Calvino riteneva che la propaganda di certi gruppi
settari
a favore del
comunismo
minacciasse di
sovvertire lordine
e di trasformare il mondo intero in una foresta di briganti.
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La prudenza, ossia la virtù di premunirsi contro pericoli
futuri, era estremamente attraente per un uomo ansioso come Calvino,
almeno quanto lo era per altri umanisti. Pur mettendo gli uomini
in guardia contro una fiducia eccessiva nella propria capacità
di prevedere il futuro, Calvino pensava che lignorarlo fosse
una sorta di sfida che Dio lanciava allabilità inventiva
degli esseri umani. Dio, diceva Calvino, ha «piacere di nasconderci
tutti gli avvenimenti futuri di modo che, nel considerarli incerti,
noi prepariamo dei rimedi contro di loro». Raccomandava «il
confronto con gli avvenimenti del passato» per insegnare la
prudenza. Cristo, come osserva Calvino, nella parabola delle vergini
savie e delle vergini folli aveva insegnato «a provvedersi
con cura delle cose necessarie a percorrere il cammino della vita».
Calvino minimizzava la tensione tra la prudenza e la fede: Dio «ci
guida sempre con lo spirito della prudenza».
Non cè dunque da sorprendersi che lidea di una
possibile interpretazione imprudente delle beatitudini disturbasse
Calvino; egli le commentò quindi con molta attenzione. Era
daccordo che non dobbiamo resistere al male, ma ciò
non significa che non dobbiamo sforzarci di allontanarlo da noi.
Porgere laltra guancia può forse soltanto suscitare
unira maggiore nel nostro nemico, perciò dovremmo tener
presente lintenzione di quella prescrizione, che è
di ridurre i conflitti. La pazienza che si manifesta nel cedere
il mantello a chi ci ha già portato via la tunica è
senzaltro lodevole, ma non impedisce di portare in tribunale
una causa vincente. Dobbiamo dare a chi chiede, ma non essere prodighi.
Dobbiamo prestare senza speranza di ricevere, ma ciò non
impedisce di esigere un interesse; lo scopo di quel comandamento
è semplicemente quello di stimolare la spontaneità
nel dare. Calvino interpretava nella stessa linea altri
comandamenti. «Vendi tutto ciò che hai» non va
«applicato alla lettera», e lesempio dei gigli
del campo non deve impedire qualsiasi previdenza, ma soltanto quella
che nasce dalla mancanza di fede. Il non giudicate si
applica solo ai giudizi ispirati da malanimo.

Calvino raccomandava diverse strategie prudenziali per sopravvivere
in un mondo malvagio. La diffidenza nei riguardi del prossimo gli
pareva inevitabile. «Ci sono modi di fare delle differenze
tra le persone», raccomandava, «che sarebbe follia trascurare»,
e «Dio ci permette di stare in guardia dinanzi a sconosciuti».
Sapeva bene che i cristiani si trovano talvolta in situazioni in
cui è necessario usare sistemi normalmente proibiti, e non
esitava a raccomandare di farlo.
Concedeva pure che le emergenze possono giustificare ladozione
di misure straordinarie. Probabilmente turbato dalle sue proprie
affermazioni, Calvino avanzò una sorta di raison déglise
per difendere la predicazione illegale degli apostoli: «In
periodi di disordine è necessario tentare molte cose che
sono contrarie alle abitudini stabilite, specialmente quando si
tratta di difendere la religione e ladorazione di Dio».
«La nostra vocazione», notava, «non si limita
sempre ai doveri ordinari, perché talvolta Dio impone ai
suoi servitori dei ruoli nuovi e insoliti».
Nonostante lattaccamento allinteriorità, Calvino
era in pari tempo assai sensibile alle apparenze. «Un vestito
sporco e rotto disonora una persona, mentre uno pulito e decoroso
le guadagna molto favore». Parlava talvolta come un Baldassar
Castiglione di classe media: «Come i vestiti che un uomo indossa,
o la sua carrozza e i suoi gesti possono rovinare e talvolta migliorare
limpressione che egli produce, così il decorum adorna
tutte le sue azioni». La sua preoccupazione per la pubblica
decenza si esprimeva pure nel rifiuto di credere che Isaia fosse
andato in giro letteralmente nudo per ordine del Signore. «Non
bisogna pensare», ammoniva, «che il profeta si sia mostrato
senza coprire quelle parti che sono considerate disonorevoli».
La rilevanza della reputazione per la vita sociale la rendeva persino
più importante dellapparenza.
«Un cristiano», esortava, «dovrebbe sempre occuparsi
di organizzare la sua vita per ledificazione del suo prossimo».
Ma non era insensibile ai vantaggi mondani della buona reputazione.
Quando è cattiva, si hanno «difficoltà nellottenere
ciò che si vorrebbe dal prossimo»; e si può
anche far lesperienza di «rinvii e rimproveri da varie
parti».
Nelle riflessioni sulla società, il passaggio di Calvino
da un idealismo cosmico a una visione pragmatica si nota specialmente
nel suo atteggiamento verso la gerarchia. Non la rifiutò:
riteneva che la gerarchia fosse utile a certi scopi e a determinate
condizioni. Attribuiva a Dio il fatto che alcuni fossero elevati
al rango di «principi, aristocratici, nobili e tutti i gradi
dei magistrati e dirigenti», poiché «è
necessario che vi sia un certo ordine tra noi». Ma non vedeva
nella gerarchia una manifestazione dellOrdine in quanto tale:
era semplicemente uno dei modi possibili di organizzazione sociale.
Appartiene soltanto alla police extérieure. Ma dinanzi a
Dio, e in linea di principio, tutti gli esseri umani sono uguali.
Spiritualmente «non cè distinzione tra uomo e
donna, servo o padrone, povero e ricco, grande e piccolo».
Pur essendo disposto ad accettare per motivi pratici le differenze
sociali esistenti, non ne era necessariamente un ammiratore. Aborriva
la schiavitù e si rallegrava che fosse sparita da tutta Europa,
eccetto la Spagna, dove ne attribuiva la sopravvivenza allinfluenza
dei barbari africani e turchi. E meglio salariare dei servi
che possedere degli schiavi. Tuttavia, poiché i patriarchi
dellAntico Testamento lavevano praticata e gli apostoli
lavevano tollerata, Calvino non poté condannarla in
via assoluta.
«Onori, ricchezza e classe sociale», osserva, «si
accompagnano quasi sempre allorgoglio, perciò è
difficile domare con unumiltà volontaria coloro che
sono pieni darroganza e quasi incapaci di riconoscere che
sono uomini anchessi». Notava inoltre che i grandi uomini,
coloro la cui ascesa era stata originariamente motivata dal loro
coraggio e dalla loro iniziativa, una volta giunti al sommo tendevano
a perdere quelle virtù a causa dellambizione «della
quale nulla è più servile». Gli onori terreni,
pensava, legano gli uomini «come catene doro, che impediscono
loro di compiere il loro dovere». Un personaggio importante
«se è saggio guarderà con sospetto la sua propria
grandezza, per evitare che essa diventi un ostacolo per lui».
Calvino se la prendeva pure con altri vizi dei grandi, tra i quali
annoverava la furia di andare a caccia, che a lui sembrava insensata
e distruttiva. «Quando un cacciatore insegue la preda, spende
molte più energie che un operaio o un contadino. Vediamo
che persino i re e i grandi personaggi di corte quando vanno a caccia
ne sono talmente accecati che non vedono i pericoli né sentono
la stanchezza». Lo spreco da parte dei grandi, tanto più
riprovevole quanto più cospicuo, lo offendeva profondamente.
Il suo atteggiamento riservato nei riguardi delle differenze sociali
si riflette nel rispetto con cui trattava le cosiddette arti
meccaniche; le lodava, assieme alle arti liberali, come doni
di Dio che mostrano «lacutezza della mente umana».
«Tutti i tipi di artigiani, che suppliscono ai bisogni della
gente», proclamava, «sono ministri di Dio e hanno lo
stesso scopo degli altri ministri, ossia la conservazione della
razza umana». Dio solo è il loro «autore e maestro».
Talvolta, forse per svergognare le classi superiori, Calvino diceva
che i poveri e gli umili sono più ricchi dei grandi, moralmente
e sotto altri profili. «Quasi in ogni tempo», diceva,
«il popolo comune, per quanto trascinato dalla sua selvatichezza
e ignoranza, è meno irreligioso che i nobili e i cortigiani,
o altri individui astuti che pensano di superare tutti per talento
e furbizia». Calvino affermava di credere che i poveri e gli
umili fossero probabilmente più felici dei ricchi. Sono «liberi
dallinvidia, da tumulti e contese». Ricavano altrettanto
piacere dal loro umile modo di vita: «I contadini e gli artigiani
apprezzano la carne di porco e di bue, il formaggio e la quagliata,
le cipolle e i cavoli non meno di quanto i ricchi godano dei loro
sontuosi banchetti». I discepoli di Cristo «non avevano
grandi ricchezze, ma vivevano a casa loro, del lavoro delle loro
mani, non meno felicemente di quanto facciano i più ricchi
tra gli uomini». Tra gli umili i vincoli familiari sono più
stretti. «Gli uomini di classe subalterna», pensava,
«abituati a un genere di vita più tranquillo e modesto,
soffrono di più quando devono separarsi dalla moglie e i
figli, che non coloro che sono sospinti dallambizione o quelli
che le grandi ricchezze trascinano di qua e di là».
Sono anche più amichevoli e ospitali: «un invito da
parte di un povero è più diretto e franco»,
perché i poveri «non temono il disonore se non possono
ricevere splendidamente i loro ospiti, in quanto sono più
vicini allantica abitudine di rapporti reciproci». Alcuni
di questi sentimenti fanno pensare che Calvino conoscesse meglio
i libri, specialmente quelli di ispirazione stoica, che non la realtà
della vita delle classi subalterne.
Calvino accennava pure alla maggiore santità degli umili,
alla più grande probabilità che fossero contati tra
gli eletti, e alle incerte prospettive di salvezza per i grandi
e i potenti. «La ricchezza di per sé non ci impedisce
di seguire Iddio», osservava, «ma la natura umana è
talmente depravata che è quasi certo che coloro che se la
passano bene saranno soffocati dalle loro ricchezze». Cristo
aveva inizialmente «riunito attorno a sé una chiesa
formata da gente comune». A differenza degli apologeti della
Controriforma, che sottolineavano la discendenza di Cristo dal re
Davide, Calvino insisteva sulle sue umili origini. Sosteneva che
«Dio, facendo apparire il suo Figlio sotto le misere spoglie
di un mendicante, gli ha conferito un ornamento migliore che se
lo avesse fatto rifulgere di tutte le insegne dei re». Dava
rilievo al fatto che Cristo, fin dallinfanzia, era stato un
lavoratore. Riteneva persino che Cristo fosse un analfabeta.
Il suo senso pratico si manifestava pure nella sua consapevolezza
delle realtà di una società urbana e di uneconomia
mercantile. Si rendeva conto che «oggi sarebbe impossibile
rovinare Venezia o Anversa senza che ne derivasse un gran danno
a molte nazioni». Al pari di altri umanisti, Calvino difendeva
la ricchezza. Dichiarava che «i beni di per sé e per
la loro natura non sono affatto da condannare; anzi, è una
bestemmia contro Dio disapprovare la ricchezza, come se un uomo
che la possiede debba essere totalmente corrotto. Infatti, donde
vengono le ricchezze, se non da Dio?». Sosteneva poi che le
disuguaglianze materiali fossero inevitabili e non necessariamente
indesiderabili. Dopo tutto, la «variabile mescolanza di ricchi
e poveri» è determinata dalla Provvidenza. Non è
ingiusto che i poveri mangino «pane ordinario e una dieta
ridotta», mentre i ricchi si nutrono «più abbondantemente,
secondo le loro possibilità», purché lo facciano
«con temperanza, senza dimenticare gli altri», e avendo
cura dei poveri.
Di conseguenza, Calvino rifiutava linterpretazione letterale
del consiglio che Cristo aveva dato al giovane ricco di vendere
tutto ciò che aveva per darlo ai poveri. Riteneva che in
questa materia occorresse usare buon senso. Cristo aveva inteso
semplicemente obbligare il giovane ricco a riconoscere il suo «vizio
nascosto». «Un contadino che debba vivere del proprio
lavoro e mantenere la famiglia peccherebbe se vendesse la sua piccola
fattoria, salvo che ne fosse obbligato», pensava Calvino,
e aggiungeva: «Conservare ciò che Dio ha posto nelle
nostre mani è cosa più virtuosa che distruggere tutto,
purché manteniamo la nostra famiglia con semplicità
e diamo qualche cosa ai poveri». Calvino si opponeva decisamente
allidea di «svaligiare i ricchi» per «trattare
umanamente i poveri». Questo atteggiamento influì sulla
sua interpretazione della parabola del ricco e di Lazzaro. Secondo
lui, essa non andava intesa come una critica della ricchezza in
quanto tale, poiché termina dicendo che Lazzaro è
accolto nel seno di Abramo, che era un uomo ricco. Linsegnamento
da trarne è che «Dio, nella sua grazia e infinita bontà,
chiama ugualmente ricchi e poveri alla salvezza». Il cielo
è aperto «a tutti coloro che hanno usato della loro
ricchezza correttamente o che hanno sopportato la povertà
con pazienza». Dio «nel renderci parte del corpo del
suo Figlio ci fa nuovamente signori del mondo, perciò possiamo
legittimamente godere come di cose nostre di tutto ciò che
Egli ci dà così abbondantemente».
Calvino riteneva che la proprietà privata fosse essenziale
per lordine sociale: «La conservazione della società
umana esige che ciascuno possieda ciò che è suo: che
gli uni si procurino dei beni comprandoli, altri li ottengano per
diritto ereditario, altri per donazione, e che ciascuno accresca
i propri mezzi con lintelligenza, la forza fisica o con altri
talenti. In una parola, lordine politico esige che ciascuno
conservi ciò che è suo». Calvino riteneva che
la propaganda di certi gruppi settari a favore del comunismo minacciasse
di «sovvertire lordine» e di «trasformare
il mondo intero in una foresta di briganti in cui, senza contare
e senza pagare, ciascuno piglia per sé ciò che può
afferrare». Pensava che la Scrittura fosse così evidentemente
contraria al comunismo, «che nessuno lo può ignorare».
Negava che la Chiesa apostolica lo avesse praticato.
Calvino considerava il denaro come cosa ovvia, «in quanto
strumento di comunicazione reciproca tra le persone, usato specialmente
per comprare e vendere delle mercanzie». Pur con qualche riserva,
aveva una buona opinione del commercio, spingendosi fino a difendere
Giuseppe che aveva preso le greggi e le terre degli Egiziani impoveriti
in cambio del grano del faraone. «Nessuno», diceva,
«si separa liberamente da ciò che possiede».
Riteneva che il commercio marittimo, nonostante i suoi abusi, fosse
«di non poca utilità per gli uomini. La mentalità
commerciale del suo secolo si rispecchia vivacemente nella metafora
economica che egli usa per caratterizzare la vita dei santi. «Coloro
che spendono utilmente ciò che Dio ha depositato presso di
loro, si dice che fanno commercio. Si può effettivamente
paragonare la vita dei fedeli a un commercio, infatti essi dovrebbero
trattarsi reciprocamente in modo da conservare la loro associazione;
e labilità con cui ciascuno esegue il dovere che gli
è imposto e segue la sua vocazione, la capacità di
fare ciò che è giusto, e gli altri suoi doni, sono
considerati come mercanzie, poiché il loro scopo e il loro
uso consiste nel facilitare lintercomunicazione tra persone».
Calvino lodava i mercanti come persone che servono la comunità
civile: essi «non solo lavorano duramente, ma si espongono
a molti disagi e pericoli».
Pertanto, capiva il valore delle convenzioni formali che facilitano
le transazioni commerciali: tra queste, in primo luogo, luso
di contratti precisi e affidabili, tanto importanti per ridurre
le ansietà di chi si mette in affari. E poi gli interessi.
Calvino si diede da fare per separare lingiunzione di Cristo
di «prestare senza aspettarsi niente in cambio» dal
normale prestito commerciale. Controbatté lopinione
convenzionale secondo cui «ogni forma di usura va condannata
senza eccezione»: sosteneva che, trattandosi di ricchi, «lusura
è permessa liberamente». Il suo atteggiamento al riguardo
è però permeato di una certa dose di ripugnanza: «Vanno
condannate come ingiuste soltanto quelle esazioni in cui il creditore,
perdendo di vista lequità, schiaccia e opprime il debitore.
Senza dubbio non vorrei patrocinare lusura, anzi vorrei che
il nome stesso venisse bandito dal mondo; ma su un punto di tale
importanza non oso dire più di ciò che le parole di
Dio ci fanno sapere. E chiarissimo che agli antichi era proibita
lusura, ma dobbiamo riconoscere che ciò faceva parte
della loro costituzione politica. Ne consegue che oggi lusura
non è illegale, purché non contravvenga allequità
e alla fraternità».
Lambivalenza e lincoerenza di Calvino in questioni sociali
ed economiche derivavano in parte dal suo sforzo, in questo come
in altri casi, di rimanere in equilibrio tra due estremi. Voleva
evitare sia di approvare che di condannare i prestiti a interesse.
Non poteva dire che le ricchezze non rappresentano un pericolo per
la vita cristiana, ma voleva in pari tempo dissociarsi da coloro
che ritenevano che la povertà fosse di per sé una
virtù.
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