
le sorti del Mezzogiorno, autonomamente, senza la corruttrice mediazione
dello Stato accentratore. Con un sobbalzo affettivo che tradisce
le proprie radici contadine, attacca: «Ma io ho bisogno di
vedermela tutta, passo passo, questa terra redenta dai contadini,
nessuno dei quali è senza il suo poderuccio coi suoi trulli»,
di contro, e quasi sfidando «i nostri deliziosi agrari che
fan vita a Napoli e da lì si occupano di agricoltura riscuotendo
le rendite».

Meminisse iuvabit
Appunto, è limprobus labor che ha segnato, lasciando
tracce profonde, le esistenze di suo padre e di sua madre, e Fiore,
sin dagli anni più teneri, ne serba la memoria, traendone
via via una lezione imperitura, sino ad identificarsi, lui, grande
intellettuale del Mezzogiorno, umanista raffinato, poligrafo insaziabile,
con tutti i reietti e diseredati della sua terra, condividendone
e propugnandone le ragioni antiche della liberazione dalla servitù
padronale e del riscatto sociale. Egli stesso, del resto, adolescente,
aveva scontato le sue umili origini familiari con la forzosa rassegnazione
a intraprendere e perseguire i suoi studi in ambienti non proprio
congeniali, nel Seminario vescovile di Conversano, senza alcuna
predisposizione allattività sacerdotale, e poi nel
Collegio Teologico di Anagni, per decisione del prelato di Altamura.
Gli pareva che il suo avvenire fosse alla mercé di volontà
altrui; donde lo scatto appena represso della ribellione, nel trascegliere
per le sue letture autori e opere sospette: da Paolo Sarpi a Giosuè
Carducci, da Victor Hugo a Felice Cavallotti, dalla Pulcella dOrleans
di Voltaire alle Operette morali di Leopardi. «Il sapere bisognava
rubarselo da sé, soprattutto in quel luogo disgraziato»,
ricorderà poi.
Tuttavia quelle letture e le numerose di Virgilio, Orazio, Catullo,
Rousseau, Shakespeare, Shelley lo plasmavano nella mente e nel carattere
e insieme rappresentavano lavvio di una cultura intesa e praticata
come strumento di lotta politica, quale non tarderà a sfoderare,
subito dopo la laurea conseguita a Pisa, col suo rientro tra la
sua gente ad Altamura. Si aggiunga il consentaneo entusiastico impatto,
nello stesso arco di tempo, con Antonio Labriola, il cui Saggio
sul materialismo storico gli fa sentire di «aver finalmente
messo piede sul saldo», e con Benedetto Croce, che gli fornisce
«il senso delloperare storico», dileguandogli
dallanimo «le nebbie insistenti del pessimismo, sorbito
in collegio».
Una formazione eterodossa, dunque, e la dolorosa memoria familiare
sono la matrice del suo precoce programma dazione, anche per
il tramite della scrittura; gli studi non dovevano servire ad altro.
Ci si consenta qui una non breve citazione, esemplare per la sua
intensa carica di pietas di figlio non immemore, che sa già
«legger di greco e di latino».
«Questa vita è una schiavitù: tale era il ritornello
di un capomastro del posto [...]. Quante volte ho riflettuto a questa
cosa, alla ribellione che, fra quattro mura, sussurrava a un ragazzetto,
un uomo senzalfabeto, senzalcuno spirito di cupidigia,
incapace, fuori di casa, di levar gli occhi dolci contro chiunque.
Quando sposò, aveva la spalla destra rotta a sangue, diceva,
arrossendo, ventanni dopo, la moglie, per via dei tufi che
aveva trasportato sino a trentanni e più![...]. Ma
anche la povera donna aveva avuto la vita troppo dura, e anche ora
viveva spartanamente e quasi rassegnata [...]. Quanta fame non aveva
sofferto nella sua giovinezza di orfana, per venti anni di seguito,
365 giorni allanno, allo scopo di imparare e insegnare unarte,
di tenersi legata alla realtà della vita [...]. Chiusa a
otto anni nel convento di Santa Lucia, non aveva mangiato che fave,
fave, mattina e sera, chera già un lusso per chi non
conosceva che il pane, sino a ventanni, allorché ne
uscì per andare a marito. Ma quante belle cose ha appreso
quella vivace piccola ricciuta dai grandi occhi, ha voluto apprendere
da sé, allorché nessuno voleva insegnarle nulla e
larte bisognava rubarla»; larte della tessitrice,
per far poi quadrare in qualche modo il gramo bilancio domestico
futuro. Il figlio, allora, «deve portare (necessariamente)
in ogni casa, sin dallinfanzia, uno spirito critico, di opposizione
[...]. Egli continua, senza saperlo, il sogno paterno di liberarsi
dalla schiavitù» .
La figura del padre resta per Fiore il simbolo vivente di un destino
non più tollerabile di vittima di un iniquo secolare assetto
sociale. E quando è in guerra, cui è andato volontariamente,
da interventista democratico, come Salvemini, soldato dellUtopia
non dellIntesa, per stare, anzitutto, al fianco dei cafoni
analfabeti della sua terra, la cara e buona immagine paterna gli
ricompare nella memoria in un alone di mito rigeneratore, di santo
laico, per il «suo profondo ardore di carità [...].
Come mai (riflette) si è formato questuomo, unico più
che singolare? Eppure la sua educazione è cominciata in istrada,
dove a 8 anni lo cacciò di casa la fame, al lavoro»;
e poi i suoi «70 anni di dirittura ostinata [...]. Dove ha
attinto tanta forza morale? Che cosa gli ha dato la vita? Nulla.
Che le ha chiesto? Nulla. E come mai non ha disperato un solo momento?
[...]. Egli non ammette nemmeno le ricchezze... il denaro. Che sia
un anarchico? Un anarchico francescano? [...]. Lui dice solo:
Le ricchezze, il denaro corrompono... e si contenta, per sé,
di non avere, di non cercare né le une né laltro»12.
Come il saggio antico di Democrito, «che non si rammarica
di ciò che non ha, ma gode di ciò che ha».
Ma non ha influito meno sul suo umanesimo militante e sul suo impegno
civile, la giovanile dimestichezza con i dialoghi platonici e con
la figura di Socrate, centrale per la personalissima elaborazione
della sua tesi di laurea. Come acutamente osserva Domenico Fazio:
«Fiore ha condotto in realtà una riflessione filosofica
sul ruolo degli intellettuali nella società: una sorta di
esame di coscienza ante litteram, che non solo si conclude con il
riconoscimento della necessità di un impegno civile, ma lascia
anche intendere con precisione come tale impegno vada concretizzato.
Fiore, infatti, tra le righe della sua tesi, parlando di Socrate
e di Callicle, ha detto che la nuova politica deve avere come scopo
la giustizia e il miglioramento dei cittadini e non già il
potere, il prestigio e larricchimento personale».
Sono i princìpi che animano il Fiore, amministratore della
sua città; il Maestro e lo studioso, per il quale le questioni
filologiche diventano questioni morali e civili: che rifugge dalla
turris eburnea, per collocarsi in linea con le sue formiche,
debellando la boria del dotto, perché la cultura, come Fiore
la intende, è un «abbraccio universale a tutte le creature
che soffrono, anche nei deserti dellAfrica, nei piani sconfinati
dellAmerica e dellAsia, tra le isole degli Oceani».
Tra Pascoli e Tolstoj
Giovanni Pascoli, suo maestro a Pisa, non poteva certo andar confuso
con altri nel ricordo che Fiore ne conserverà; e non soltanto
sotto il profilo della didattica, dindubbia presa sugli allievi,
non molti, bensì per la complessa e contraddittoria compresenza
in lui di interessi culturali, variamente stimolanti nellanimo
e nella mente del provinciale di Altamura: «Di Matera, dovera
stato il suo primo insegnamento, e della Puglia, il poeta di Myricae
rievocò soltanto lulivo, le immense distese di uliveti,
con la povera gente lì sotto, curva sul suo lavoro»:
notazione che colpisce la fantasia di Fiore, non meno dellaltra,
cioè «lattenzione al popolare contadino, lintimità
religiosa dei sofferenti» che poi si rimescolano nel «pacifismo,
gadismo, scentifismo, ulissismo, utopismo: insomma uno scoppio irraggiante,
anarchico, nelletà del positivismo, di forze nuove.
E del resto, anche politicamente il Pascoli era stato anarchico,
discepolo di Andrea Costa», conclude, consentendo, Fiore.
Ma il mite populismo pascoliano bastava sempre meno a Fiore, che
perciò negli stessi anni pisani avvertiva, congenialmente,
il fascino dellanarchico Pietro Gori, e intanto raffinava
i suoi strumenti conoscitivi della realtà, composita e in
fermento, di quello scorcio di secolo, mediante la lettura delle
Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin, che gli accesero «la
fantasia e anche il cuore».
Dora in avanti il formicone pugliese guarderà
ai fatti sociali e agli eventi storici dal «punto di vista
degli oppressi». A tale scopo, gli apparivano più efficaci
le sollecitazioni ideali che potevano pervenirgli dallopera
di Leone Tolstoj, alla notizia della cui morte, avvenuta il 7 novembre
1910, fece seguire un suo densissimo saggio, frutto di una remota
e assidua frequentazione del pensiero del grande scrittore russo.
La originalità dellapproccio di Fiore allautore
di Guerra e pace consiste nel fatto che esso si distacca dallaltro,
più comune e diffuso alla letteratura russa in chiave prevalentemente
misticheggiante, a cavallo dei due secoli. Nella evoluzione del
pensiero tolstojano, Fiore coglie le ragioni ideali e lideologia
del ribelle, del populista rivoluzionario, che sogna
la rigenerazione universale nel segno della eguaglianza evangelica
e della giustizia sociale nel mondo, di là dagli statuti
codificati del potere e della sua fenomenologia. La terra ai contadini
ne era il presupposto, e Tolstoj stesso coltivò a lungo lidea
di rinunciare, per essi, ai suoi beni, sino allo scontro aperto
con la moglie: «Dalle parole di Cristo, secondo le quali gli
uomini son figli di Dio, cui debbono render conto delle loro azioni,
egli conclude allanarchia e allobbligo dei cittadini
di non servire lo Stato e di non ubbidire che alla propria coscienza,
giacché per lo Stato luomo si crede obbligato a confiscare,
imprigionare, esiliare, dannare ai lavori forzati o a morte».
Lantagonista naturale dello Stato è dunque, per Tolstoj,
come per Fiore, la figura del contadino, in forza della sua conservata
innocenza civile, del suo intatto ethos ancestrale. E il riemergente,
ad ogni svolta epocale, bisogno di utopia come «mondo umano
altro», come progetto avveniristico che infranga il reticolato
dei percorsi storici preordinato dai potenti della Terra; progetto
che muova, per la creazione del mondo nuovo, dai dettami
evangelici della fratellanza e della concordia fra le classi e fra
i popoli: miraggio palingenetico e presagio di unèra
di pace e di giustizia, della Légende des Siècles
di Victor Hugo, dellultimo Pascoli di Odi e Inni e dei suoi
Poemi cristiani. Del romanzo Anna Karenina impressiona maggiormente
Fiore il personaggio di Levin, in qualche misura lalter ego
di Tolstoj, nel suo ruolo di interprete del vincolo damore,
che sinstaura nel lavoro dei campi, e del diritto naturale
dellistituto della piccola proprietà, che scongiura
linsorgenza del conflitto di classe, con la concordia dintenti
fra padroni e contadini.
Listituto della piccola proprietà, che è mito
poetico dei Poemetti del Pascoli, e poi ferma rivendicazione politica
del Fiore, in Un popolo di formiche. Come sottolinea Francesco DEpiscopo:
«il socialismo letterario e libertario dello scrittore russo
esercitava anche su Fiore una presa profonda, chiamata tra laltro
a confrontarsi con una consentanea condizione meridionale, legata
ad una specifica situazione morale».
Tra Virgilio e Orazio
Linteresse di Fiore per i classici risale certo agli anni del
suo brillante curriculum scolastico, a Conversano e ad Anagni (con
letture clandestine), ma non vè dubbio che le lezioni
pisane e la conoscenza delle due antologie pascoliane Lyra ed Epos
lo abbiano rafforzato anche filologicamente, sì da diventare,
in breve volgere di tempo, ambito privilegiato dei suoi studi successivi,
oltre che materia del suo insegnamento liceale, e infine, negli anni
bui della clandestinità politica, risorsa estrema di sollievo
spirituale. Tra il 1925 e il 1926 veniva stendendo le sue Lettere
pugliesi, e già lavorava alla monografia critica La poesia
di Virgilio, che vedrà la luce nel 1930, in ricorrenza del
bimillenario del poeta latino. Laccademico dItalia Ettore
Romagnoli pontificava sui destini imperiali dellantica e nuova
Roma, e il formicone pugliese celebrava la poesia dei
vinti, dei «victi tristes», interpretazione pressoché
isolata nellItalia littoria e non littoria, ma che trovava il
riscontro di analogie illuminanti in altri studi doltralpe,
come informa Marcello Gigante. In quei «victi tristes»,
il Fiore includeva anche la condizione storica di emarginazione dei
cafoni del Mezzogiorno. E unanalisi dellopera
virgiliana, scrutata sin nei recessi di unispirazione più
dolente che esaltante, che rovescia gli schemi esegetici più
frequenti di epopea degli eroi («Tantae molis erat
Romanam condere gentem»), per insistere piuttosto sugli orrori
della guerra, sul rifiuto della politica, come gestione del potere
delle élites. Arcadia e Antiarcadia sono gli estremi tematici
fra i quali si muove limmaginazione del poeta: luna, sinonimo
di un ideale di sana vita campestre, di grazia e di ingenuità
(leco tolstojana non è spenta); laltra, sinonimo
di coscienza turbata del male di vivere, di sentimento doloroso della
storia.
Non si può escludere dunque che la singolare simpatia umana
di Fiore per il mondo contadino, lansia del riscatto sociale
dei «dannati della Terra», si alimentino anche dellassidua
frequentazione della poesia del suo Virgilio, col quale ha, innanzitutto,
in comune il sogno dellagellus, che allieti i giorni e attenui
le fatiche campestri. Si è accorto per primo, di tale ascendenza,
ed è rimasto unico a tuttoggi tra i lettori di Un popolo
di formiche, Gabriele Pepe, quando ha osservato che Fiore, vissuto
a lungo tra i suoi cafoni, ha tratto da Virgilio «lanimo
di simpatia georgica agli umili, fruges consumere nati», tratteggiandoli
con amorevole fraternità.
Ma in verità il formicone pugliese si spinge
oltre in sintonia col poeta latino, per stemperare il suo pessimismo
storico. Nel secondo libro delle Georgiche, Virgilio, con la sua
consueta mitezza contadina, contrapponendosi al verticismo speculativo
dellautore del De rerum natura, esclama pensoso: «Felix
qui potuit rerum cognoscere causas / atque metus omnis et inexorabile
fatum / subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari» («Felice
colui che riuscì a conoscere le cause del mondo e a calpestare
ogni terrore e il fato inflessibile e lo strepito dellingordo
Acheronte»); per affrettarsi poi a soggiungere: «Fortunatus
et ille, deos qui novit agrestis / Panaque Silvanumque senem nymphasque
sorores» («ma fortunato anche quello che seppe conoscere
i Numi agresti e Pane e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle»,
ossia lagricoltore che comprenda a fondo i suoi beni della
terra).
E il sogno contadino del campicello, «il poderuccio
coi suoi trulli», nella terra redenta dallimprobus labor,
che insegue Virgilio e non meno Tommaso Fiore nel percorrere le
sue Murge. E il Virgilio che celebra la serena e pudica felicità
del Senex Corycius (il vecchio di Taranto), che sulle
rive del Galeso possiede pochi iugeri di terra abbandonata, e la
dissoda, la libera dal pietrame e dalla sterpaglia, e la fa rinascere
a una nuova rigogliosa vita impensata; e poi, in primavera, coglie
le rose e i pomi, in autunno, e accudisce agli alveari, e a sera
ricopre la mensa di cibi non comprati, e in cuor suo gli sembra
di eguagliare le ricchezze dei re.

Allorché poi accade a Fiore di ripensare, nelle sue peregrinazioni,
alla condizione dei fittavoli analfabeti ma non privi di una naturale
assennatezza, il pensiero gli corre alloraziano rusticus
Ofellus, concittadino del poeta, «abnormis sapiens crassaque
minerva», ma che pure insegnò allamico di Mecenate
«quae virtus et quanta [...] sit vivere parvo», coltivando
il suo campicello spartito di umile fittavolo; e non soltanto a
lui, ma anche ai potenti dogni tempo25. Esempio di parsimonia,
questo grossolano venosino, anche quando come ricorda ancora
Orazio il suo patrimonio era ancora intatto: «Quo magis
his credas, puer hunc ego parvus Ofellum / integris opibus novi
non latius usum / quam nunc accisis» («Affinché
mi si creda ancor più a queste parole, sappi che, quandero
ragazzetto, ho conosciuto questo Ofello, allorquando la sua proprietà
era ancora integra, ed egli non se ne serviva con maggiore larghezza
di quanto faccia ora che glielhanno decurtata»). E di
un campicello, nella Sabina, avuto in dono da Mecenate, è
più che pago anche il poeta: «Hoc erat in votis»,
esulta ad apertura di unaltra confidenza sermocinante: «Modus
agri non ita magnus / hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons
/ et paulum silvae super his foret» («Un pezzo di terra
non tanto grande dove ci fosse un orto e una fonte di acqua perenne
vicina alla casa e un po di bosco poco oltre»). Il fascino,
infine, di un angolo di terra sulle rive del Galeso preme ancora
nella immaginazione e nella poesia di Orazio, che ne scrive allamico
Settimio, come lagognato asilo estremo al termine dei suoi
giorni: «Unde si Parcae prohiben iniquae, / dulce pellitis
avibus Galaesi / flumen et regnata petam Laconi / rura Phalantho.
// Ille terrarum mihi praeter omnes / angulus ridet, ubi non Hymetto
/ mella decedunt viridique certat / baca Venafro» («Se
le Parche ostili mi tengono di là lontano, potessi almeno
vivere in prossimità del fiume Galeso, grato alle pecore
ricche di pelli, ed alle campagne su cui regnò lo spartano
Falanto. Quellangolo della terra mi sorride più di
tutti gli altri, dove il miele non cede a quello dellImetto
e le bacche gareggiano con la verde Venafro»).
Da entrambi i poeti, Virgilio e Orazio, infine, anche Giovanni Pascoli
ha poi ricavato materia di ispirazione per il suo poemetto latino
Senex Corycius, certamente noto a Fiore e il cui motivo centrale
è la pace dei campi e la letizia interiore, lontano dalle
metropoli; e non è un caso, ci sembra, che le sei Lettere
pugliesi si chiudano con il quadretto rasserenante di «una
casa di campagna», entro cui, aperta su un tavolo, si poteva
leggere, da ogni pur raro ospite, questa epigrafe: «Colui
che coltiva i campi, coltiva la santità; colui che coltiva
le leggi della natura, coltiva la santità; colui che coltiva
la religione della natura, coltiva la santità».
I nostri richiami a Virgilio e ad Orazio rivelano, certo, non più
che suggestioni letterarie, ma fortemente compenetrate in chi, come
Tommaso Fiore, non ha mai dissociato la letteratura dalla vita e
limpegno civile dallattività dellintellettuale.
Pessimismo della ragione
e ottimismo della volontà
E innegabile che questi due aspetti, propri delluomo
Tommaso Fiore, ricompaiano nelle Lettere pugliesi; luno, in
considerazione del quadro nazionale presente, laltro per effetto
di una quasi fideistica certezza delle potenzialità rivoluzionarie
delle plebi diseredate e insofferenti. La prima lettera, in data
15 gennaio 1925, riportava immediatamente all«oggi»,
cioè ad appena dodici giorni dal discorso di Mussolini, nel
quale dichiarava di assumersi tutta la responsabilità storica,
politica e morale di quanto accaduto, lassassinio di Giacomo
Matteotti del giugno 1924: «Tu insisti dunque per la collaborazione
mia e di amici di quaggiù a Rivoluzione Liberale
[...], e sembri amareggiato del nostro silenzio [...]; non ci si
vede ormai quasi più [...], e tutti pare abbiano smesso di
scrivere, perché non è in nessun modo cosa prudente
affidare i propri pensieri alla carta, peggio alla posta»30.
Ma subito dopo, la sorprendente laboriosità delle formiche
lo rincuora, e ripensando ai ragazzetti del paese dei trulli, che
«van pulitini e ben calzati, con le loro cartelle, serii,
compresi del loro compito ed anche più orgogliosi, si vede
subito, della loro cittaduzza, che è grande e famosa presso
tutti, e non mostrano molta curiosità per questi forestieri»,
esclama: «Bisogna senzaltro sperare nei nostri figli:
noi abbiamo fatto la guerra; chi sa che essi non facciano qualcosa
di più grande, la liberta».
Ma prima di procedere oltre, è opportuno porsi la domanda
su come loscuro professorino di Altamura, cittadina del barese,
abbia potuto mettersi in relazione con Gobetti e col gruppo di La
Rivoluzione Liberale, operante allaltro capo della penisola,
sino ad instaurare con essi un rapporto di sodalizio culturale militante,
così intenso e luminoso quale mai, né prima né
dopo, si è avuto nella storia dItalia.
La risposta, necessariamente articolata, serve intanto a far luce
sul carattere straordinariamente combattivo di Fiore, in ciò
non dissimile dal più giovane amico, non meno che sullanimo
col quale si sarebbe accinto alle sue escursioni delle Lettere pugliesi.
Quando ha notizia della pubblicazione del settimanale torinese,
avviato nel febbraio del 22, col Manifesto che enunciava il
programma, ne avverte subito la consonanza dintenti: «era
proprio la formula dice che faceva per noi e significava
cambiamento di rotta, per salvare leterna libertà».
Quindi si affretta a scrivergli, il 7 ottobre 1922, per una maggiore
informazione circa lassetto legislativo proposto dal movimento
fascista in materia di amministrazione locale, e prosegue: «I
tempi sono tristi, e nazionalisti e fascisti parlano apertamente
dei poteri reazionari dello Stato, cioè che lo Stato, che
non sa reagire contro i cittadini che non la pensano come lui, non
è uno Stato». Era ormai il suo fermo convincimento.
Esprime, infine, la sua «speranza» e «laugurio»
che La Rivoluzione Liberale voglia riprendere in esame
il problema dellautonomia amministrativa, problema che, sin
dora, più gli sta a cuore e che rimarrà, nellelaborazione
del suo pensiero politico, il nucleo ideologico più consistente.
Nel febbraio del 23, la rivista viene perquisita e il suo
direttore arrestato; tornato libero alcuni giorni dopo, risponde
con lettera del marzo, sia per informarlo dei due «incresciosi»
e sintomatici episodi sia per invitarlo a «mandargli una corrispondenza,
anche brevissima, obiettiva, sul fascismo in Puglia prima e dopo
la marcia su Roma», chiudendo affettuosamente: «Cerchiamo
di restar vicini in questi momenti difficili».

Ma occorre soffermarci su unaltra circostanza. Non meno di
Gobetti era tenuto sottocchio dalla sbirraglia nera il molfettese
Gaetano Salvemini, il maestro incomparabile e ispiratore tanto del
rivoluzionario torinese quanto del conterraneo Fiore, del quale,
fuggendo in Francia, consegnò a Gobetti un lungo scritto
su Giolitti, il «ministro della malavita», bersaglio
costante della polemica salveminiana e gobettiana, cui ora si aggiungono
gli attacchi di Fiore: giolittismo «incubazione del fascismo»,
fomite di pubblica corruttela, terreno di coltura del trasformismo.
Così, la collaborazione di Fiore, anche per limpulso
di Salvemini, stimola per un più puntuale e metodico interesse
esplorativo della realtà meridionale, cui, appunto, si ispira
il progetto gobettiano delle inchieste36: inchieste che non ignorano,
certo, le ricognizioni fornite dai riformatori napoletani della
scuola di Genovesi e poi dai moderati unitari, Franchetti, Sonnino,
Jacini, Villari, nei quali però difettava la partecipazione
umana, quel surplus passionale e, insomma, quella più
anima, quel più cuore, che palpitano nelle
nuove indagini. Ecco Tommaso Fiore, sentirsi cafone
tra i cafoni, umiliato e offeso come i suoi braccianti,
senza lombra della boria dei dotti; come, del
resto, con questi sentimenti si era sentito accanto ai contadini
sul Carso, nella Grande Guerra, e poi, col movimento dei combattenti
nellamministrazione della sua Altamura; e infine nelle sei
Lettere, dense di memoria storica, di ricordi ancora vivi, di incontri,
di impressioni.
Certo, la Puglia dellalba del terzo millennio non è
più l«espressione archeologica», quale
gli era apparsa nel 1925-26; non è più mortificata
e avvilita dal secolare assenteismo parassitario degli agrari, ormai
smascherato e battuto dalla presenza organizzata delle masse contadine,
al seguito dei partiti di sinistra del secondo dopoguerra; ma è
anche vero che ai vecchi mali son susseguiti i nuovi, non meno calamitosi
per le sorti del Mezzogiorno; mali, peraltro, già denunciati
dal Villari (nelle Lettere meridionali) e poi dal Fiore: mafia,
camorra, trasformismo opportunistico, intreccio tra gestione politica
dei potentati economici e corruzione, per cui la denuncia del Fiore
conserva in gran parte la sua efficacia, pur nella diversa diramazione
dei soggetti e dei centri di potere, rispetto a quel lontano passato.
Per limitarci ad un solo esempio: il trasformismo del ceto medio,
della borghesia degli affari e delle funzioni, e quello ancor più
sfrontato di corpose frange della intellettualità.
Aveva annotato Fiore: «Sono usciti quasi tutti i deputati
e gli esponenti attuali del fascismo locale, passati di punto in
bianco, fra il 23 e il 24, dal radicalismo al fascismo,
così come in altri tempi avevano tentato di passare al socialismo,
come uno a Carnevale si veste da cinese, per nullaltro che
per assicurare più larghi proventi alla loro attività
professionale, o per soddisfare ad una ambizione antica, sfrenata,
ridevole nella sua sproporzione col valore degli uomini. Fenomeno
di trasformismo comune in Italia, dove lunica cosa che esiste
è la propria persona, e a servizio di questa la famiglia,
la città e possibilmente lo Stato». Così chiosa
a riguardo Giuseppe Giacovazzo, nella presentazione del libro: «Facile
il parallelo con lesperienza dei nostri giorni, in una società
che vede sempre più dilatarsi il ceto borghese attraverso
listruzione e la crescita delle professioni. Basta osservare
che nellultima legislatura si sono registrate qualcosa come
centosettanta migrazioni di parlamentari di ogni versante
politico, che hanno lasciato i partiti di provenienza, con larga
percentuale di meridionali. E se molte cose sono mutate in Puglia
e nel Sud in tutti questi anni, almeno la genia dei voltagabbana
è rimasta prolifica e inalterata nel suo DNA».
Da salveminiano di antica data, Tommaso Fiore non ha mai separato,
pur nella distinzione, lesercizio della politica dallimperativo
delletica, che è lezione sempre valida e che perciò
legittima e giustifica una rilettura oggi di quelle Lettere pugliesi.
Di queste, poi, (ed è pregio riconosciuto dello scrittore
nel sociologo Fiore), è il correlativo letterario loriginalità
della sua prosa, che non si arena sulla freddezza dei dati ma dal
discorso si frange in squarci colloquiali con i suoi
destinatari reali (come Gobetti o Gangale o Dorso), o con i più,
del tutto immaginari, che sono i comuni lettori, che se ne lasciano
coinvolgere: una scrittura che non esita a cedere alla piena dei
sentimenti, ai fremiti dellindignazione, intervallati dalla
riflessione critica o dalla rievocazione pensosa di personalità
di grande rilievo del passato della regione o del Mezzogiorno in
generale: da Archita di Taranto a Giustino Fortunato, dal Capecelatro
a Francesco Nitti, ai Vallone, De Viti De Marco, Stampacchia, Rubichi,
De Giorgi: al poeta dialettale contadino Giuseppe De
Dominicis (più noto con lo pseudonimo di Capitano Black),
allanarchico tolstojano Cesare Teofilato, grande amico di
Fiore e della medesima cerchia culturale e politica sin dai tempi
de La Rivoluzione Liberale e Conscientia,
nonché autore di due monografie sui congeniali Giordano Bruno
e Giulio Cesare Vanini; che nella resa generale al regime, si ritira
in un suo campicello, con la moglie, pronto a reagire agli assalti
della teppaglia prezzolata, mentre si nutre dei frutti della terra
e del «latte di capra».
Indimenticato il suo verbo: «Mi basta la consolazione di non
aver mentito, ché luomo non vive di solo pane, ma anche
di coerenza, di decoro e di carattere»; congiuntamente alla
sentenza: «Per luomo osserva te stesso; per la natura
tuo padre». E non è leco prolungata, nella coscienza
dei giusti, del motto delfico nosce te ipsum?
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