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I briganti nel cinema italiano de dopoguerra |
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Giuseppe
Gubitosi
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Chi
voglia capire su quali presupposti si fonda l'idealizzazione della figura
del brigante - e in particolare del brigante meridionale - nei film
italiani può utilmente vedere il film del 1962 Il brigante, che
Renato Castellani trasse dal romanzo di Giuseppe Berto, intitolato anch'esso
Il brigante, edito per la prima volta nel 1951 e a sua volta ispirato
da un fatto di cronaca.
Per circa tre quarti del film il protagonista, Michele Rende, non è un brigante, ma un bracciante di Grupa, un paesino della Calabria, che esercita su coloro che lo conoscono un grande fascino per la sua fierezza. Non solo le donne si innamorano di lui, ma egli esercita il suo ascendente anche sugli uomini. Riesce facilmente a convincere un affittuario a prenderlo come bracciante in un momento in cui tutti si rifiutano di lavorare per lui perché è stato loro ordinato da un uomo potente del paese. Ancor più significativo è il rapporto di profonda simpatia che Michele Rende stabilisce con Nino, il ragazzo che è anche la voce narrante del film. Questo rapporto è così forte che dal momento in cui Michele Rende viene arrestato con l'ingiusta accusa di essere un assassino, Nino diventa cupo e silenzioso. Ma ancor più importante è il carisma in virtù del quale Michele Rende trascina i contadini dei paesi attorno a Grupa ad occupare le terre incolte di proprietà di un barone assenteista. Un barone che nel film non appare mai di persona, anche se si sente il suo enorme potere. L'antagonismo tra Michele Rende, uomo visibile a tutti, un lavoratore come gli altri, e il barone che, come una divinità, non si vede mai ma è sempre nominato e temuto da tutti, è il tema principale del film e del romanzo di Berto. Perciò l'episodio principale della seconda parte del film è l'occupazione delle terre, diretta e organizzata da Michele Rende. E' a seguito di questa occupazione che Michele diventa un brigante. Viene incriminato per un vecchio delitto, presumibilmente compiuto durante il fascismo, un'accusa dalla quale si era liberato dopo essere stato rimesso in libertà dagli Alleati durante la guerra. Rende ha anche combattuto con gli americani e con grande valore. Ha persino meritato una medaglia d'argento al valore militare. Sono queste caratteristiche, la fondamentale e naturale onestà di Michele Rende e il suo diventare un brigante, che fanno di lui un antieroe. Infatti nell'ultima parte del film Michele diventa un fuorilegge che uccide, incendia masserie e campi coltivati. Lo diventa perché viene ingiustamente arrestato dopo aver capeggiato l'occupazione delle terre a Grupa: Hanno arrestato a me perché non potevano arrestare tutti gli altri - urla Michele ai carabinieri -. Cento, duecento, carcerarli, cacciarli dalla terra senza passare per bugiardi dopo queste promesse di libertà e giorni nuovi. Patàro l'hanno ammazzato, ma gli altri? Allora che facciamo? Ma sì! C'è Michele Rende con una vecchia condanna. Chi ci pensa se è vecchia? Chi ci pensa se è giusta o non è giusta? Chi ci pensa perché non l'ha finita? Se ha fatto la guerra? Se ha messo a repentaglio la vita dietro le linee. [...]. E bravo! E sei un eroe! E la bella medaglia d'argento al valor militare! Perché cacciato lui, la paura caccerà via pure gli altri. E così è stato. Che questi la paura ce l'hanno da secoli! La paura ci ha messo le radici nel cervello, nel cuore. Hanno paura di tutto: del padrone, della fame, del giorno dopo. Poiché ha capito che le promesse di libertà degli Alleati erano illusorie, Michele sceglie di mettersi contro lo Stato, contro la legge, contro la proprietà terriera e contro gli stessi contadini. Non a caso mentre lui provoca ovunque incendi i contadini vengono a sapere che la terra verrà loro assegnata. Probabilmente si tratta della riforma agraria attuata nel 1950. Ma Michele Rende si spiega la cosa con la lotta di classe: - Michele, lo
sai che ci danno la terra? Se è per paura o per amore non lo
so, ma ce la danno. Il film, dunque,
è fondato sull'assunto "realistico" del quale i critici
hanno parlato anche a proposito del romanzo di Berto. Un bracciante
diventa brigante, si mette cioè contro la legge e contro la
stessa comunità alla quale appartiene, perché la società
capitalistica non è in grado di mantenere le promesse di giustizia
e di libertà che la sua classe dirigente ha fatto alla caduta
del fascismo. Con Il brigante
Castellani mostra di essersi accostato a una dimensione del vivere
umano che gli era sempre stata profondamente estranea: quella politico
sociale. Questa scoperta gli dà la coraggiosa energia necessaria
a indagare con serietà d'intenti e non mentita simpatia le
misere condizioni delle desolate plebi meridionali. A te Nino volevo fare un discorso ed è questo. Che tanto male vi ho fatto ma anche un po' di bene. Mi hanno braccato come una belva. Forse era meglio se scontavo la pena in carcere. Ma non sono un santo, perché sono nato qui, in questa terra di violenza. Una violenza,
dunque, le cui origini sono storiche e sociali. Non si deve dimenticare
che questo film fu realizzato agli inizi degli anni Sessanta e che
è quasi contemporaneo al film di Visconti Rocco e i suoi fratelli.
Esso si colloca in una stagione particolare della storia del cinema
italiano, la stagione in cui il cinema era ormai controllato dal Partito
comunista che rifiutava il centro-sinistra (verso il quale si stava
andando) ritenendo che con quella formula di governo si volesse sterilizzare
la classe operaia. Era la stagione del realismo, inaugurata da Visconti
con Senso, e su cui si erano accapigliati i critici italiani. Quel
realismo su cui aveva a lungo insistito Luigi Chiarini occupandosi
di cinema su ogni numero della rivista culturale dei comunisti italiani
Il Contemporaneo negli anni successivi alla sua nascita, avvenuta
nel 1954. L'apparente spensieratezza del capolavoro di Castellani [Due soldi di speranza] celava dunque desolato pessimismo. D'altra parte la stessa questione del brigantaggio era in quegli anni ricondotta all'annosa questione meridionale. Non sono pochi i contributi che propongono questa connessione: dagli studi di Gaetano Cingari a quelli di Tommaso Pedìo e a quelli di Franco Molfese. Ma su questo sarà bene tornare più diffusamente. (2 - continua)
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