|
|
EUROPA E OCCUPAZIONE |
|
Ferdinando
Baretti
|
Ripercorriamo
in sintesi il percorso che l'Italia ha seguito per far parte dell'Unione
monetaria europea. Per il nostro Paese l'ingresso nell'Uem era diventato
indispensabile nel momento stesso in cui i due maggiori Stati europei,
Germania e Francia, che sono anche i nostri maggiori partner commerciali,
avevano deciso di avviarne la realizzazione. Restare fuori dall'Euro
avrebbe recato troppi danni alla posizione del nostro Paese in Europa.
Si aggiunga che ancor prima di vedere finalmente la luce, l'Euro si
è dimostrato efficace nel proteggere la nostra moneta dal terremoto
finanziario che ha scosso mezzo mondo.
Stabilito per vero tutto questo, senza alcuna riserva pregiudiziale, è forse tempo di cominciare sul serio a riflettere sui costi occulti della marcia forzata verso l'Unione monetaria, e sui possibili modi che potrebbero consentire di recuperarli. I costi espliciti li conoscono tutti: si riassumono nel forte aumento della pressione fiscale e parafiscale, nella conseguente stagnazione dei consumi, nel rallentamento della crescita. Ma sicuramente non si è trattato di sacrifici che abbiano sostanzialmente impoverito le famiglie italiane. Questo, tuttavia, era solamente un risvolto del cartello del prezzo dell'Euro. Sull'altra faccia erano scritte altre voci di voci che sono state puramente e semplicemente ignorate nel vastissimo dibattito sull'ingresso a Maastricht. Concentrare l'attenzione sulla necessità categorica di rientrare in determinati parametri monetari, a partire dall'ipnotico 3,0 come massimo deficit accettabile per il pubblico bilancio - ha sottolineato Luciano Gallino -sembra avere impedito non soltanto alla politica economica, ma anche all'intera società politica di rendersi conto che intanto altri parametri di non minore importanza andavano sensibilmente peggiorando. L'aggravamento più vistoso, verificatosi prima di Maastricht, ma che la concezione prevalentemente monetarista di esso predominante in Italia ha contribuito ad occultare fino a tempi recenti, si è avuto proprio nel numero degli occupati. Basterà ricordare che tra il 1992, anno della prima durissima legge finanziaria, e il 1995, l'occupazione rilevata in Italia si è ridotta di un milione e trecentomila unità, pari ad oltre il sei per cento della popolazione in condizione professionale. Una cifra che va giudicata enorme. Tuttavia quasi nessuno (e nessuna forza politica) sembra avervi dato gran peso, né in quegli anni né negli anni successivi. La faccia monetaria dell'Euro dettava legge e impediva di guardare con maggiore attenzione in altre direzioni. Così come distoglieva l'attenzione, le energie, le intelligenze, anche dal degrado della posizione strategica dell'Italia nell'economia europea e mondiale, a causa del declino, quando non della scomparsa di interi settori-chiave dell'industria, dalla farmaceutica all'informatica. Né, d'altra parte, ci si deve nascondere che un conto è allargare, o proporsi di allargare i criteri di Maastricht includendovi i tassi di disoccupazione (anche se sarebbe molto meglio parlare invece di tassi di occupazione); e un altro conto, ben diverso, è elaborare, in presenza di quel che sta accadendo oggi nel mondo, politiche dell'occupazione realmente efficaci. Ma anche se non dovesse fare poi molta strada, almeno un merito al progetto che è sostanzialmente franco-tedesco bisognerebbe pur riconoscerlo.
|
![]() Tutti i diritti riservati © 2000 |