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I briganti nel cinema italiano del dopoguerra |
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Giuseppe
Gubitosi
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L'iconografia
ci fornisce un'immagine del brigante come di un omone alto e possente.
E' l'immagine della forza bruta, non educata, istintiva e perciò
lasciata libera di espandersi. In genere questo omone è vestito
di scuro. Un ampio mantello nero ne copre per intero la figura, mentre
una lunga barba nera ricopre il volto del brigante, nascondendolo alla
vista. Se non ha la barba lunga, il brigante ha almeno dei basettoni
che coprono gran parte del suo viso. Un cappellaccio a larghe falde
serve a proteggere la testa dal sole e dal vento, ma svolge anche la
stessa funzione della barba. Come la barba, infatti, il cappello nasconde
il volto del brigante e lo rende più misterioso. Quasi sempre
si tratta di un cappello a punta, secondo la moda dei contadini del
Settecento, che fa sembrare più alta e slanciata la figura del
brigante. Ma è anche un cappello decorato con fasce, fibie e
spille e ciò fa apparire la figura sottostante vivace e insieme
tesa ad attirare su di sé gli sguardi della propria gente e dei
viandanti.
Sotto il mantello si intravede un cinturone nel quale talvolta è incastrata una pistola. Ma non è questa l'unica arma del brigante, che possiede almeno un coltello dalla lunga lama, quando non ne ha più d'uno. Soprattutto, però, ha sempre in mano un fucile dalla canna molto lunga, talvolta allargata nella parte terminale, sicché il fucile si configura come un trombone. La lunghezza del fucile, come quella della lama del coltello, suggeriscono l'idea della capacità di giungere lontano per colpire obiettivi non proprio a portata di mano. Ma l'idea della veloce capacità di spostamento è fornita soprattutto dai calzari del brigante: sono quelli del pastore, del montanaro, fatti di semplice pelle d'animale legata ai piedi e alle gambe da un lungo nastro. Si tratta, naturalmente, d'una calzatura povera, ma anche tale da consentire lunghi e rapidi spostamenti, soprattutto di superare con agilità ostacoli d'ogni genere: le rocce acuminate, aguzze e taglienti, le folte siepi, i corsi d'acqua, che ostacolano il cammino. Quel che però colpisce del brigante è l'espressione cupa del volto. Su quest'ultimo infatti brillano due occhi vivi e penetranti, ma atteggiati in modo da conferire al brigante uno sguardo perso nel vuoto, malinconico, se non decisamente triste. Quella del brigante non è una figura comune, ma strana e misteriosa e perciò affascinante. Il brigante consegnatoci dalla iconografia tradizionale è infatti una figura carismatica, capace di attrarre molti seguaci e di incutere rispetto in chiunque si imbatta in lui. E' un antieroe, una persona capace di contrapporsi al potere e di ingaggiare con esso una lotta senza esclusione di colpi: una lotta cruenta, naturalmente, ma fondata anche sul carisma, sulla capacità di attirare gli altri con il misterioso miraggio d'un domani che non si sa come sarà - come accade in una dimensione di vita avventurosa - ma che certamente non sarà uguale al presente. Quale antieroe, quindi, il brigante è l'opposto dell'eroe, che è invece una figura pura e limpida, un eroe positivo, come si dice con una ridondanza non del tutto superflua, che combatte in nome di solidi principi morali. All'eroe il brigante è anche contrapposto, perché gli eroi positivi - ufficiali dell'esercito, esponenti delle forze dell'ordine o anche solo uomini solitari che mettono le proprie virtù al servizio dell'umanità - si battono invece per lo sviluppo evolutivo del presente che invece i briganti rifiutano. Così fatto, il brigante è una figura che compare soprattutto nei momenti di transizione. Non a caso i più famosi sono quelli che apparvero in Italia dopo la nascita delle repubbliche giacobine, dopo la formazione dello Stato unitario, dopo la crisi di fine secolo e dopo la fine della seconda guerra mondiale, ovvero tra la fine del fascismo e il miracolo economico che vide nascere finalmente l'Italia moderna. Si pensi a Michele Pezza, detto fra Diavolo, che operò dapprima alla fine del Settecento e di nuovo dopo la riconquista di Napoli ad opera dei francesi nel 1806, a Crocco e Ninco-Nanco che si opposero con tutte le forze ai piemontesi che avevano dato vita all'Italia unita, a Giuseppe Musolino che operò in Calabria tra la fine dell'Ottocento e i primi anni dell'età giolittiana, a Salvatore Giuliano, le cui vicende andarono dal 1944 al 1950, anno della morte del brigante, ma tennero desta l'attenzione degli italiani almeno fino al 1954, quando morì Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano. Non è questo il luogo per stabilire se l'immagine del brigante offerta dall'iconografia risponda o meno alla realtà storica. Ma, come dice Jacques Le Goff, i documenti che ci giungono dal passato sono tutti falsi, perché contengono una modificazione, maggiore o minore, della verità, ma sono anche tutti veri perché ci dicono come il passato ha immaginato se stesso e quale immagine di sé il passato ha trasmesso alle generazioni successive. E il cinema, per la sua natura, non poteva non tenere conto dello stereotipo del brigante trasmesso dal passato. Nel cinema, infatti, i tratti che le figure e gli eventi del passato presentano nell'immaginario dei contemporanei ha una importanza fondamentale. Il cinema comunica attraverso immagini visive, lancia dardi per gli occhi (come scrisse D'Annunzio), e quando si comunica non si può prescindere da ciò che l'interlocutore pensa, sente e dice. Il cinema, insomma, ci fornisce un'immagine del brigante che è ricalcata su quella che si trova nell'iconografia. Basta fare alcuni esempi per rendere ciò più chiaro. Sante Carbone, il brigante protagonista del film di Mario Camerini del 1961, compare nel film all'improvviso, mentre il colonnello piemontese Breviglieri sta cenando con i suoi. Il personaggio del colonnello è interpretato dall'attore francese Bernard Blier per sottolineare la somiglianza nel comportamento tra i piemontesi e i francesi, gli uni e gli altri nemici, in tempi diversi, dei briganti meridionali. Ma quel che è più interessante è l'immagine visiva che Camerini ci fornisce del brigante Carbone. La figura del brigante, come si suol dire, riempie lo schermo, nonostante Ernest Borgnine, l'attore americano che lo interpreta, sia fisicamente tutt'altro che gigantesco. Nel film Sante Carbone appare come un omone grosso, che sembra estendersi in orizzontale. Ha un cappellaccio a falde molto larghe che dilata la sua testa. Un ampio mantello nero lascia intravedere una casacca a due colori su una candida camicia. Mentre la casacca sembra dar luogo a due strisce orizzontali, le braccia arcuate sulle mani, che a loro volta sono poggiate sui fianchi e sono coperte dal mantello nero, accentuano l'estensione in orizzontale della figura del brigante. L'unico elemento chiaro è dunque la camicia quasi luminosa e splendente, che incornicia il volto di Carbone, illuminandolo per attrarre lo sguardo dello spettatore su di esso. Poi la macchina passa dietro a Sante Carbone, che resta inquadrato di spalle. Si vede solo il mantello nero, che occupa gran parte dello schermo, mentre la figura nera del brigante copre e nasconde i piemontesi. L'unica figura che resta in gran parte visibile - ma neppure interamente - è quella di Breviglieri, che saprà tener testa a Sante Carbone e riuscirà persino a farselo alleato, spinto a ciò da un'istintiva simpatia per lui. La stessa cosa accade nella sequenza nella quale Carbone occupa la camera da letto del barone La Mazza. Il brigante giganteggia ancora e anche questa volta prevale la dimensione orizzontale, perché questa volta Carbone appare disteso, con il suo grande corpo, sul duro pavimento, che preferisce, per dormire, al morbido letto dell'aristocratico ospite. Ma la figura che più spesso compare nei film italiani è quella di fra Diavolo, il bandito che si batté con tutte le forze contro i francesi sia nel periodo in cui i giacobini diedero vita alla Repubblica Napoletana del 1799, sia dopo la riconquista del napoletano ad opera di Napoleone Bonaparte tra la fine del 1805 e l'inizio del 1806. Persino un film americano è dedicato alla figura di questo brigante. E' intitolato appunto Fra Diavolo (The Devill's Brother), fu interpretato dalla coppia di comici Stan Laurel e Oliver Hardy e fu diretto nel 1933 dal grande produttore e regista Hal Roach insieme a Charles Rogers. L'aspetto più interessante del film è la sua diretta derivazione dalla letteratura tradizionale. Infatti i titoli di testa dicono che il film, specie per la musica, è tratto dall'opera teatrale musicata da Aubry nel 1830. I titoli non lo dicono esplicitamente ma si tratta evidentemente dell'opera comica Fra Diavolo ou l'hotellerie de Terracine di Daniel-François-Esprit Auber su testo di Eugène Scribe, che è del 1830. Il che dice molto sulla notorietà del brigante italiano all'estero. Anche tra i francesi, ai quali Michele Pezza aveva giurato odio eterno fin da quando essi avevano ucciso suo padre, sessantenne e malato, nel dicembre 1798, poco prima della vittoria della rivoluzione promossa dai giacobini napoletani con l'aiuto del generale Championnet. Questo non è l'unico film ispirato dalla tradizione orale e letteraria sul bandito Michele Pezza, noto come fra Diavolo. A questa tradizione si rifà anche il film di Luigi Zampa, del 1941, tra i primi diretti da questo regista (su una sceneggiatura alla quale aveva collaborato anche Leo Longanesi), intitolato appunto Fra Diavolo. Nel film si fa riferimento alla invulnerabilità del brigante, una leggenda che nacque fin dal 1799. Fra l'altro, nel film trova posto anche il tentativo degli inglesi di conquistare fra Diavolo, solo che Zampa, girando tra il 1940 e il 1941, quando l'Italia combatteva contro la Gran Bretagna, fa pronunciare al brigante una sprezzante frase antinglese. All'inglese che gli ricorda di appartenere a un popolo di navigatori, Michele Pezza risponde: "Già! e navigando vi fermate davanti alle coste degli altri, saggiate l'acqua: è salata, allora è roba inglese. E scendete a terra". Quindi allo stesso personaggio che, quale portavoce dell'ammiraglio Nelson, lo invita a passare dalla parte degli inglesi, Michele Pezza risponde con fierezza: E quando i francesi se ne saranno andati ci verrà lui con i suoi inglesi. Di' all'ammiraglio Nelson che fra Diavolo non ha bisogno di lui per ripulire Napoli dai francesi. Ma quel che denuncia
maggiormente il legame con la tradizione è l'aspetto visivo
del film. All'inizio il brigante appare tra i suoi monti. E' pensoso,
con il capo chino e lo sguardo perso. Non ha nulla di belluino, anzi
è una figura carica di emozioni. Il vestito scuro rende ancor
più misteriosa questa figura vissuta in epoca preromantica.
Per di più, il viso è quasi tutto coperto da un cappello
a falde larghe alto e terminante a punta, che lascia vedere solo lunghe
basette e nasconde i capelli lunghi tenuti insieme da una rete fatta
con una corda alquanto grossa. In cima al cappello ci sono delle piume
d'uccello che avvicinano l'uomo a un volatile. Michele Pezza vive
tra i monti e ha il suo rifugio - una sorta di tana - tra le rocce.
Impugna un fucile. Con una mano lo stringe con forza, con l'altra
lo impugna più leggermente, tamburellando con le dita sul calcio
come fa chi è assorto nei suoi pensieri. Il suo sguardo è
infatti rivolto verso terra e in esso c'è qualcosa di malinconico.
Più in là un altro brigante, in piedi sotto un arco
formato da una roccia, consente di completare la visione dell'abbigliamento.
Poggia il piede su un grosso masso lasciando vedere i suoi calzari,
che sono pezzi di pelle allacciati sul polpaccio con una lunga cinghia. Questo film è stato girato in Sicilia. A Montelepre, dove Salvatore Giuliano è nato. Nelle case, nelle strade, sulle montagne dove regnò per sette anni. A Castelvetrano, nella casa dove il bandito trascorse gli ultimi mesi della sua esistenza e nel cortile dove una mattina fu visto il suo corpo senza vita. Così dice la voce fuori campo di Francesco Rosi, che guida lo spettatore a decifrare la figura e le imprese del suo antieroe. E così descrive quel "regno": Questa è la piana intorno a Montelepre. Paesi l'un dopo l'altro: Giardiniello, Torretta, Carini, Partinico, Alcamo e a pochi chilometri Palermo. La montagna lunga di Sagane, il monte Calcerame, il monte d'oro. Il regno di Giuliano, protetto dall'omertà, dalla passione, dal terrore. Montelepre è sotto la montagna, si vede la gente per le strade, se ne sentono le voci. Dalla terrazza della sua casa arrivano a Turiddu le segnalazioni della madre. Il paese è pieno di carabinieri, ma il bandito è imprendibile. La radio da campo avverte il colonnello degli spostamenti a distanza. Mortai e mitragliatrici pesanti proteggono il piccolo esercito di banditi e fanatici separatisti. Dall'alto delle montagne ogni movimento è controllato e prevenuto. Le lunghe strade bianche di polvere sono sotto il tiro dei fucili di Giuliano. Nell'altra parte della Sicilia, nel versante orientale, nel 1946 un reparto di soldati ha avuto subito ragione delle bande separatiste. Resta però nel suo regno il re di Montelepre. In questa descrizione il rapporto tra Giuliano e la sua terra, e quindi la popolazione siciliana, è strettissimo. Infatti subito dopo aver descritto i monti e i paesi attorno a Montelepre, appare la figura di Giuliano. E' una figura bianchissima, resa candida dal trench, un indumento che Giuliano indossava spesso. Al mantello nero dei briganti del Settecento e dell'Ottocento si è sostituito un impermeabile bianco. Ma anch'esso copre la figura del bandito facendola apparire compatta. Al trombone si è sostituito il mitra. Solo la figura del brigante ora è bianca, il che, oltre a suggerire un'idea di purezza, rende più leggero ed etereo il brigante che salta di sasso in sasso, come una lepre, l'animale al quale fa riferimento il nome del suo paese (Montelepre). Ma anche questo brigante è cupo e triste, tanto che non appare che poche volte e non lo si ode parlare quasi mai. Tutta la sua vicenda suggerisce sentimenti di malinconia: un uomo che ha sognato la libertà della Sicilia e nel 1945 ha cercato, con l'Evis, di "rispondere col fuoco al fuoco dell'Italia contro la Sicilia", ma è diventato, con l'eccidio di Portella delle Ginestre, strumento della mafia, delle forze dell'ordine e del partito di governo. E' impossibile ergersi contro il potere. A Giuliano è accaduto quello che è accaduto a tutti i cittadini di Montelepre che vengono arrestati senza prove, nella convinzione che siano aderenti alla banda di Giuliano: "Marescia', quante volte dobbiamo pagare la colpa che siamo nati a Montelepre?". Nascere in Sicilia, insomma, è una maledizione, che fa ineluttabilmente dei siciliani delle vittime del potere in tutte le sue forme: da quello statuale a quello mafioso. (1 - continua)
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