Esiste in Suppressa
memorialista di se stesso la riscoperta del leccese universo delle
sue prime età come risolutiva
fatalità di vita
e di arte.
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Lecce, piccola patria nativa e storico-culturale, mai finita di
essere immaginata e appropriata nella pittura di Suppressa, è
anche argomento privilegiato delle sue brevi prose autobiografiche.
Esemplari di questo estemporaneo artigianato della parola-pittura
(non raro nel Novecento: De Chirico, De Pisis, Scipione, Scialoja,
Mafai, ...), fra altri affini sparsamente pubblicati, i testi allestiti
per LAlbero, Lecce vecchia (52, 1974, pp. 114-127)
e Un pittore e la sua città (60, 1978, pp. 119-140).
Essi rinviano a circa tre decenni della storia artistica di Suppressa,
per richiami topografico-ambientali (vie, piazze, chiese, labirintici
habitat arabizzanti), socio-antropici (figure femminili, contadini,
carrettieri, artigiani, bottegai, bettolieri), veteromeridionali
illustri e stravolti (arcaico-mitologici, svevi, aragonesi, spagnoli,
borbonici), e per sperimentazioni del realismo espressionistico
degli anni Cinquanta (Carro, cavallo e carrettiere, 1952; Sartoria,
1955; Ragazze alla finestra, 1956; Giocatori di carte, 1957; Conversazione
sulla strada, 1960; ...), e dellastrattismo visionario e simbolico
degli anni Sessanta e Settanta (Cronaca a teatro, 1961-1965; Il
tavolo del prestigiatore, 1971; Cabinet de la mer, 1974; ... e puri
arabeschi di enigmatica allusività e di affascinata ironia:
In ricordo di Carlo V, 1963; Federico II e Costanza imperatrice,
1964; Personaggi aragonesi, 1965; Il commiato del Crociato, 1967;
Il Normanno, 1970; Oculata toletta di Costanza imperatrice, 1973;
...). Comprese, in questi ultimi e raffinati esercizi, le prime
invenzioni plastico-cromatiche su detriti lignei o polimaterici
(tecniche contemporaneamente praticate, per fare qualche noto esempio,
da uno sperimentatore visivo come Bruno Munari e dal neoespressionista
olandese Karel Appel), nelle quali si accentua lestraniamento,
già realizzato su tela, delle attrazioni storiche, e si esprimono,
con rinnovata intenzionalità ludico-totemica, nuove accessioni
cultistiche (Hidalgo (omaggio a Vittorio Bodini), 1975; Profeta,
1977; Scipione Ammirato stimmatizza la licenza dei costumi, 1978;
...).
Esiste in Suppressa memorialista di se stesso la riscoperta del
leccese universo delle sue prime età come risolutiva fatalità
di vita e di arte; condizione renitente a diaspore comune a non
pochi intellettuali salentini, specialmente a poeti e ad artisti.
Di questa Lecce, per ciò, egli dà lunica rivelazione
in prosa a lui connaturale e possibile, che è quella mitico-autobiografica,
rispecchiante invenzioni e stili della sua pittura. Fondamentale
esperienza, riscontrabile, per quanto differenziata, sia nel versante
pittorico nazionale (Campigli, Guttuso, Santomaso, Levi, Sironi,
Birolli...), pugliese-barese (Cantatore, De Robertis, R. Spizzico...)
e pugliese-salentino (Ciardo, Re, Della Notte, Mandorino...), sia
in quello letterario, del quale, solo che si tenga conto della contiguità
geoculturale di Puglia e Lucania, vanno sottolineate specialmente
la poesia in lingua di L. Sinisgalli, R. Scotellaro, V. Fiore, V.
Bodini, e quella in dialetto, con significative omonimie-sinonimie
di titoli, di A. Pierro (A terra du ricorde, 1960),
P. Gatti (A terra meje, 1976), N. G. De Donno (Paese, 1979).
Lecce vecchia è un rifacimento, in quattro paragrafi,
di Geografia della mia città (Basilicata, 1-2,
1969, pp. 55-60). Il passaggio dalla prima alla seconda redazione
è regolato principalmente da incrementi testuali e da generale
rielaborazione visivo-pittorica.
Il primo paragrafo (pp. 114-116) riguarda un itinerario da Porta
Napoli ad interni urbani arcaico-popolari, con una galleria di scenari
e di figure di un estroso visualismo naturalistico-analogico. Così
nei seguenti esempi, riguardino il divertissement di defiguranti
accostamenti architettonici («Da fuori lArco a Carlo
V cè unaltrettanto monumentale vespasiana in
lamiera, di un raffinato liberty, posta sotto lombroso ombrello
di un gigantesco leccio che la ristora con la sua ombra. La vespasiana
mi appare pur essa un castello, e ben più aulico dellomaggio
al grande Imperatore, con quel suo gioco di quinte a difesa della
decenza»), o analogie cromatico-luministiche («Oggi
poi, lavate le strade come sono di fresco, hanno colori brillanti,
e i vecchi monumenti danno al biondo come il grano maturo. E
la Città, così ondulata nella sua linea architettonica,
una messe matura»), e luministico-astratte in funzione compositiva
dellintero quadro («Vedo che il tratto dal largo alla
drogheria è deserto. Ma da quanti anni lo vedo sciabolato
da quella luce? Sono sempre quelle lame iridescenti, luminose, che
si scambiano gli ampi finestroni dei palazzi patrizi con la cupola
maiolicata della chiesa, e anche con le più modeste facciate
delle case [...]»).
Stessi incanti ad occhi aperti in spazi integrati di figure, fra
deserto e silenzio metafisici e quasi ossessivi, mediatore sommo,
e ricorrente, De Chirico (esplicitamente anche in Un pittore e la
sua città, cit., p. 32: «La ferrovia diveniva deserta
e senza voci, con una mestizia metafisica, da mistero dellora»):
Ogni tanto passa una carrozzella, e le
ruote cerchiate di ferro e gli zoccoli del cavallo fanno sentire
tutta la loro purezza metallica, che consegnano al selciato
con scintille di fuoco.
Quando cè silenzio pieno, ecco lì un ciclista,
che si staglia sullo sfondo del convitto italo-albanese, che
pedala senza avanzare di un palmo. Da quanto tempo pedala non
lo so proprio, ma deve essere da parecchio e senza mai lasciare
quel posto. Vorrei dargli una mano, farlo partire per togliermi
come un peso dallo stomaco, ma ormai non vedo alcuna via duscita. |
E notazioni ludico-illusionistiche distinguono folclorici tipi
eterni della memoria immutabile. Oltre al ciclista, aristotelica
macchietta di motore immobile, glimbianchini, calcinate immagini
dionisiache dai plastici scorci tipizzati («E meno male che
a distrarmi appaiono due ridenti imbianchini, inzaccherati di coriandoli
bianchi, che si asciugano le bocche col dorso della mano alluscita
dalla mescita»), il droghiere, tautologica marionetta zoomorfa
(«Ma ecco la drogheria con il droghiere sulla soglia, che
si stropiccia, come usa fare, le mani, allunga il collo di qua e
di là dalla strada, aggiustandosi il fuoco delle lenti a
pince-nez, e poi rientra per riaffacciarsi ancora allo stesso modo.
Quando faccio per entrare, si gira e si porta dietro il banco di
vendita; mi sembra un corvo con quel suo camice lungo, nero e lucido»),
con le sue colorate delizie dentro trasparenti vetri, che la memoria
dellautore artista riporta ad un visionarismo naïf («toglie
il coperchio da un vaso di vetro, prende le due margherite e me
le porge. Io resto col palmo della mano aperto, e guardo le sferette
di cacao perlinate di bianco, che si dilatano e diventano un prato
di terra marrone con tanti fiori bianchi. Alzo gli occhi verso il
droghiere, nel caso anche lui abbia visto il prato»).

Questa serie episodico-ritrattistica è conclusa dal grande
grottesco della processione funebre per la morte del Carnevale,
locale «pupazzo, bianco di farina, più morto di un
morto», variante del più diffuso topos folclorico della
«maschera mortuaria» e dello «spirito inferico
e ctonio»4, con dispersione finale di suoni e colori in ultraleccesi
labirinti viari dantica storia, e ad un estremo dinformale
tensione rappresentativa:
Dal fondo della via avanza una macchia
nera, luttuosa, accompagnata da un suono di tamburelli e grida
dolorose, che la sfilacciano e la ricompongono come fosse la
tela di Penelope. Io gelo, sto fermo, chiudo gli occhi perché
ho paura di guardare. Aspetto che arrivi da me e mi sorpassi.
E un tempo incalcolabile, e quando socchiudo gli occhi
il volto del pupazzo, bianco di farina, più morto di
un morto, mi guarda con un sogghigno satanico; è composto
sul carretto tirato a mano e inghirlandato e cosparso di scarti
di verdura; lo accompagnano nenie funebri che vorrebbero essere
comiche e non lo sono. E Carnevale, morto, che percorre
le strette vie dalla toponomastica suggestiva, mitica, colorata,
superstiziosa, favolosa: Idomeneo, Alcantarine, Re Tancredi,
Protonobilissimi, Sinagoga, Mondo Nuovo... |
Nel secondo paragrafo (pp. 116-120) prevalgono interni domestici
con trasfigurate elaborazioni episodiche e concertata attenzione
a totalità ambientali, a spazi e figure di vissuta quotidianità.
Qui il flusso di memoria tende al richiamo di un nascente erotismo,
di prime sensazioni visive-seduttive della bellezza femminile. Per
liberarsi dalla paura della funebre processione carnevalesca, si
trova, il fanciullo, nella vicina casa delle signorine;
una di esse lo aveva tirato su da una finestra a piano rialzato;
gliene resta come una malia di corpo profumato e di visione di nudo;
questultima, forse non immotivatamente, contrappuntata da
un rovescio visivo:
[...] mi tese le braccia,
io le presi le mani e lei mi tirò a sè e sollevandomi
mi depose dentro casa. Un volo breve, che avrei voluto non avesse
fine, perché, oltretutto, la giovane donna aveva smosso
un delicato profumo di tuberosa che si portava addosso.
[...] due cose mi distraevano al momento, in un tempo breve
e ricorrente, ed erano le immagini del rosa del seno che le
avevo scorto nellattimo del sorvolo e il teschio con le
scritte, le cui lettere sembravano bastoni minacciosi, fatte
col catrame sotto la finestra che, come ho già detto,
era ad altezza duomo. |
Lattrazione per questa «ragazza [...] bella e profumata»
è poi replicata nellapparizione dell«altra
altrettanto bella, con occhi lucenti e neri, con capelli a casco,
che da un lato del viso disegnavano un pezzo di falce», obliterata
la secondaria sensazione olfattiva, e ricostituita, nelle offerte
memorialistiche, la primaria attenzione visiva (si avverta linconscio
metalinguistico «disegnavano») con assai intensi modi
cromatico-lineari, ripresi ancora non senza suggestioni fin
de siècle alla Toulouse-Lautrec, e dei primi del Novecento,
picassiane (La toilette, 1906) nella terza e ultima figura
femminile, analogico compendio colto della pierrottiana maschera
lunare, in malato eccesso di bianco e nero:
Una delle ragazze, non la mia protettrice,
si calca il cappellino a cloche, sincipria di bianco,
che la raffigura a Pierrot malato, mettendo in risalto gli occhioni
vellutati e bistrati, si ritocca le labbra col rossetto, si
tira la calza, incurante di me che la osservo e fisso lo sguardo
sul pezzuolo di carne rosa, nuda, che appare sopra la giarrettiera. |
In armonia con questa indugiante ritrattistica femminile
accanto alla «vecchia grossa, pesante, masso di carne con
in grembo un gatto enorme, castrato perché non desse scandalo
in quel gineceo», come in un incupito materico-fulgente espressionismo
scipioniano («Le figlie febbrili, belle, tanto belle che di
simili, per quanto ebbi a girare il mondo, non ne vidi altre»),
con surrettizi echi enfatici di melodrammismo pucciniano (Manon
Lescaut, 1893, libretto di D. Oliva, L. Illica e M. Praga, atto
I, arie di Des Grieux: Tra voi belle e Donna non
vidi mai) sono ripresi glinterni domestici, i
quali, da uniniziale serialità finesecolare e crepuscolare,
trascorrono a divagazioni di meraviglie e miracoli; precisamente,
loriginario oggettualismo arredativo e decorativo è
commutato in animistico scherzo: un atteggiamento edonistico-defigurativo,
che si ritrova in Suppressa astratto pittore di aulici personaggi
storici:
E trovavo tutto bello, animato, mosso:
luccello dal becco lungo, che fioriva su due steli unghiati
da una colonnina di gesso; il donnone con le torri in testa
per corona, sotto il riflesso del vetro, veniva avanti e si
ritraeva, reggendo una accartocciata bandiera mentre posava
i piedi su un mansueto ma folto crinato leone, tenuto come scendiletto;
i quadri alle pareti, inclinati in avanti, sinchinavano
di più quando mostravo maggiore interesse nel guardarli,
come quello col pagliaccio che brandiva alto un coltello e teneva
la bocca spalancata; e con codesto personaggio di quadri ve
ne erano altri, che certamente raccontavano una stessa storia
[quella, ovviamente, di Pagliacci di R. Leoncavallo, 1892].
Cera pure una grossa campànula di metallo posta
su una cassetta, che aveva un disco girevole e che avrebbe potuto
risucchiare tutto come una pianta carnivora gigantesca. |
Altri spettacoli, al filtro di una memoria gratificata di deformate
meraviglie: in prospettive aeree dabbagliante cromatismo («il
cielo verde della sera», «i palpabili tramonti di sangue»),
la facciata delle Alcantarine, con la «croce in ferro, sbilenca»
in cima alla chiesa, e il sottostante bassorilievo della Veronica,
che nelle giornate di nuvolo «diveniva panno vero, grosso
e rosso con nel mezzo la pallida immagine»; il monello beffarda
maschera-mostro («un piccolo pugno batteva al vetro della
finestra e un volto coetaneo sgangherato, con le pieghe agli angoli
della bocca spalancata a un sorriso seghettato dalla mancanza di
qualche dente, mi mostrava una lingua paonazza, lunga da coprirgli
il mento»); il comico-ieratico vecchio erogatore dacqua
dacquedotto; lortolano «strabico e di pelo bianco
repellente», che «destate vende ghiaccio e grattate
colorate con sciroppi dai colori meravigliosi, dal turchese al rubino,
al bianco, al verde», ma che è sempre disponibile per
altri servizi («Indossa una livrea di cocchiere, nera con
i bottoni doro e in testa un gibus e monta a cassetta del
carro funebre»).

Il terzo paragrafo è quello centrale di Lecce vecchia (pp.
120-122). Un singolare tempo destate si coniuga con lo spazio
cittadino familiare allartista che vi abitava, nei pressi
dellArco di Carlo V, e non lontano dallaprirsi di campestri
umori e fragranze. Ma è un guardarvi insolito, che esclude
le tipizzazioni figurative dellestate infocata e arsa di un
Sud uguale ad ogni Sud, e si concentra in un tempo diluviano e in
unacquatica Lecce semisommersa. Il mistero di questa apparizione
della città è inspiegabile allo stesso autore, il
quale rifugge da freudiane analisi, compreso dellimmotivazione,
nonché di simile occorrenza, di visioni e sensazioni primarie
della vita. Sicché conveniente pare solo osservare come questo
rivivente fenomenismo naturalistico si complichi, per gemmazione
spontanea, di analogie storico-fantastiche del paesaggio urbano,
e come uno scenario di natura, oggettivo e circostanziale, si dispieghi
correlativamente ad un altro di colta memoria, e sublime, della
città («i segni dellantica civiltà»):
La vecchia Città si profumava
di campagna, e mille campi sembravano mietuti di fresco tra
le sue mura. Aveva solo occhi rivolti al cielo, e spazzini (pochi)
che spingevano i ponti in mezzo alle vie più centrali.
Erano i ponti delle passerelle di ghisa su piccole ruote, che
spinte facevano un rumore terrificante come colubrine, del Grande
Imperatore Carlo Quinto qui celebrato, che sparassero. Esse
consentivano il passaggio da un lato allaltro della strada
divenuta impraticabile. Avevano il passamano e il fondo zigrinato
per non renderlo sdrucciolevole; nel mezzo del passamano anche
unasta per accendere il fanale rosso se accadeva di sera.
E questo avvicinava nel ricordo lontano il traffico che la Città
aveva intrattenuto con la Serenissima, che si era degnata lasciarci
come disperato pegno damore la via San Marco.
E nel pianto della pioggia che la ritrovavamo. Con la
fronte dietro i vetri della finestra noi vedevamo questa tomba
dacqua far affiorare i segni dellantica civiltà.
Il cielo continuava a farsi sciabolare dalla tempesta, e i vascelli
di Lepanto correvano in alto, ma, nelle schiarite, ragazzi scalzi
uscivano fulminei dai bassi e pestavano pozze dacqua. |
La vecchia città, che «aveva solo occhi rivolti al
cielo», come se lassù fosse culminata la sua storia
(«e i vascelli di Lepanto correvano in alto»: la battaglia
di Lepanto del 1571 segna il trionfo dei Cristiani sui Turchi, simbolizzato
nella facciata di Santa Croce), è qui rappresentata in chagalliana
composizione fabulatoria di natura e storia e mito, il cui assoluto
figurale è nellinseparabilità concreta e stratificata
di questi elementi compositivi. La prosa di Suppressa si dà
sempre come un notes di pittura, che è pittura di un leccese
tuttuno, storico e geografico, e sempre scontati reinventivi automatismi
di memoria. La pioggia, schermo deformativo dello sguardo fisico
e visiva astrazione, ha ancora altro esito espressivo: vista non
più da «dietro i vetri della finestra», ma dalla
terrazza, suggerisce artifici di bibliche vedute, un diorama diluviano
della città, prefigurazione di una sua reale dispersione
e cancellazione:
Da lassù gli si spiegò
un paese sconosciuto. La cupola maiolicata di san Luigi sembrava
a portata di mano, e grande come una mongolfiera colorata sospesa
a metà, in sosta non permessa. Pensò a un mezzo
pianeta che si liquefacesse nelliride della maiolica,
sostenuto da un cordone di terrazze da costa africana; laltra
chiesa, proprio di fronte, e le case che aveva accanto crollavano
assieme al cielo, infracidite. Infracidite erano le quinte tenute
nel cortile del teatro Paisiello, e annerivano le statue di
cartapesta.
Era uno spettacolo nuovo, incredibile finanche. |
E questo uno dei momenti di maggiore astrazione figurativa
del paesaggismo urbano di Suppressa, riflesso di unideologia
negativa delle cose della storia, geometria vuota e bianca intorno
a superstiti immagini annerite del passato, che contraddistingue
la sua pittura di evocazione storica; se non proprio ricorrenza
di quei levigatissimi fossili e legni deposti a riva dal mare, ricercati
dallartista per attingervi o ridestarvi estremi segni umani.
Si alternano, inoltre, allantico confine di Porta Napoli,
tra città e campagna, fantastiche rappresentazioni del passato
e del presente. Procedimenti analogici collegano, dentro il recinto
della lapide ai Caduti di Dogali, unagave macabra e decomposti
oggetti di rifiuto con massacri e morti di italiani in Africa; e
la vista storicamente affascinata e divertita intravede
nei bassorilievi dellobelisco a Ferdinando I di Borbone fasti
e trionfi dancien régime:
bandiere con aste dorate, pennacchi,
nappe di velluto, fastose fanfare, ricche uniformi dai complicati
alamari, cavalli con le criniere sciolte e i denti scoperti
dal morso... |
mentre le figure del carrettiere e dei caprai rievocano natura
e vita primordiali, in «simbiosi perfetta» con spazi
e tempi della «nobile Città». In ogni caso è
attiva una prima lingua dinvenzione pittorica, così
nelloggettualismo caotico e policromo del costume storico,
come nel vitalismo espressionistico della figura del carrettiere,
tipica del Suppressa pittore:
Passò invece ben vivo un carro
dalle ruote enormi tirato da un superbo cavallo, con su ritto
il carrettiere, gonfio di vino per vincere la pioggia, che cantava
a voce spiegata una canzone oscena, presa a prestito da un aedo
popolare assai noto, e che diceva della donna che quando invecchia
perde ogni virtù, che i peli le si arricciano sul ventre,
e la chitarra non le suona più. Un canto, per i tempi
che correvano, ben più vistoso di un vessillo sovversivo,
provocatorio, una sfida che usciva da un corpo stracarico di
energia, che sconfiggeva i putridi umori suoi e altrui.
Con lacqua i caprai avrebbero ritardato il loro giro per
la vecchia Città. Passavano col loro gregge due volte
al giorno, mattino e pomeriggio e sannunziavano col suono
di un campanaccio legato al collo della capra capinfila. Il
latte era schiumoso nei recipienti quando veniva tirato dalle
mammelle con abili mani. |
(1 - continua)
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