La vicenda umana
e intellettuale, per più aspetti esemplare, del fasanese Ignazio
Ciaia (1766-1799) ci riporta al secondo cinquantennio del secolo dei
Lumi, che nel Mezzogiorno d'Italia coincide con il movimento riformatore,
avviato, sul piano metodologico, nel 1753, dal Discorso del vero fine
delle lettere e delle scienze di Antonio Genovesi; riportiamone un
passo tra i più salienti: "Non può dirsi che la
ragione sia, in una nazione, giunta alla sua maturità, dove
ella risiede ancor più nell'astratto intelletto che nel cuore
e nelle mani [...]; dove ella non è operativa [...] può,
se volete, adornar gli uomini ma non esser loro utile [...], e non
è utile se non quando è divenuta pratica e realtà;
né ella diviene tale se non quando tutta si è così
diffusa nel costume e nelle arti che noi la adoperiamo come nostra
sovrana regola, quasi senza accorgersene" (1). L'anno dopo, 1754,
alle enunciazioni di metodo seguivano, dalla cattedra di economia
civile, la prima in Italia, le luminose lezioni che gettavano le basi
di un sistema di idee, che avrebbe rappresentato subito il nucleo
fondante del processo riformatore. Nacque una "scuola del Genovesi",
cui accedette il fiore dell'intellettualità meridionale, proveniente
dalle diverse regioni del Regno. Con la morte del maestro, avvenuta
nel 1769, una scissione diede vita a due correnti: la moderata, "più
provinciale", che annoverava il Galanti, il Palmieri, il Delfico,
il Longano; la radicale, "utopistica", del Filangieri, del
Grimaldi, del Pagano. I primi puntavano a traguardi più immediati
e concreti, dall'abbattimento dei privilegi feudali all'ammodernamento
dell'agricoltura, all'abolizione dei soprusi nell'amministrazione
della giustizia, e dunque non escludevano il coinvolgimento del potere
regio; gli utopisti si spingevano oltre gli aspetti tecnico-specialistici
del processo di rinnovamento per investirne i princìpi di fondo
di ben più vasta risonanza nella coscienza collettiva, i princìpi
di libertà, eguaglianza, giustizia, rispetto della persona,
rivendicazione dei diritti civili e sociali (2). Nel tentativo di
realizzarli, si scatenò, come sappiamo, la reazione dell'antico
regime che produsse il tragico fallimento della rivoluzione del 1799.

Ignazio Ciaia si trasferisce a Napoli, nel 1787, per seguire gli studi
di giurisprudenza, più per volontà del padre che per
personale vocazione, e qui, dopo un breve periodo di mondana esperienza
salottiera, si tuffa nella politica, dalla parte radicale del movimento
illuminista, e sarà il bardo della Repubblica Napoletana. Il
suo non vasto corpus poetico si articola in due tempi, corrispondentemente
alle due fasi della sua breve esistenza: il tempo della poetica arcadica
e quello della poetica eroico-civile. Un dato è immediatamente
percepibile, l'organico intreccio tra vita e poesia in un orizzonte
preromantico e la coerenza estrema tra pensiero e azione, sino al
sacrificio della sua giovinezza, nel periodo della appassionata militanza
giacobina. Definitivo il giudizio del Croce del 1946, agli albori
della nostra repubblica, et pour cause: "I suoi versi, quei pochi
che ci sono rimasti, formano tutt'uno con una vita ammirevole per
sincerità, elevatezza e umana bontà, e sono, come essa,
privi di retorica e di infingimenti, semplici e persuasivi" (3).
Idee, peraltro, embrionalmente apprese in famiglia, di origine agrario-borghese
ma non pregiudizialmente chiusa nella logica e nella pratica del privilegio.
La prima formazione di Ignazio non può che essere di tipo retorico-grammaticale,
nel Seminario di Monopoli, secondo la consuetudine delle famiglie
agiate; ma un primo balzo in avanti avviene al suo rientro a Fasano,
dove ha la fortuna di fruire dell'insegnamento di un dotto padre,
don Vitantonio Cofano, aperto alle istanze sociali in difesa degli
umili, come del resto non pochi altri ecclesiastici dell'epoca. Il
Cofano gli rafforzò sia la predisposizione alla letteratura
e alla poesia sia i convincimenti politici, venutisi acuendo con l'interesse
per gli studi filosofici e storici. Risalgono forse a questi anni
le prime prove letterarie di Ciaia, delle quali è andata perduta
ogni traccia (4), ed inoltre i primi contatti con ambienti giovanili
antiborbonici di Cisternino (pensiamo a quel lume di gioventù
che fu Emanuele De Deo, che, nell'ora della verità, preferì
la forca alla delazione dei compagni di fede, poco più che
ventenne) e di Martina Franca, città di antica tradizione libertaria.
Ma il destino di Ciaia, se vogliamo adoperare questo termine in senso
lato, si compie e si sublima a Napoli. Le Pandette e il Digesto non
lo impegnano al punto da poter poi conseguire la laurea; si lascia
piuttosto distrarre da interessi letterari, che nella Napoli di quegli
anni erano particolarmente avvertiti e coltivati dalle fin troppo
pullulanti "colonie d'Arcadia"; e Ignazio non tardò
a iscriversi alla "Colonia Sebezia" con l'appellativo di
Aiace Telamonio, che di bucolico aveva ben poco. Ma jeunesse oblige,
e il nostro Aiace non rifugge da qualche salotto di grido della città,
come quello delle sorelle Coltellini, frequentato da intellettuali
e artisti di fama nazionale. Né a Ignazio mancava il fascino
della parola e del tratto, oltre che del talento poetico, doti che
richiamarono l'attenzione di una delle sorelle, Celestina, soprano
applauditissima in vari teatri d'Europa e in quegli anni a Napoli,
che era città europea, colma della memoria di Vico e di Giannone,
di Gravina e di Metastasio, nella quale incrociavano letterati finissimi
e verseggiatori estemporanei, uomini di pensiero e giureconsulti,
conferendole un'immagine di eccezionalità oltre i confini del
Regno (5).
L'amore per Celestina fu il primo e forse l'unico amore del nostro
poeta, al quale la Coltellini, a suggello di una affinità elettiva,
volle anche offrire un ritrattino in miniatura; realmente non più
che una ideale affinità elettiva, che però lasciò
il segno nella immaginazione e nella sensibilità del Ciaia.
La sua prima composizione poetica a noi nota e che possiamo leggere
nasce da questo rapporto tra due anime che si sentono reciprocamente
attratte da un forte senso del bello. Qualche mese appena e la Coltellini
deve partire per Vienna, insistentemente voluta dall'imperatore d'Austria
per il suo teatro italiano di corte, non nuovo peraltro alla cantante
e tuttora malioso per i trionfi metastasiani. Ciaia scrive "Partendo
da Napoli per Vienna la Signora Celeste Coltellini", una canzone
di nove stanze, che circola all'insegna del sebezio Aiace Telamonio
(6). L'accensione per la donna, la fuga nella fantasia e l'epilogo
imprevisto col penoso distacco sono i motivi lirici della canzone,
dal ritmo metrico di una struttura tradizionale a schema chiuso di
endecasillabi e settenari, che danno voce a intensi moti del cuore
ma senza cedimenti a effusioni patetiche: un petrarchismo convincentemente
personalizzato. Anche perché l'Arcadia a Napoli è ligia
ad una compostezza e ad una misura razionale tutta propria nel panorama
della poesia del Settecento (7). Venature preromantiche e suggestioni
neoclassiche rientrano nella temperie dell'epoca, delle seconde marcando
il rigore formale e delle prime scandendo la Stimmung del momento.
La moralità dell'ispirazione del futuro aedo della Rivoluzione
si percepisce nel rifiuto, pariniano, delle liturgie encomiastiche;
il poeta è pago soltanto di intessere di "lirici fregi"
i suoi accenti "per ornarne le Grazie, e il Nume alato / dispensator
di lusinghieri eventi". Un "acerbo dolor" gli opprime
l'anima, sebbene non abbia motivo di rimordersi di colpe commesse
e possa gioire del sentirsi puro. Ma si contrasta invano coi fati,
perché "l'austro tiranno", l'imperatore d'Austria
e, nell'accezione poetica più ampia, la ragion di Stato, con
i suoi codici del Potere, non presta ascolto alle ragioni del cuore:
"Folle! ma chi mi tragge / col rammentar suoi vanti / a dar novo
alimento al mio dolor?". Compensa la funzione placatrice della
poesia: "Clio, che gl'inni m'ispiri, e il cor mi vedi, / d'eterne
piume il tergo / armami tu per generoso volo, / e di tua grazia il
mio desire adempi [...]; e meta ai voli miei sia sol Vienna!"
(8). La canzone è dunque, leopardianamente, frammento della
storia di un'anima, tanto più significativo per noi, al pensiero
degli eventi turbinosamente fervidi che attendono l'ingenuo cantore,
per il quale può valere sin d'ora l'osservazione teorica del
Croce: "Nei riguardi della poesia non bisogna chiedere mai di
quale sorta siano gli oggetti che in essa sono cantati, ma di quale
tempra le anime che li cantano, cioè se sono anime che veramente
pensano e sentono, le sole che, quando la grazia ossia l'ispirazione
interviene, possano innalzarsi a lei. Era certamente di queste Ignazio
Ciaia" (9). E nemmeno si può ricacciare nel mucchio degli
stereotipi nuziali l'epitalamio "A Maggio", del 1789, nel
quale, a noi sembra, l'avvenimento delle nozze non è più
che un buon pretesto per un poetico omaggio al mese dei fiori, quasi
con animo polizianeo: "Dell'Albe tue la prima / ecco già
spunta, o Maggio: / scoti le piume rosee, / e a questo colle in cima
/ vieni un divoto omaggio / benigno ad accettar // Tra i fiori e l'erba
molle / t'attendo, e in mezzo ai Zefiri, / che manda al più
bel colle / di Mergellina il mar". Note paesaggistiche ed elementi
figurativi che gli risvegliano il ricordo dei luoghi della sua infanzia,
in riva all'Adriatico, che poi sono gli stessi luoghi della sposa
novella. A noi pare pertinente il richiamo alla stupenda odicina pariniana
"Per nozze", del 1777, fatto dalla Semeraro Herrmann (10).
Il tema della natura, che ricorre in questi testi d'impronta tardo-arcadica,
non è da attribuirsi soltanto a influenze ossianesche o di
Thomson e di Gessner, ma anche, forse in maggior misura, al naturismo
di Rousseau e Diderot: la natura, anche per Ciaia, è sinonimo
d'innocenza, di purezza dei sentimenti, di segrete aspirazioni edeniche
in un mondo dominato dall'egoismo dell'homo homini lupus. Allo stesso
clima spirituale del Ciaia di questo tempo poetico riconduce la saffica
"Alla Luna", posteriore di qualche anno all'epitalamio e
che al Croce è parsa troppo cerebralistica, aridamente concettualizzante,
perché possa lecitamente riconoscervisi il medesimo autore
(11). E' evidente, sì, l'avvio di uno scarto nel cammino della
poetica di Ciaia, non altrimenti, in senso positivo, imputabile se
non agli effetti di un più spiccato interesse del Ciaia per
le tematiche filosofiche, acquisito dalle lezioni del padre benedettino
Emanuele Caputo, che segnano un'ulteriore tappa nella formazione culturale
di Ignazio. Gli si rivolgerà tra non molto per esprimergli
pubblicamente la sua gratitudine di un allievo vorace, con una lunga
epistola in endecasillabi sciolti. Ma torniamo all'ode "Alla
Luna": ricompare ancora la figura femminile, di nome Argene,
che è un personaggio dell'Olimpiade del Metastasio e dietro
la quale, probabilmente, si cela l'inobliato profilo della Coltellini,
in tutt'altra luce però dalla canzone del 1787: un profilo
sfuggente, quasi amletico, sfingeo, che riaccende comunque nel poeta
"la fiamma antica", con diversiva ma dottamente simpatetica
eco virgiliana: "agnosco veteris vestigia flammae" (12).
La contrapposizione luna-sole, che occupa le prime quattro strofe,
predispone ad una percezione di Spannung insanabile, ultimativa, ad
un punto di non ritorno nell'auscultazione di sé, cui, in definitiva,
si riducono le liriche del Ciaia sebezio: "Face, con cui Natura
al mondo svela / tutto il bello che in sé la notte aduna, /
te, che sei sole, quando il sol si cela, / te canto, o Luna"
[...] "Tempo v'è, che con ira il Sol ci guata, / e con
dardi di foco a noi fa guerra; / ma tu d'ogni stagion benigna e grata
/ splendi alla terra". Le varie fasi del ciclo lunare rivestono
altrettanti significati simbolici degli stati d'animo del poeta, ma
con una incolmabile differenza, poiché quel ciclo rientra nell'armonia
prestabilita dell'universo, che invece è negato alla vita degli
uomini: "Troppo breve è però la tua dimora / lungi
da lui, che te lieto rivede. / Ma, ahi, che l'ingrata Argene a chi
l'adora / così non riede".
Insomma, sotto il velame di un femminino impossibile per lui, si nascondono
i primi stridori di una ben altra fiamma, che inducono ad un qualche
mutamento di rotta della sua ispirazione poetica; un mutamento che
implica altro sostrato di pensiero, altra concezione dell'arte della
parola, altra sua funzione, altri parametri di giudizio sulle vicende
umane. Emanuele Caputo gli fornisce tutto ciò e al tempo stesso,
tra storia e filosofia, l'ansia dell'utopia; il maestro condividerà
con il discepolo l'esperienza del carcere borbonico. La radice della
calda epistola al Caputo del 1791 affonda in quest'humus; a contatto
di questo maestro anche di vita, avviene in Ciaia, come scrive Mario
Sansone, "una specie di rivoluzione intellettuale che costituirà
il sostrato di tutta la vita interiore e di tutta la sua azione politica"
(13). Il maestro villeggia a Portici e Ciaia lo saluta virgilianamente:
"deus nobis haec otia fecit", senza allusione alcuna a prìncipi
di sorta, ben intesi. Egli, dopo le fatiche degli studi e dell'insegnamento
alla Università, potrà godersi il grato spettacolo della
natura e ritemprarsi nel corpo e nello spirito per nuovi cimenti civili:
segue un vivace affresco del paesaggio: "Oh, qual t'aspetta /
estasi di piacer, volgendo intorno / dal basso piano all'Appennin,
che il serra, / lo sguardo ammirator! Quanto Natura / leggiadre cose
in quello spazio unìo!". Un paesaggio accogliente ed austero
insieme, speculare al profilo intellettuale del maestro: "Io
debbo tutto a te. Dal suol che bagna / l'Adriatica Dori alla Sebezia
foce / con alma io venni ottenebrata e folta / di dense larve, che
a ragion nemiche / sedean tiranne d'usurpato impero". Egli gli
ha schiuso per primo "del vero i fonti, e l'avid'alma allora
/ vide se stessa, e a contemplarsi apprese". Quindi dall'autocoscienza
alla coscienza il passo è breve, e lo è vieppiù
da questa alla scienza delle cose e degli uomini, grazie alla "analitica
scorta", che al discepolo permette di spaziare, nel campo sterminato
del sapere, dal pensiero moderno di un Cartesio, di un Vico, di un
Locke, alle epoche più remote della storia sino all'età
presente: "Così potei sulle trascorse etadi / recarmi
a volo, e le fortune e i danni / secondo i tempi rischiarati, o foschi,
/ chieder dell'uomo e dell'uman lignaggio". Ignazio Ciaia ormai
poggia sul sodo della coscienza critica dell'intellettuale illuminista,
per il quale la storia ha già intrapreso un "novo cammin".
E' il cammino che gli si delinea innanzi sulla scorta di Carlo Lauberg,
scienziato e uomo d'azione, "anima di tutto il movimento rivoluzionario
napoletano" (14), che nella Accademia dei Chimici, da lui fondata
nel 1792, avvicendando esperimenti avveniristici e conversazioni politiche
infuocate, viene foggiando la generazione rivoluzionaria, perloppiù
di studenti e giovani, da Emanuele De Deo e Ignazio Ciaia a Mario
Pagano e Vincenzio Russo. La fiamma che accendeva le menti e i cuori
erano i princìpi elementari di diritto naturale, incontestabili
a lume di ragione: libertà dell'uomo, rivendicazione dei propri
diritti, il rifiuto della forza la quale non induce legittimità
di diritto, perché lo Stato di forza è Stato di violenza,
e la violenza non produce diritto.
Gli incontri clandestini nella Società Patriottica, subentrata
all'Accademia dei Chimici per le sempre più numerose adesioni,
non potevano non suscitare sospetti, specialmente su Lauberg e Ciaia,
animatori convinti della necessità di progetti di mutamenti
istituzionali sul modello della Repubblica francese. Quando poi giunse
la notizia della decapitazione a Parigi della regina Maria Antonietta,
nell'ottobre 1793, il furore della corte è incontenibile: ha
così inizio una serie accanita di delazioni, di processi, di
imprigionamenti, per ordine assoluto della regina Carolina non meno
che del consorte "lazzarone", in preda al panico per gli
avvenimenti d'oltralpe. La istituita Giunta di Stato disseminava essa
il terrore. Limitiamoci ad un sol passo del Saggio di Vincenzo Cuoco:
"La nazione fu assediata da un numero infinito di spie, di delatori,
che contavano i passi, registravano le parole, notavano il colore
del volto, osservavano finanche i sospiri. Non vi fu più sicurezza.
Gli odi privati trovarono una strada sicura per ottener la vendetta,
e coloro che non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro medesimi,
che la sete dell'oro e l'ambizione aveva venduti ad Acton ed a Vanni"
(15).
Dopo l'arresto di Emanuele De Deo, fraterno amico di Ignazio, si temette
per la sorte dello stesso Lauberg, già bersaglio di una perquisizione
in casa (16). La cattura del capo significava il crollo di ogni speranza;
urgeva dunque il suo allontanamento da Napoli, al fine anche di allacciare
rapporti con i giacobini delle altre regioni italiane, raggiungere
infine la Francia e ottenere dal Governo del Direttorio aiuti meno
aleatori e diradati per la causa nazionale. Il Ciaia dà voce
poetica al drammatico momento, con la stupenda ode "A Carlo Lauberg":
"Fuggi, te l'onde aspettano, / te le furtive vele: / speme dell'alme
libere / qui più non dei restar". Il ritmo ansimante e
a volte angosciante delle strofe di settenari, che incalzano rapidi,
rende con estrema efficacia, rappresentativa ed emotiva, il turbamento
del poeta e della folta schiera dei sodali, che la loro scelta di
vita avevano già compiuta. La canea sguinzagliata dalla Corte
non può cancellare dal corso degli eventi una missione storica
che il destino del Mezzogiorno ha delegato a Carlo Lauberg: "E
tu chi lasci? Un despota, / che altrui servendo impera. / E dove corri?
A un popolo, / da cui la terra intera / a conquistar degli uomini
/ i diritti apprenderà". E nel risalire la penisola lo
accompagnano propizie le grandi ombre del passato, da Attilio Regolo
a Machiavelli, il quale ultimo alle moltitudini dubbiose può
ancora dire: "se forte un prence o debole / può giusto
addivenir". Né l'opera del maestro verrà meno con
la sua assenza da Napoli: "Ah va, qui restano / al ben che più
si aspetta, / al propagante studio, / all'utile vendetta, / l'alme
per virtù fervide, / fervide per età". E nel varcare
i confini, potrà soffermarsi a riguardare pensoso e fiducioso
"la pria degenere / Italia [che] or non [è] più
quella / di sua virtù già conscia". La ferma convinzione
di Ciaia che gli eventi non possono volgere favorevoli alla causa
repubblicana lo porta, d'istinto, a rompere "la barriera della
letteratura usuale e collocarvi le mine di una nuova poesia"
(17).
Carlo Lauberg era già in salvo, e qualche mese dopo, nel luglio
1795, i sospetti non risparmiarono Ciaia e Mario Pagano, dinnanzi
ai quali si aprirono le terribili "fosse" del carcere di
Castel Sant'Elmo, le stesse "fosse" della prigionia di Tommaso
Campanella (18). La detenzione si protrasse per tre anni in attesa
del processo, sino al luglio 1798, quando, per il grave deteriorarsi
della salute, Ciaia fu confinato, sotto rigorosa sorveglianza, a Bisceglie.
Come la filosofia aveva soccorso il teorico della Città del
Sole, così il lene brusio della lingua poetica sostiene la
fibra stremata di Ciaia; una lingua poetica "piegata ad una testimonianza
essa stessa d'impegno civile senz'altra seduzione né consolatoria
né evasiva" (19). Le liriche superstiti allo stillicidio
del carcere sono soltanto sei, cui vanno aggiunte due lettere, vergate
su un unico foglio, ai genitori, separatamente, datate 13 gennaio
1798. A sei mesi dall'imprigionamento un sollievo inatteso gli giunge
dal dono di una bottiglia di vino di Cipro da parte di una sconosciuta
nobildonna, una immaginaria Urania. L'ode è un "Brindisi",
come recita il titolo, ma più che a scongiurare una sorte già
abbattutasi, a rimuoverne piuttosto l'immeritata crudeltà:
"Già il sesto lustro è in giro, / e assai vissi
al martirio; / della speme e del ben fur pochi i dì. / Or tutto
a me s'invola, / e mi riman la sola / memoria di quel ben che già
fuggì // Oh memoria adorata! / Quest'anima agitata / se più
non rivedrà chi ti formò, / in quest'orrido speco, /
deh! tu rimani meco / e in te chi ti diè vita almen vedrò";
quel "soave liquor" valga almeno a spargere "d'oblio
novello ogni pensier", lasciando intatto soltanto quello di Urania.
Tregua illusoria, perché la storia della Francia repubblicana
non avrebbe tardato a cambiare il suo corso, in direzione di un conservatorismo
politico-sociale, ammantato di retorica rivoluzionaria, e in fede
della più cinica Realpolitik: tra il '96 e il '98 le varie
repubbliche del centro e del nord della penisola erano già
nella considerazione napoleonica di semplici stati satelliti e merce
di scambio (col trattato di Cam-poformio), e fra non molto un destino
scellerato sarebbe stato riservato alla Repubblica Partenopea. Ma
l'illusione è connaturata all'utopia, come traspare dalla "Canzone
alla Francia", che si prolunga per ben dieci stanze, quasi a
voler persuadere ad ogni costo se stesso della funzione redentrice,
propria della nazione che aveva dato al mondo la Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino: "L'umanità dolente
/ degli offesi suoi diritti alta vendetta / sol dal tuo braccio aspetta,
/ ed al servaggio suo più non consente. / Odi l'itala gente,
/ odi che prega; e tu sei sorda ancora? / E assolver puoi così
crudel dimora?". L'inge-nuo cantore è impaziente e si
abbandona al suo sogno di un mondo umano più giusto: "No,
non fia ch'io veggia / con iniqui intervalli ognor distinte / la capanna
e la reggia, / né che trapassi ancor la gloria e il merto /
dalle vetuste immagini dipinte. / Non fia che un diritto incerto /
sempre il reo ch'è più forte, assolver deggia":
vaticinio generoso per le future genti!
Una risorsa incomparabile nelle strette dolorose della vita è
l'amicizia (l'amico, "aliquod exemplar sui") ed ecco l'ode
al suo "Concittadino ed amico D. Vincenzo Notarangelo".
Il carcere ha sfigurato Ciaia nelle sembianze, non lo ha però
prostrato nell'animo sicché se non può raggiungere l'amico
"nel suon primiero di libera parola", lo "spirto di
Pindaro" riuscirà a forzare le sbarre della cella e col
velame della lingua poetica confidarsi con lui: "Tutto in quest'atro
avello, / tutto a chi vive è tolto. / O notte, o solitudine!
/ Penso, ma non favello; / penso, ma non ascolto". L'anafora
pugnace non lo risarcisce tuttavia del cruccio di non sapersi riconosciuto
dall'amico; e la scena immaginata è spia di una confortante
reminiscenza dantesca; di quando il pellegrino del Purgatorio non
riconosce, a "la cangiata labbia", l'amico di gioventù,
Forese, e se ne affligge; e Ciaia: "Non mi ravvisi ancora? /
Non vedi il fido amico? / Ahi, che la gota pallida / e il crin che
scema ognora / tolser l'aspetto antico!". No, il Vincenzo dei
comuni trastulli dell'adolescenza non insista a fissarlo nel volto,
non si lasci penosamente sviare dalle parvenze sensoriali: "Più
non cercarlo al guardo / cercalo al cor che geme; / ei si risente,
ei palpita, / ogni altro annunzio è tardo: / sì, noi
crescemmo insieme". E' la poesia perenne degli affetti radicali,
balsamo che lenisce le sventure dell'esistenza, appaga il cuore e
per qualche istante fa tacere il rovello della passione politica,
inducendo persino a perdonare il delatore infame che ha portato alla
sua cattura; un delatore che mostrava di condividere ideali e speranze
ed era convissuto con lui sotto lo stesso tetto ospitale. Viva pure
il fellone dunque e trascini la sua anima bieca per il resto dei suoi
giorni, in preda al fatale rimorso e fatto oggetto dell'altrui esecrazione:
"Ma ch'io vendetta spiri, / ch'io il freno allenti all'alma?
/ Ah no, sia vivo l'empio, / e ognun l'additi e il miri / trar l'aborrita
salma". Un perdono che non esclude la collera dell'uomo giusto,
che ancora una volta il letterato Ignazio Ciaia ha appreso dalla poesia
del primo grande exul immeritus della nostra storia. I ceppi dell'atroce
prigionia cedono di fronte ad una vita intemerata, ad una coscienza
impavida, una fede granitica, e lo stridio dei cardini rugginosi dilegua
con il librarsi del prigioniero in alto, a parlare "agli astri
immobili": "Ma benché in nero speco / me dura man
governi, / pur di celeste origine / luce costante è meco, /
bella di raggi eterni". Il recluso, sulle ali del pensiero, trascorre
le vicende alterne della storia, come, due secoli avanti, in quel
"nero speco", aveva fatto l'utopista calabrese; né
lo sbigottisce la morte, e la sua anima, "fiera allor di Socrate
/ guarda la tazza acerba, / bacia il pugnal di Cato". Ma sull'onda
dell'affetto antico, non dispera di poter riguardare insieme con l'amico
"l'aurora avventurosa / che ci vedrà rinascere, / e scioglierà
quel velo, / ond'è la luce ascosa // E forse il vicin maggio,
/ infra le rose e i gigli, / me rivedrà per rendergli / il
mal sospeso omaggio / d'inno che a lui somigli" (20).
Intanto, la Francia repubblicana sempre più palesemente aggira
le speranze giacobine, tergiversa sul tavolo della diplomazia con
le altre grandi potenze cointeressate, e non disdegna mercantili patteggiamenti.
Dopo Campoformio, alza la voce di protesta per primo Ugo Foscolo,
con la lettera che accompagna la ristampa dell'"Ode a Bonaparte
Liberatore": "Avrà il nostro secolo un Tacito il
quale commetterà la tua sentenza alla severa posterità".
Sentimento analogo, non ancora diventato protesta esplicita, avverte
nell'antro di Castel Sant'Elmo il nostro poeta, nella saffica "E'
notte alfine", che, eludendo la occhiuta sorveglianza, riuscì
a circolare fra i detenuti politici, con l'effetto di un oblioso placamento:
"Gallia, chi t'ama di catene è cinto: / già l'urna
e il ferro la vendetta chiama; / Gallia, t'affretta: se più
tardi, estinto / vedrai chi t'ama". Il lento calare delle tenebre
apporta almeno tregua alla "diurna scena d'orror" e la poesia
tocca le zone più segrete del prigioniero, la cui condizione
ora trascende l'individuo per abbracciare quanti subiscono il medesimo
oltraggio del tiranno (21): "Ombre di pace, e tu, dell'ombre,
o muto / padre, o Silenzio, di una miser'alma / sia questo canto a
voi dolce tributo, / dolce a me calma". Ma è tregua effimera,
perché la stretta dei ricordi preme nella immaginazione, con
tanto maggior forza quanto più è impervia la cinta carceraria,
allorché, nella pace della notte, gli giunge all'orecchio il
"noto suono di percossa sponda", col sussulto che ne consegue:
"Forse è il lido amato, e forse è l'onda di Mergellina".
Nello scorgere poi dal lucernario le luci della città, simili
a larve, un sospetto cupo lo assale, che "col sangue chi di sangue
vive / nuove registra vittime innocenti", e mentre le madri e
le spose chiudono "in dolce pace il ciglio", dagli aguzzini
di Stato si trama contro i figli ed i consorti ignari. Benevola, allora,
la notte - è l'auspicio struggente del poeta - distenda le
sue "ali più funeste e gravi / su questa parte della terrea
mole", senza mai più consentire alla luce del giorno di
ricomparire. Il prigioniero continuerà a "posare alla
caverna in seno", ma la luna (ed è l'invocazione estrema),
a conforto della costanza dei suoi sentimenti, gli dipingerà
"i dolci sogni almeno della speranza". Speranza caduca,
se le orde sanfediste avanzano ed al richiamo della "libertà
e dell'eguaglianza" son sorde le masse del Mezzogiorno: "Ahi,
che il Sebeto anch'ei sorgea; ma bianco / d'ira rivolse acerba legge
in mente, / e tornò presto a traboccar sul fianco": immagine
efficace e dolente, che esprime il rapido assopirsi del risveglio
di una coscienza civile diffusa, che l'espugnazione napoleonica di
Mantova lasciava intravedere anche a Napoli (al sonetto "Per
la caduta di Mantova" appartiene la terzina citata).
Di là dalla struttura versificatoria dei testi poetici sin
qui esaminati, struttura che non si scosta dalla tradizione settecentesca,
l'aspetto innovativo di Ciaia, come è stato opportunamente
osservato, consiste nella "impostazione del discorso interno,
che non parte dalla letteratura, come motivo da elaborare secondo
una combinazione di scelte limitate, tecnicisticamente, ma nella letteratura
ha il suo esito, come motivo morale risolto o tendente a risolversi
in fantasia" (22).
Nell'inviare le lettere ai genitori, Ciaia allega una canzonetta,
intitolata "A Timan-te", che è lo pseudonimo di un
amico fasanese di gioventù, ed è forse la sua ultima
testimonianza poetica. E' filtrata nel carcere notizia di una imminente
liberazione dei "rei di Stato", nel gennaio 1798, e il tono
della poesiola è distensivo, come di un commiato da Castel
Sant'Elmo: "Se pianti e tetra / fronda serbavi / per me sull'orrida
/ funerea pietra, / tu che m'amavi; // or che i perigli / l'ali affannose
/ lungi dibattono, / trova due gigli, / trova due rose. / E pien di
zelo / sul nodo antico / un gruppo formane / per voto al Cielo / del
salvo amico"; Timante lo attenda dunque "là dove
adombrasi / d'inculte piante / la collinetta", a riprendere i
giuochi di un tempo migliore, con animo sgombro ormai di ogni traccia
di rancore verso i suoi nemici. Ciaia rivendica una umanità
su cui non ha presa la ferocia altrui, l'ascolto della "prima
voce della natura", che non solo gli ridona il calore antico
degli affetti ma anche la intatta predisposizione alla solidarietà
e all'amore: "Ristoro e calma / per chi qui geme / son le memorie,
/ ch'alma con alma stringono insieme".
Non è improbabile che la decisione di accludere la canzonetta
al foglio contenente le due lettere tendesse ad offrire alla madre,
per l'interposta persona dell'amico, una conferma ulteriore della
sua imminente liberazione.
Nella lettera il figlio l'ha scongiurata di non dubitare, di non disperare:
"E' fisso in cielo che saremo felici. Acquietiamoci dunque e
non andiamo indagando altro [...]. Datevi dunque pace e credetemi.
Io non esagero quando vi dico che passo il più dei miei giorni
nel perfetto oblio dei mali [...]. E se talora la fralezza dell'umana
natura ripiglia i suoi diritti, la vedreste rinvigorita dal commercio
degli amici, dai cari studi ed anche dalle bottiglie", con la
chiara allusione al dono ricevuto in carcere del vino di Cipro. L'esperienza
vissuta, poi, lo ha arricchito di saggezza stoica e di umiltà
cristiana: "Non ci formiamo idee troppo grandi di noi medesimi.
Io guardo la nostra specie, mi metto al mio luogo, e mi trovo un atomo.
Possibile che a quest'atomo s'abbia a conformar l'universo! Diamo
dunque il loro valore alle cose, ma cominciamo da noi. Così
i mali perderanno gran peso nella bilancia".
Di tenore assai diverso le parole rivolte al padre, che quegli ideali,
per i quali il figlio penava nel carcere, gli aveva egli stesso ispirati:
"Le vostre lettere mi consolano. Lo spettacolo del coraggio è
ciò che vi può essere di più imponente per l'uomo,
ed io tanto più ne godo quando mi diviene un esempio [...].
E sia qualsivoglia il mio destino, voi non sarete mai addolorato d'avermi
avuto per figlio".
Il 23 gennaio 1799, dopo la fuga di Carolina e Ferdinando in Sicilia,
scortati da Nelson, i francesi entravano a Napoli, il generale Championnet
proclamava "La Repubblica Napoletana una e indivisibile",
e costituiva il Governo Provvisorio, presieduto da Carlo Lauberg,
rientrato con altri esuli da Parigi; ne facevano parte, fra gli altri,
il Ciaia, che poi succederà nella presidenza, Melchiorre Delfico,
Mario Pagano, Domenico Cirillo, Forges Davanzati, mentre ne dava solenne
annunzio Eleonora Fonseca Pimentel, nel primo numero del Monitore
Napoletano da lei fondato (23). Frenetica l'attività amministrativa
e legislativa di Ciaia per dare avvio alle riforme da troppo tempo
attese; ma non meno accanita la insana diffidenza delle masse analfabete
manovrate dal Ruffo e dal baronaggio meridionale.
Con la destituzione di Championnet, sostituito dall'esoso e ambiguo
Macdonald, la Francia latitava per un verso e dilapidava per un altro
le già esauste risorse economiche su cui poteva contare il
governo della Repubblica. Le due lettere del 6 marzo e dell'8 aprile
1799, che Ignazio spedisce al fratello Francesco Antonio, emissario
a Parigi, tradiscono le crescenti ansie di Ignazio: "I tiranni
avevano tutto involato con un sistema di dilapidazione e di spoglio,
che tu ben sai. L'anarchia seguente finì di distruggere i fondi
e le risorse [...] Ecco in breve il nostro stato attuale, e le cause
d'affanno del Governo e della Nazione [...]. E' bene ancora che sappi
esservi nei dipartimenti molti satelliti, che spendono oro in gran
copia ed accaparrano gente sempre più che non fanno i nostri
sterili proclami. Un popolo, che non sente i suoi diritti nella sua
ragione, non ci sarà veramente amico che quando comincerà
a sentirli nel disgravio dei pesi. Or, se questi crescono, dove ne
saremo? Tutto sta che la Francia ci lasci respirare un momento"
(lettera 6 marzo).
E tuttavia, chi aveva conosciuto le "fosse" di Castel Sant'Elmo
non poteva arrendersi allo sconforto; sicché, nella lettera
dell'8 aprile, tornava a scrivere: "Dovrei aver lo spirito estremamente
abbattuto, se l'estremo dei mali non mi fosse motivo da sviluppare
quel coraggio, che le circostanze esigono", tanto più
che "presto o tardi la voce della verità sarà intesa,
e si vedrà che i popoli non son fatti per odiarsi". La
conclusione rivela la grandezza morale di chi è votato al sacrificio
totale di sé: "Solo vorrei aver pronti i mezzi da rendere
al popolo più sensibile la libertà conquistata; ma,
infelicemente per tutti, la sorte ci obbliga ad aggravarlo tuttavia.
Possa giungere presto quell'ora in cui cessino tanti sacrifici, e
sia poi l'ultima della mia vita".
Intanto Orazio Nelson aveva iniziato a fare, proditoriamente, giustizia
da sé, con la impiccagione del Caracciolo ed altri, a bordo
della sua nave, mentre il re boia, rientrato a Napoli, mandava al
patibolo, tra gli schiamazzi della folla inebriata di sangue, tra
l'agosto e l'ottobre del '99, con numerosi altri, Eleonora De Fonseca
Pimentel, Francesco Antonio Astore, Ignazio Falconieri, Vincenzio
Russo, Mario Pagano, Domenico Cirillo e Ignazio Ciaia (24) . Francesco
Lomonaco, testimone di tutta fede, un anno dopo, nel suo celebre "Rapporto
al cittadino Carnot", denunciava al mondo e ai posteri: "Io
non discenderò, cittadino ministro, a descrivere uno per uno
gli orrori che si sono commessi sulla più bella contrada della
terra, e a dettagliare le calamità che sono gravitate sulle
teste di tanti infelici. La mano mi trema, ed il cuore non regge [
... ]. Basta dire che, dopo l'invasione dei briganti regalisti, non
si risparmiò né l'innocenza dell'infanzia, né
l'impotenza della vecchiaia, né gli incanti del sesso, né
l'eminenza del merito e del talento [ ... ]. Basta dire, in una parola,
che in Napoli la tirannia andò a galla sul sangue di mezza
generazione, e che una zona torrida racchiuse nel suo vortice infuocato
l'intero territorio napoletano" (25).
Per chiudere con Benedetto Croce, storico sovrano delle vicende del
Mezzogiorno, nella folle paura del nuovo, ci si abbandonò ad
"una reazione che forse non ha pari nella storia, perché
non mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte
e agli ergastoli o scacciare dal paese prelati, gentiluomini, generali,
ammiragli, letterati, scienziati, poeti, filosofi, giuristi, nobili,
tutto il fiore intellettuale e morale del paese: una reazione che
suscitò vivissima impressione dappertutto in Europa" (26)
. Nel riconoscere poi errori tattici e limiti strategici dei patrioti,
concludeva tuttavia con "tutti questi aspetti negativi, sui quali
si suole troppo insistere, sono un nulla a paragone dell'opera effettiva
che con la loro fede veramente generosa essi compiono" (27).
NOTE
1) A. Genovesi, Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle
scienze, in Gli illuministi italiani, tomo V, Riformatori napoletani,
a cura di F. Venturi, Milano-Napoli, pp. 100-01.
2) F. Venturi, op. cit., pp. XIV-XV.
3) B. Croce, Di un poeta giacobino: Ignazio Ciaia, in La letteratura
italiana del Settecento, Bari, 1949, pp. 336 sgg., il passo cit. a
p. 351; e altrove lo definiva "il solo ingegno di poeta che allora
sorgesse nell'Italia meridionale" (I teatri di Napoli dal Rinascimento
alla fine del secolo decimottavo, Bari, 1966, p. 241). Sul composito
significato del termine "giacobino", cfr. G. Galasso, Italia
democratica, Firenze, 1986, pp. 3 sgg.
4) Nel periodo della cospirazione e poi della prigionia nel carcere
di Castel Sant'Elmo, Ignazio Ciaia si adoperò invano nel tentativo
di salvare i suoi manoscritti, affidandoli ad una gentildonna cui
forse nocque l'eccesso di zelo (rimando a M. Sansone, op. cit., p.
113, n. 11).
5) G. Galasso, Napoli, Bari, 1987, p. XIV; nonché il capitolo
di R. Sirri, La cultura a Napoli nel Settecento, in AA.VV, Storia
di Napoli, vol. VIII, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1971
e più propriamente, per l'opera di Ignazio Ciaia, il paragrafo
"Letterati e poeti", pp. 269-281.
6) Per i testi in versi e in prosa mi rifaccio alla ricca monografia
di M. Semeraro Herrmann, Ignazio Ciaia, poeta e martire della rivoluzione
napoletana, Schena Editore, 1999.
7) Vd. P. Giannantonio, L'Arcadia Napoletana, Napoli, 1962: "Per
la prima volta nella nostra letteratura (l'Arcadia) è un movimento
di idee che penetra [...] nella vita sociale e politica del paese
[...] e per il Mezzogiorno significò rinnovamento e progresso"
(p. 260 sg). Sulla poesia di Ciaia della fase arcadica, pp. 248-259.
8) Degli interventi critici, non molti, sull'opera poetica di Ciaia,
ricordiamo i più recenti, oltre alla cit. monografia della
Semeraro Herrmann e al cit. saggio del Croce: M. Sansone, Ignazio
Ciaia, poeta civile, in "Primo convegno di studio sulla Puglia
nell'età risorgimentale", Bari, 1978, pp. 81 sgg.; M.
Dell'Aquila, Poesia e impegno politico: Ignazio Ciaia, nel suo vol.
Puglia e Pugliesi tra rivoluzione, riforma e unità, Galatina,
1982, pp. 89 sgg.; P. Giannantonio, Ignazio Ciaia e un suo inedito
epitalamio, in "Filologia e letteratura", X (1964), fasc.
I, n. 37, pp. 45 sgg.; Idem, Ignazio Ciaia, primo poeta e martire
del Mezzogiorno e dell'Italia moderna, in "Rassegna pugliese",
I (1966), 9, pp. I sgg.; Idem, Gli entusiasmi per la libertà
di Ignazio Ciaia, in "Critica meridionale", XII, 3-4, 1979,
pp. 54 sgg.
9) B. Croce, op. cit., p. 337.
10) L'epitalamio è stato rinvenuto dal Giannantonio che lo
trascrive nel suo saggio cit. (retro, n. 8), pp. 85-90, con un giudizio
piuttosto limitativo: "E' un'ode come tante se ne scrivevano
in Arcadia, ma a dire il vero, non è priva di grazia e di ritmo"
(p. 89). Ma forse c'è dell'altro, a mio parere. Nelle poesie
del carcere ritorna il tema del mese di maggio e "diventerà
motivo di speranza, di libertà e di tempi felici", come
annota Semeraro Herrmann, op. cit., p. 209.
11) L'opinione del Croce è condivisa da Sansone, non dalla
Semeraro Herrmann (op. cit., p. 214), che si richiama al convincimento
di L. Pepe, Ignazio Ciaia, martire del 1799 e le sue poesie, Trani,
1899, II ed., 1922.
12) Virgilio, Eneide, IV, 23; ripresa da Dante, Pg., XXX, 48.
13) M. Sansone, op. cit., p. 89. Il titolo del poemetto è "Al
P. D. Emanuele Caputo dell'ordine benedettino villeggiante in Portici".
Il Caputo fu tra i primi ad essere arrestato e chiuso in carcere,
in seguito alla scoperta della congiura giacobina del 1794, forse
per delazione di un prete; cfr. B. Croce, La rivoluzione napoletana
del 1799, Bari, 1968, p. 326.
14) B. Croce, op. cit., p. 211. Al Lauberg e alla sua molteplice attività
il Croce dedica un densissimo capitolo in Vite di avventure di fede
e di passione ("La vita di un rivoluzionario"), a cura di
G. Galasso, Milano, 1989, pp. 363-437.
15) V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, a cura
di A. Bravo, Torino, 1975, p. 82.
16) Il Croce, nel riportare la lettera del De Deo al fratello prima
di affrontare il patibolo, postilla commosso e ammirato: "E'
di un uomo (ma era poco più che ventenne) che non teme la morte,
né è sconvolto dall'oltretomba o sorretto da credenze
e pratiche religiose. Una lettera da filosofo e da anima buona, che
ritrova in se stesso coraggio e serenità" (La rivoluzione
napoletana, cit., pp. 206 sgg.).
17) S. Sirri, op. cit., p. 277.
18) La Semeraro Herrmann, op. cit., 73 sgg., riporta un passo, tratto
dall'opera di G. Del Re (Ignazio Ciaia e le sue poesie, 1860), sulle
"fosse": "Solo chi ebbe le vedute può farsi
un'idea adeguata delle orribili carceri di quel forte. Operate nel
masso, esse sono della larghezza di un uomo, il quale non potrebbe
stare altrimenti che coricato o seduto sopra un nudo giaciglio di
pietre. Così son fatte basse quelle cellette, le quali gocciolano
pure continuamente, perché poste sotto le grandi conserve che
servono a fornir d'acqua il presidio. Non c'è luce che le rischiari,
e ad una notte eterna erano condannati gli infelici prigionieri, finché
non si faceva loro grazia di respirare un po' d'aria sugli spalti
del castello o nella piazza".
19) M. Dell'Aquila, op. cit., p. 89.
20) "L'ode - conclude Sansone - è certamente delle cose
più belle del Ciaia, per l'altezza dei pensieri, per organicità,
per talune rare bellezze d'immagini". (op. cit., p. 109).
21) G. Del Re riferisce la notizia, riportata da Semeraro Herrmann
(op. cit., p. 79), che Mario Pagano la sapesse a memoria e la recitasse
nella sua cella.
22) R. Sirri, op. cit., p. 278.
23) Su questa leggendaria figura di donna, vd. Croce, La rivoluzione
napoletana, cit., pp. 3-83.
24) Sulle vicende che hanno coinvolto anche Ignazio Ciaia, vd. la
documentatissima monografia di G. Pisanò, Ignazio Falconieri,
letterato e giacobino nella rivoluzione napoletana del 1799, Piero
Lacaita Editore, 1996.
25) F. Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnot, in appendice a V. Cuoco,
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di F.
Nicolini, Bari, 1929, p. 300.
26) B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari, 1966, p. 207.
27) Ivi, p. 202. E' che la storia uccide gli ideali, con l'amara constatazione
del De Sanctis, che aggiunge: "La loro morte valse più
che i libri, e lasciò nel regno memorie e desideri non potuti
più sradicare" (Storia della letteratura italiana, a cura
di L. Russo, Milano, 1960, vol. II, p. 422).
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