|
|
Ferdinando "Re Nasone" |
|
Ada
Provenzano, Tonino Caputo, Bruno Alfano
|
Ferdinando
(IV per il Regno di Napoli e II per la Sicilia) sedette sul trono per
65 anni, metà del tempo dell'intera Dinastia, in tempi calamitosi
e tra vicende di capitale importanza. I contemporanei lo hanno descritto
come un bell'uomo, di corporatura gagliarda e slanciata, con lineamenti
accentuati, con un gran naso (di qui, il soprannome); ma debole di carattere,
contraddittorio e instabile negli umori.
Insomma, un buono, ma di una bontà inerte e infruttuosa, quasi sempre arrendevole, talora inspiegabilmente testardo, temerario e vile allo stesso tempo, incline alla franchezza ma più ancora all'ipocrisia sottile, e dunque sopraffatto dalla ferrea volontà della moglie Maria Carolina. Intransigente per quel che riguardava gli aspetti formali, era pronto alla facezia triviale e ai comportamenti plebei. Scarso di cultura, amava più le attività agricole, nelle quali riversava una speciale competenza, che quelle degli affari di Stato, di cui sapeva ben poco. Religioso fino alla superstizione fanatica, lesto a correr dietro ai piaceri: tale si rivela soprattutto nel suo diario personale e nelle lettere familiari, documenti quasi del tutto inediti e sconosciuti, che ci delineano con nettezza un suo fedele, vivace autoritratto. Su un personaggio siffatto non potevano non appuntarsi gli strali della satira e l'interesse dell'aneddotica, che spesso e volentieri hanno distorto i fatti al punto di trasformare il sovrano in un personaggio da burla. Ciò, anche perché Ferdinando, "il Re dei lazzari", prestò facilmente il fianco all'ironia tanto della polemica politica, anche posteriore, quanto delle conversazioni e dei cicisbei dei salotti. Sebbene si siano fatti vari tentativi di riabilitazione, il giudizio degli storici rimane sostanzialmente negativo su questo sovrano, sul quale finirono per pesare non poche responsabilità. Col sostegno della classe politica illuminata che si era venuta formando sotto il suo governo, Ferdinando avrebbe potuto mutare le condizioni e il destino del Mezzogiorno. Purtroppo, come è stato rilevato, "le più elementari paure eccitate in lui, pavido ed imbelle, dagli avvenimenti rivoluzionari della Francia, gli fecero subire la disastrosa politica imposta dalle cieche passioni e dalle sfrenate ambizioni della moglie". Partito da Napoli Carlo III per il trono di Spagna, per la minorità di Ferdinando il Regno venne affidato a un Consiglio di Reggenza, nel quale ebbero peso di rilievo Domenico Cattaneo, Principe di San Nicandro, e il toscano Bernardo Tanucci. Il primo fu l'aio del giovane Re: gelosissimo del suo ufficio, quanto autocrate e sostanzialmente ignorante, ma protetto dalla regina Maria Amalia e dai gesuiti, rese esperto e abilissimo l'allievo nelle arti cavalleresche e nella pratica dell'agricoltura, ma ne trascurò, con le virtù morali, ogni altra istruzione: troppo tardi scoprì che questa educazione sarebbe stata "poco vantaggiosa, per non dire pregiudiziale, a questo Regno", come allo stesso Ferdinando. Il Tanucci, devoto protetto di Carlo III, che da Madrid gli impartiva direttive, fu in realtà il solo ad impegnarsi con fervore intelligente nel governo, nonostante l'opposizione che, per invidia o per fini personali, incontrava nella stessa Reggenza. Questa si sciolse, e con un bilancio attivo, il 12 gennaio 1767, quando Ferdinando, ormai sedicenne, uscì dalla minorità. Ma Tanucci continuò, in qualità di Primo Segretario di Stato, ad essere l'anima del governo. In quello stesso anno il Re avrebbe dovuto sposare l'arciduchessa Maria Giuseppa, figlia dell'Imperatore Francesco I d'Austria e di Maria Teresa. Ma la promessa sposa, pronta a partire per Napoli, morì colpita dal vaiolo. E Ferdinando, ormai affezionato a quella famiglia, si fidanzò due mesi dopo con la sorella minore Maria Carolina, che - celebrate le nozze per procura - il 22 maggio 1768 fece il suo ingresso a Napoli. Bella, galante, affascinante, vitale, anch'essa amante dei piaceri fin oltre il confine dello scandalo, (circostanza che alimentava le dicerie nei salotti e nei caffè), maria Carolina portò una ventata di aria nuova, di giovanile allegria in un ambiente assuefatto alla severa e tetra austerità di Carlo III e di Maria Amalia. Non sappiamo, e forse non riusciremo mai a scoprire, quanto di vero o quanto di fantasioso ci possa essere nella tradizione che la vuole emula di Messalina, tanto da competere, in una compiacente locanda, in una lasciva gara con la marchesa di San Marco. Sappiamo che frequentò con assiduità le logge massoniche, emula del fratello Giuseppe II, che nel 1748 introdusse la massoneria a Milano, e del cognato Alberto di Sassonia, che ne fu "Gran Maestro" a Dresda. Fu per Napoli un'età felice, con la pace che non era minacciata né all'interno né dall'esterno. Proprio alla fine del 1767 i gesuiti, già espulsi dal Portogallo, dalla Francia e dalla Spagna, lo furono anche dal Regno di Napoli e i loro beni, con una rendita di circa 200 mila ducati, devoluti a iniziative laiche per la pubblica istruzione. Furono chiusi molti conventi, ristrette le decime ecclesiastiche, proibiti gli acquisti delle manimorte, estesa la giurisdizione laica, condizionata la validità delle bolle pontificie al regio assenso. La ripresa delle attività terziarie, commerciali, fu cospicua, grazie anche ad alcuni trattati con Stati esteri. Vennero riassestati i porti di Brindisi, di Baia e di Miseno. Furono ristrette la giurisdizione e le prerogative dei baroni. Fu imposta la motivazione delle sentenze. Fu creata la Borsa di Commercio. Fu istituita la colonia di San Leucio, con uno statuto d'intonazione egualitaria. Vennero aperti il Teatro del Fondo (l'odierno Mercadante) e quello di San Ferdinando. Fu fondata l'Accademia di Scienze e Belle Lettere. Napoli era all'epoca un centro intellettuale fervido, di rilevanza europea: insieme con le opere di solida erudizione, vi si pubblicavano i libri del Filangieri, del Pagano, del Conforti, del Galanti. La classe colta dispensava encomi ai sovrani, nello stesso momento in cui riteneva di poter essere fonte e guida morale e politica del Regno. Tanta armonia si incrinò con la caduta di Tanucci, nel 1776, voluta da Maria Carolina, insofferente di quel ministro che, per di più ligio alla Spagna, la impacciava con la sua severità e col suo zelo; e con l'avvento, tre anni più tardi, di Giovanni Acton, già al servizio della Toscana, chiamato a Napoli per riordinarvi la Marina e divenuto poi ministro onnipotente, arbitro del governo e duttile strumento della volontà di Maria Carolina. Inutilmente da Madrid lo stesso Carlo III ingiunse al figlio di allontanare questo personaggio, anche perché la voce pubblica lo indicava come amante della regina. Acton rimase. E si ebbe allora un nuovo corso politico, con l'avvicinamento all'Austria e all'Inghilterra. Anzi, i legami con l'Austria furono addirittura consolidati, nel 1790, col matrimonio tra gli arciduchi Francesco e Ferdinando e le principesse napoletane Maria Teresa e Luigia Amalia, oltre che col fidanzamento del principe ereditario Francesco di Borbone (in seguito Francesco I) con l'arciduchessa Maria Clementina d'Austria. Quando la Rivoluzione francese travolse la monarchia capetingia in Francia, e nel 1793 mandò alla ghigliottina Luigi XVI e Maria Antonietta (sorella di Maria Carolina), i sovrani napoletani divennero sospettosi ed ostili a tutto ciò che potesse ispirarsi a princìpi di libertà e di progresso. A quel punto, intellettuali e monarchi si volsero definitivamente le spalle. Maria Carolina, resa cieca dall'odio, assunse di fatto la direzione dello Stato: terrorizzata anche dalle ombre, si circondò di spie e instaurò un vero e proprio regime poliziesco. L'ansia di vendetta ne fece una sfrenata fautrice di armamenti e di guerra, che dissanguarono le finanze del Regno, vuotarono le casse dei Banchi ed esaurirono le risorse dei privati. Il sempre più debole Ferdinando non era ormai che un esecutore delle decisioni della consorte, una testa di legno nelle mani di Maria Carolina. La quale, isterica fino alle convulsioni, lo teneva in pochissima considerazione e non gli risparmiava - non solo in privato, ma addirittura in presenza dei ministri - continue ingiurie e avvilenti mortificazioni. E Ferdinando, fin eccessivamente aduso a questi umori violenti, li annotava puntualmente giorno dopo giorno nel suo diario, dove con un asterisco distingueva anche gli intimi piaceri coniugali concessigli dalla regina. Certo è che i loro rapporti divennero tanto difficili e complicati, che Maria Carolina, nel 1800, come risulta da un carteggio tra i due sovrani, era addirittura determinata a separarsi dal marito. Che cosa si potessse attendere un Regno in balia delle passioni e della follia di una donna del genere, non era difficile sospettarlo neanche allora. Così, da una parte, si cominciò a cospirare, sorse la "Società Patriottica", gli spiriti liberi si infiammarono; dall'altra, la paura e il sospetto dettero origine alla repressione, e questa, mentre determinò arresti e condanne, mise anche in moto i meccanismi della famigerata e sanguinaria Giunta di Stato, che il 18 ottobre 1794 mandò al patibolo Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliani e Vincenzo Galiani, i primi martiri della libertà italiana. Intanto la Corte napoletana, stringendo patti con Londra e con Vienna, mantenendo un atteggiamento ambiguo con la Francia, mandava le sue navi in soccorso di Tolone assediata dai francesi; e la sua cavalleria in Lombardia, contro le truppe di Napoleone. Quando, nel 1798, i francesi, dopo avere occupato Malta, con lesione dei diritti di Ferdinando, invasero lo Stato romano e vi instaurarono la Repubblica, i Borbone di Napoli si sentirono in immediato pericolo. Tra dubbi, incertezze, scrupoli e pareri discordi, il 22 novembre l'armata napoletana - con alla testa il Re in persona, ma comandata dal generale Mack, avuto in prestito dall'Austria - varcò il confine pontificio, senza dichiarare guerra, anzi stranamente sbandierando propositi non ostili verso i "birboni", come Ferdinando amava definire i francesi. Malgrado la lunga preparazione, mai campagna militare fu più infelice, col gran numero di ufficiali stranieri, con una truppa raccogliticcia, inesperta e pronta alla diserzione, con i servizi logistici inefficienti, con le strade impraticabili, persino con carte topografiche vecchie e difettose. Ferdinando riuscì ad entrare in Roma, ma ben presto, iniziata l'offensiva francese, mal contenuta dal debole esercito borbonico, se ne dovette allontanare precipitosamente e, compiendo quella che egli stesso definì "la fuga d'Egitto", raggiungere Caserta. Da questa città scriveva alla moglie: "Io non ho coraggio di comparire in Napoli, dopo una fuga così vergognosa, né di farmi vedere da nessun altro che da te". Ma la "fuga d'Egitto" non finì a Napoli. L'avanzata dei francesi in territorio napoletano lo indusse a imbarcare se stesso, la famiglia, la moneta dei Banchi e oggetti di valore, per mettersi in salvo a Palermo, raggiunta col vascello di Nelson, sul quale prese posto anche la celebre Lady Hamilton. Nella capitale siciliana l'esilio non fu lungo e tanto meno scomodo: non vennero meno le cacce, la pesca, le distrazioni agresti, proprio come se il Regno perduto non gli fosse mai appartenuto. Crollata la breve Repubblica napoletana, grazie anche alla reazione della plebaglia sanfedista capeggiata dal cardinal Ruffo, Ferdinando recuperò il trono. I tempi che seguirono alla Restaurazione non furono sereni. Una grave crisi finanziaria, il conseguente diffuso disagio sociale, la penuria di viveri, i disordini interni, il peso e il fastidio della presenza di truppe francesi che, per effetto della pace di Firenze (1801), si erano stanziate in Abruzzo e in Puglia, la morte di Maria Clementina, moglie di Francesco: tutto concorreva ad avvilire i sovrani. Ma non per questo erano placati gli spiriti bellicosi della Corte. Ferdinando sottoscrisse nel settembre 1805 un trattato di neutralità con Napoleone, divenuto Imperatore; poi, con un altro trattato del 26 ottobre, si impegnò con l'Austria, l'Inghilterra e la Russia a muovere guerra alla Francia. E, contrariamente al patto convenuto col Bonaparte, fece sbarcare a Napoli soldati inglesi e russi e mise le sue truppe agli ordini del generale russo Lascy. Tanta malafede e tanta stoltezza politica provocarono l'ira di Napoleone che, appena più libero al Nord, distaccò un'armata agli ordini del fratello Giuseppe e del generale Massena ad occupare il Napoletano. Ferdinando non poté fare altro che imbarcarsi e riparare ancora una volta in Sicilia, dove rimase, sotto la protezione inglese, fino al 1815, quando cioè, tramontato l'astro napoleonico, il Congresso viennese gli restituì il Regno. Ma a Napoli, nel frattempo, molte cose erano cambiate. Maria Carolina, allontanata da Palermo dagli inglesi, insofferenti dei suoi torbidi intrighi, era morta nel settembre 1814 nel castello di Hützendorf, senza lasciare rimpianti: neanche in suo marito, che dopo appena due mesi si risposò ("per scrupolo di coscienza", sostenne) con Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, vedova del Principe di Partanna, compagna rispettosa e tenera che non si intromise mai negli affari di Stato. Anche Acton era uscito di scena, essendo morto a Palermo nel 1811. Ma erano mutate soprattutto le condizioni, ed era cambiato lo spirito del Regno, dopo un decennio di governo dei Napoleonidi. La Carboneria vi era allignata, interprete com'era di aspirazioni costituzionali, che Ferdinando non voleva capire, pur avendo lusingato i sudditi con la promessa di uno Statuto in un proclama precedente il suo ritorno. Peraltro, anziché IV di Napoli e III di Sicilia, si intitolò Ferdinando I delle Due Sicilie: i due Regni erano così diventati uno solo, perché volle togliere ogni velleità anche formale di autonomia all'isola, alla quale, nel 1812, per pressione degli inglesi, era stato costretto a concedere una Costituzione. Esplose nel '20, dunque, il moto carbonaro, che si estese alle province più lontane. Ferdinando promise la Carta; poi, fintosi ammalato, elesse Vicario il figlio Francesco. I sovrani della Santa Alleanza, inesorabili custodi del diritto divino e dell'assolutismo monarchico - informati anche da Alvaro Ruffo, ambasciatore a Vienna e portavoce privato di Ferdinando - decisero di intervenire nelle sgradite novità napoletane. Convocarono il Re a Lubiana. Ferdinando vi si recò, dopo aver ottenuto quasi a stento il consenso del Parlamento e dopo aver giurato solennemente di difendere presso le potenze straniere la Costituzione napoletana. Invece, dopo un viaggio fastoso, costellato di cacce, feste e gran pranzi, rinnegata la parola, tornò con le truppe austriache. Queste (rimaste a pagamento a presidiare il Regno), battuti i costituzionali a Rieti, ristabilirono il governo assoluto del sovrano. Ferdinando si era comportato con gli spiriti liberali del Regno allo stesso modo in cui aveva agito con la Banda dei Vardarelli, i briganti che non era riuscito a sconfiggere sul terreno: li attirò in un'imboscata, prospettando un patto di compromesso. E fu strage. Il 4 gennaio 1825, una settimana prima che compisse 74 anni, Ferdinando non si svegliò più. Lo trovarono privo di vita nel suo letto, stroncato da un'apoplessia. Un anonimo poeta partenopeo (ma forse si trattava di Michele D'Urso), poco favorevole al Re, aveva cantato, a proposito dei titoli (IV di Napoli, III di Sicilia, I delle Due Sicilie) assunti dal Re: Fosti quarto,
fosti terzo, Scomparso il sovrano, nessuno rivendicò la paternità dell'epigramma.
Regno di Napoli o delle Due Sicilie? Nel linguaggio
degli italiani la locuzione "le due Sicilie" entrò
probabilmente già al tramonto del secolo XIII. E fu forse Pietro
d'Aragona, re dell'isola dopo che i Vespri ne ebbero cacciato i francesi
di Carlo d'Angiò, il primo a dire che "la sua Sicilia"
non finiva al Faro, cioè a Messina. Ce n'era un'altra, di Sicilia,
al di là dello Stretto, della quale egli ed i suoi successori
si consideravano sovrani.
Un Bonaparte e Murat sul trono di Ferdinando Non si trattava
di schermaglie, ma di fendenti. Napoleone definiva Maria Carolina
"Messalina" e "una specie di megera", ed era ricambiato
da "novello Attila", "animale feroce", fino a
"bastardo corso". Per di più, l'Imperatore francese
aveva intercettato una lettera della regina al generale Armfelt, nella
quale costei sosteneva che se non si sterminavano le truppe francesi
stanziate in Puglia e in Abruzzo era solo perché si aveva paura
dell'altra, napoleonica, appunto, che l'avrebbe sostituita. E quando,
venendo meno al patto di neutralità, Ferdinando fece sbarcare
a Napoli un corpo anglo-russo, Napoleone colse l'occasione al volo,
e dal castello viennese di Schönbrunn emise la sentenza: "La
Casa di Napoli ha cessato di regnare".
Sant'Elmo, 1799 Anche nel Napoletano,
come nel resto d'Europa degli assolutismi, alla vigilia del '99 si
diffondono i nuovi fermenti. Ma recepiti da una scarna élite,
che intende abbattere gli strumenti tradizionali del potere: censura,
regime poliziesco, reti di spie. Viene fondata la "Società
Patriottica", che più tardi darà origine al "Club
rivoluzionario": fra gli aderenti, il giovane Vincenzo Cuoco,
avvocato e medico, futuro storiografo della Rivoluzione, il quale
vagheggerà una società utopistica, a regime socialista,
fondata sull'agricoltura.
|
![]() Tutti i diritti riservati © 2000 |