Uno degli effetti
principali che la corsa all'Unione Europea ha provocato è stata
la convergenza dei tassi di interesse dei Paesi membri verso dei valori
comuni e simili per tutti. In questo senso i tassi tedeschi hanno
costituito l'obiettivo dei policy makers internazionali, determinando
un avvicinamento progressivo della struttura a termine dei Paesi membri
a quella tedesca. Per avvicinamento si intende la quasi coincidenza
per quel che riguarda i tassi a breve (è la politica monetaria
a fissare i tassi a breve ed essa sarà comune a tutti i Paesi
dell'Unione), mentre alcune differenze permangono e permarranno (anche
con la moneta unica) per quel che riguarda i tassi a lunga.
In generale, il differenziale dei tassi di interesse tra due Paesi
è determinato da tre fattori principali: aspettative di svalutazione/rivalutazione
del tasso di cambio, differenti tassazioni dei redditi da capitale,
il cosiddetto rischio di credito (o rischio di default o anche rischio
Paese) che cattura la paura del mercato che, prima o poi, vada male
qualcosa nella gestione del debito pubblico da parte delle autorità
governative (ad esempio, ritardi nel pagamento degli interessi o addirittura
consolidamento del debito a breve, ecc.). Con l'introduzione dell'Euro
scompaiono i primi due fattori e il rischio di credito rimane come
unica determinante del differenziale dei tassi di interesse. In pratica,
con la moneta unica e un'armonizzazione nella tassazione dei redditi
da capitale la lieve differenza tra un tasso a lunga italiano e uno
tedesco sarà interpretabile esclusivamente come la presenza
in Italia di un rischio Paese (lievemente) più elevato di quello
tedesco.
Se quindi è (o sarà) facile misurare il rischio di credito
di un Paese dall'introduzione della moneta unica in poi, l'operazione
è sicuramente più difficile per gli anni precedenti.
Ne vale comunque la pena, per una serie di motivi che saranno più
chiari in seguito. Seguendo una procedura adottata da Giavazzi-Favero-Spaventa
per primi nel 1996 si descompone il differenziale dei tassi di interesse
italiano e tedesco per isolare il rischio di credito italiano dal
1992 in poi. Si schematizza quanto già detto attraverso la
seguente espressione (priva di rigore matematico, ma densa di potere
esplicativo!):

Se si trovano una misura delle aspettative sulla fluttuazione del
cambio Lira/Marco e una misura della ritenuta fiscale italiana (assente
in tutti gli altri Paesi), le si possono sottrarre dal differenziale
dei tassi di interesse italiani e tedeschi per ottenere una misura
del rischio Paese italiano (relativamente a quello tedesco).
Un ottimo candidato a misurare il "fattore rischio di cambio"
è rappresentato dal differenziale tra i tassi fissi dei contratti
swap di uguale durata denominati in lire e marchi (1). Un discorso
leggermente più complesso va fatto per cercare di evidenziare
l'effetto della ritenuta d'acconto del 12,5% in vigore in Italia per
gli acquirenti di titoli di debito italiano. La ritenuta, fino al
1996, veniva applicata sia sui residenti che sui non residenti (dal
1997 non esiste più la ritenuta sui non residenti), con la
differenza che per i non residenti veniva rimborsata, anche se con
tempi e modi spesso lunghi e contorti. Morgan Stanley Int. ci fornisce
una misura dell'incidenza (sul differenziale dei tassi di interesse
italiano e tedesco) di questa componente fiscale italiana, tenendo
conto anche di come e quanto la procedura di rimborso per i non residenti
venisse ritenuta affidabile dal mercato (2).
Adesso c'è tutto quello che serve. Se si sottraggono dal differenziale
dei tassi di interesse italiano e tedesco (tassi a dieci anni per
le ragioni evidenziate all'inizio) le misure del rischio di cambio
e la componente fiscale italiana, si riesce finalmente ad ottenere
una misura del rischio di credito italiano. Tale misura, in pratica,
indica che affidabilità il mercato attribuisce al nostro Paese.
Come già detto, tale procedura è ingiustificata in un'epoca
di tassi di cambio fissi e tassazione dei redditi da capitale omogenea,
ma è giustificata se si vuole analizzare nel tempo il rischio
di credito di un Paese, come si evolve, come si è evoluto,
quali sono le variabili che lo influenzano, ecc.

Nella figura 1 possiamo vedere l'andamento del rischio di default
italiano dal 1992 in poi, quasi sempre maggiore di zero con i suoi
picchi durante le crisi valutarie (settembre 1992 e marzo 1995) e
nei primi mesi del 1993, segni della presenza di problemi e difficoltà
nella conduzione della politica economica. Da notare che, in quei
periodi, più di un punto percentuale del differenziale dei
tassi di interesse tra Italia e Germania poteva essere spiegato dal
rischio di credito in Italia. La tendenza al ribasso degli ultimi
anni è indicativa di politiche monetarie e fiscali virtuose,
principalmente volte al conseguimento degli attributi economici necessari
per consentire l'entrata in Europa. Può inoltre essere interessante
confrontare l'andamento del rischio di default con l'avvicendarsi
dei vari governi.
Si fornisce un breve schema delle vicende politiche italiane che si
ritiene possano avere influito sull'andamento del grafico del rischio
paese italiano: ogni commento è lasciato al lettore!

Un'ultima considerazione nasce dal confronto dei rischi di credito
di due Paesi dalle vicende economiche abbastanza simili, vale a dire
Italia e Spagna. Nella figura 2 sottostante si può notare un
andamento tutto sommato simile delle due variabili, soprattutto negli
ultimi anni. E questa considerazione è valida anche per altri
Paesi come il Regno Unito (tranne che per il periodo dopo l'annuncio
della non partecipazione all'Euro), il Belgio e la Francia. Inoltre,
lo studio degli autori prima menzionati evidenzia come questo trend
comune sia dovuto per la maggior parte a fattori di carattere internazionale
e non interno. Se, da un lato, questo è indice di una sostanziale
omogeneità dei Paesi dell'Unione, dall'altro sembra piuttosto
preoccupante, perché indicativo di un legame stretto tra il
rischio di default di questi Paesi. Supponiamo infatti che un Paese
dell'Unione sia "colpito" da problemi fiscali più
gravi del solito e che questo causi una crisi di fiducia, provocando
difficoltà nel collocare i titoli del debito pubblico. Se è
vero che i rischi di credito di questi Paesi sono correlati, la crisi
di fiducia si trasmetterà (in che misura?) anche agli altri
Paesi, costringendo la Banca Centrale Europea ad acquistare i titoli
pubblici di un Paese o di un altro per evitare una crisi di tutto
il sistema. Si tratta chiaramente di una possibilità principalmente
teorica (basti guardare alla consistente diminuzione dei rischi Paese
degli ultimi anni), ma non per questo da escludere.
NOTE
1) E' utile notare che si usano i tassi swap perché teoricamente
indipendenti dal rischio di credito di un Paese, essendo lo swap un
contratto che prevede lo scambio di un flusso di interessi fissi con
uno variabile e che pertanto permette di mettersi al riparo da eventuali
problemi nel pagamento di uno dei due flussi.
2) In quel periodo molte banche internazionali emettevano dei contratti
di factoring che garantivano la restituzione della ritenuta d'acconto
applicata in Italia a un prezzo determinato come percentuale della
tassa.