Quelloccasione
storica
andò perduta,
e gli ottimistici
entusiasmi di Dorso e di Rossi Doria
furono destinati
ben presto
a naufragare.
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Un club di cervelli, il Partito dAzione, un gruppo di intellettuali
generosi e ricchi di idee, capaci di intuizioni profonde sullo sviluppo
della società italiana in regime democratico; oppure un esercito
con troppi generali e con pochi o nessun soldato; o ancora
come maliziosamente scrisse Guglielmo Giannini un insieme
di persone che «non sanno quel che vogliono, ma lo vogliono
subito»; o infine unélite incapace di procedere
seguendo percorsi comuni, divisa comera allinterno dal
gran numero di galli a cantare?
Tutto e il contrario di tutto è stato detto e scritto sullargomento,
sul Partito e sui suoi uomini, che si chiamavano Bobbio, Foa, Parri,
La Malfa, Galante Garrone, Salvemini, Dorso, Rossi Doria, De Martino:
come dire, il meglio dellintellettualità italiana del
dopoguerra. Alcuni anni fa, Ernesto Galli Della Loggia, in un polemico
saggio apparso su Il Mulino, provò a demolire
lazionismo, in modo particolare quello torinese, per respingerlo
nella sfera dellinattualità e relegarlo in un contesto
tombale. Ma pur nelle differenti valutazioni che si possono fornire
su una parabola politica durata poco più di tre anni
dalla fondazione, a fine 1942, allo scioglimento del 1946
una cosa è indiscutibile: i moventi, le inquietudini, le
contraddizioni, le analisi degli azionisti, e quello che potremmo
definire lo stile azionista, si pongono oggi come lanima
mai pienamente esplicitata della politica italiana, come lesperienza
mai pienamente compiuta, come loccasione di laicismo perduto
del dopoguerra e degli anni a venire.
Si ritiene che la vita politica italiana abbia perso molto, con
il fallimento di quellesperienza. «Eccome, se avevamo
un programma, e adesso servirebbe ancora!», fu il parere di
Leo Valiani, anni dopo. E un altro illustre esponente, Alessandro
Galante Garrone, segnalò come sentimento utile da recuperare
«il senso di vergogna per lItalia calpestata dalla retorica
dittatoriale, che fu levatrice della formazione nata da Giustizia
e Libertà».
Ma cè, allinterno della vicenda azionista, un
capitolo specifico utile da rileggere oggi come corollario di un
discorso sul Sud. E il capitolo su come la vicenda azionista
si sia misurata con i problemi del Mezzogiorno. E il capitolo
sul salveminismo come sua componente meridionale, e su Guido Dorso
e Manlio Rossi Doria, fra i protagonisti in Puglia, a Bari,
dal 3 al 5 dicembre 1944 di un incontro nel corso del quale
si discusse a lungo e in profondità sulla necessità
della nascita nel Paese di una nuova e pacificamente aggressiva
classe dirigente. Nelle rispettive relazioni, Rossi Doria e Dorso
elaborarono due aspetti complementari come le due facce di una medaglia
di ununica visione del Sud agricolo e dei suoi rapporti sociali
ed economici con il resto dItalia che avrebbe potuto favorire,
se praticata, la formazione di una moderna classe dirigente meridionale.
Il dibattito storiografico ha molto riflettuto su quelle elaborazioni,
e non è mancato chi ha elaborato critiche su unimpostazione
da mitologia agrarista, da vecchio meridionalismo,
che sarebbero state contenute in quellimpostazione. A nostro
avviso, invece, le due visioni di Rossi Doria e di Dorso, articolate
su lucidissime analisi dei rivolgimenti postbellici, coglievano
il senso di una grande occasione storica che si giocava in quegli
anni. Per Rossi Doria, loccasione era quella di smantellare
il vecchio blocco sociale che fondava il suo potere sullassetto
della proprietà terriera, e di avviare in tempi rapidi una
riforma agraria preceduta da un riassetto fondiario che smembrasse
il latifondo contadino. Non era una rivoluzione radicale e violenta
quel che Rossi Doria vedeva allorizzonte, e tantomeno una
politica ruralistica: alla vigilia della grande stagione
di lotte per loccupazione delle terre, quando la terra avrebbe
tremato per le rivolte dei contadini che ne reclamavano
il possesso, anche mettendosi contro una parte consistente della
Sinistra, il grande meridionalista già disegnava a Bari le
linee di una moderna razionalizzazione dellagricoltura che
avrebbe potuto far nascere una nuova classe di contadini-imprenditori.

Loccasione storica indicata da Guido Dorso era quella di
forgiare i «100 uomini di ferro» nel Sud agricolo in
una lotta contro laccentramento statale, e di favorire proprio
nel Mezzogiorno un nuovo ceto capace di neutralizzare il trasformismo
di stampo giolittiano. Il sogno era quello di veder formare proprio
al Sud una nuova borghesia umanistica che fosse in grado
di rompere ogni compromesso con gli agrari e con la borghesia terriera.
Quelloccasione storica, come si sa, andò perduta, e
gli ottimistici entusiasmi di Dorso e di Rossi Doria furono destinati
ben presto a naufragare. Resta però centrale, delle loro
analisi, lindicazione di quel compito prioritario di una nuova
classe dirigente, della quale non soltanto il Sud non più
agricolo, ma lintero Paese continua più che mai ad
avere bisogno. E ancora, resta viva lindicazione di lotta
contro blocchi sociali che continuamente si ricompongono nel segno
del solito antico trasformismo anti-meridionale, che sembra essere
costume politico tradizionalmente dominante nella vicenda politica
italiana.
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