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LA NARRATIVA DI GINO DE SANCTIS |
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Lavinia
Montillo
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E'
alquanto difficile tracciare un profilo biografico e professionale di
Gino de Sanctis; egli, infatti, appartiene a quella bene individuata
pattuglia di giornalisti e scrittori che operarono dal primo al secondo
dopoguerra fino ai decenni post-bellici della guerra fredda.
Gino de Sanctis nasce a Lecce il 20 novembre 1912 da Isabella Prati e Brizio de Sanctis; nel 1926 si trasferisce definitivamente a Roma insieme con la famiglia. Si laurea presso l'Università La Sapienza in giurisprudenza nel 1937 e, tre anni dopo, in scienze politiche. Parte volontario come ufficiale di fanteria nella guerra d'Etiopia e, mentre è impegnato sul fronte, viene pubblicato nel 1936, dall'Unione Editoriale d'Italia, il suo primo libro, intitolato La nostra tribù ed altri racconti. Il suo secondo libro, La mia Affica - Storie di uomini e di bestie, fu pubblicato da Mondadori nel 1938 e contiene brani che de Sanctis inviava alla "Gazzetta del Mezzogiorno" dal continente africano. Il successo di queste due opere fece sì che si aprissero per lui le porte de "Il Messaggero", ma ben presto perse il posto al giornale a causa del suo nuovo impegno politico avverso al regime fascista. Durante la seconda guerra mondiale combatté nelle spedizioni in Albania e in Grecia e, sul fronte italiano, al fianco della Quinta Armata Americana e dell'Ottava Britannica. Nel 1944 collaborò con i partigiani alla guerra di liberazione in Val Padana e, da questa sua esperienza, con lo pseudonimo di Partisan, scrisse un racconto intitolato Due litri di benzina, che in quel periodo circolò segretamente e il quale, in seguito, entrò a far parte de Il violino della Quinta Armata, edito da Feltrinelli nel 1961. Nel 1944 il Comando Alleato lo destina a dirigere "Il Giornale di Salerno", di grande rilevanza dal punto di vista storico in quanto risulta essere il primo giornale libero all'indomani della caduta del regime fascista. Dopo di che diresse a Milano "La Patria", giornale dell'Esercito, "Il Giornale del Mattino" a Roma, "Il Giornale di Napoli" e "Il Risorgimento". Tuttavia, l'esperienza giornalistica che l'autore salentino considera la più importante della sua carriera è la creazione della rivista mensile "Mercurio" insieme ad Alba de Cespedes; egli ne ricoprì il ruolo di redattore capo dal 1944 al 1947. Terminato il lavoro di redattore capo a "Mercurio", de Sanctis si dedicò completamente alla professione giornalistica, nella veste di inviato speciale de "Il Messaggero". Grazie ai suoi innumerevoli viaggi, egli diventò testimone scrupoloso e sensibile di alcuni tra i più significativi avvenimenti storici dell'ultimo trentennio; dalle pagine del quotidiano romano dell'epoca, si può leggere dei suoi reportages dalla Germania, attraverso i quali fu possibile ricostruire la rete della resistenza tedesca, quelli dall'Australia, dalla Corea, dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla guerra di Suez. Contemporaneamente assecondò i suoi molteplici interessi scrivendo sceneggiature cinematografiche, dirigendo il quindicinale politico "Europa Libera", facendo parte del gruppo direzionale de "La Fiera Letteraria", quando il settimanale riprese le pubblicazioni nel 1971. Firmò degli articoli di terza pagina, con scadenza più o meno fissa, su "Il Corriere d'Informazione", "Il Resto del Carlino", "Il Gazzettino di Venezia" e sui settimanali "Oggi" e "L'Europeo". Nonostante l'attività di inviato speciale e gli altri interessi lo assorbissero per buona parte del tempo, egli, non dimenticando l'amore per la narrativa, pubblicò altri quattro libri significativi per la sua carriera di scrittore: Viaggio di ritorno (Roma, Mediterranea, 1948), unico vero romanzo della produzione desanctisiana, con cui vinse il "Premio Salento" in quello stesso anno, Regina di cenere (Bologna, Cappelli, 1965), che raccoglie alcuni dei suoi migliori elzeviri, Migliaia di chilometri (Milano, Ceschina, 1958), che ci introduce alle opere della maturità di de Sanctis narratore, Il minimo d'ombra (Milano, Rizzoli, 1968), viaggio nella memoria in un'Africa magica e selvaggia, ed infine la sua ultima fatica letteraria, L'Augusta e i clienti (Milano, Pari, 1976). La sua attività narrativa cesserà tre anni dopo con la pubblicazione de La congiura di San Michele, raccolta di cronache apparse a puntate sul settimanale "Oggi" nell'agosto 1947. Le sue doti di narratore e di giornalista gli sono valse premi di caratura nazionale come il "Premio Salento" nel 1948, il "Campiello" nel 1967, l' "Aspromonte" nel 1968, il "Selezione Strega" nel 1967, il "Marzotto", il "Cavarelli", ed infine il "De Gasperi" per il giornalismo nel 1966. Attualmente de Sanctis, dopo un'esistenza avventurosa e travagliata, vive nella sua casa romana assieme all'amata consorte Anna, a cui è legato da oltre quarant'anni. Molto spesso è stato chiesto a de Sanctis se esista un rapporto tra il narratore e il giornalista e in che modo una delle due figure possa influenzare l'altra; egli risolve questa annosa querelle con un giudizio ad personam, affermando che le due professioni non sono affatto legate tra loro poiché l'essere giornalista non può suggestionare l'attività di narratore più di quanto possa farlo un'altra qualsiasi professione: è un altezzoso errore dei chierici della letteratura pura considerare il giornalismo un ostacolo per il narratore. Eppure non si può fare a meno di osservare che buona parte della produzione desanctisiana, tanto nel temi quanto nella lingua e nello stile, sia stata condizionata dalla sua attività di inviato speciale per "Il Messaggero". De Sanctis ha sempre cercato di affrancare la sua scrittura da mode e contaminazioni di stile per centrare un unico obiettivo: dar voce a ciò che è vero, esiste e dura perennemente. Sin dalla sua prima opera ci appare impegnato a concretizzare una prosa priva di orpelli e di bizantinismi, essenziale, stringata, quasi necessaria, mai però arida, ma pronta ad assecondare le volute dell'animo. Come uomo e come narratore si è sempre allontanato da ogni tendenza e ogni movimento letterario perché convinto che l'uomo contemporaneo sia così permeato fino alle più intime fibre dalle suggestioni del suo tempo, da non potersi permettere il lusso di seguire mode e atteggiamenti, se mai deve ricercare in se stesso un'originalità di pensiero che si tramuti in linguaggio. Peregrinando in ogni parte del mondo, de Sanctis ha avuto modo di scandagliare e conoscere a fondo l'umanità tutta giungendo alla conclusione che, al di là delle distanze che separano popoli lontanissimi per usi, costumi e cultura, le persone si assomigliano più di quanto non si immagini, perché i sentimenti e le emozioni sono vissuti ovunque, e ovunque allo stesso modo. Questo giornalista ha il merito di essere stato tra i primi testimoni fedeli e partecipi degli avvenimenti che macchiarono di sangue il nostro ultimo cinquantennio. Insisto sugli aggettivi fedele e partecipe perché non tutti i cronisti e gli intellettuali del tempo riuscirono a valutare quegli anni con l'imparzialità e la pietà che richiedevano. I racconti nati da esperienze di viaggio, che facevano parte da tempo della tradizione narrativa americana, inglese e francese, hanno faticato a trovare una loro collocazione nel panorama letterario italiano; così de Sanctis ha dovuto combattere non poco per ottenere che le sue opere fossero considerate nell'autonomia del genere a cui appartengono, senza sentirsi affibbiare il titolo di "scrittore improprio". Oltre ad essere uscito dagli schemi tradizionali della narrazione, egli, in realtà, contraddicendo palesemente le sue affermazioni, si lascia trascinare dalle esperienze della sua professione donandoci pagine di intensa emozione e contribuendo in maniera determinante alla sprovincializzazione della letteratura italiana. Se è noto che assolvere ai compiti di scrittore e giornalista con coscienza ed onestà d'intenti e fare cultura, diventando un divulgatore della stessa, siano mete difficili da raggiungere, tutto ciò deve essere stato ancora più arduo per de Sanctis che ha operato in un periodo caratterizzato da forti contrasti ideologici, rimanendo costantemente un uomo non sospetto di obbedienze culturali e lontano da ogni ideologia di partito. Secondo de Sanctis, l'intellettuale è colui che dà una vera impronta alla sua epoca, facendosi portavoce di civiltà e di cultura poiché il lavoro del l'intellettuale si annulla solo quando diventa strumento della dittatura o del totalitarismo. Egli ha lavorato sorretto dalla convinzione che: "il vero progresso non è cieco destino ma diuturna e faticosa conquista di un equilibrio, di una morale, di una volontà intelligente che di volta in volta ci salvi dalle aberrazioni di quella cultura che intende tradurre i sogni in schemi politici. L'uomo integrale è lo schema, ogni altro schema che lo proponga come oggetto e non come soggetto della storia, è una gabbia". Le opere giovanili "Chi c'è stato ha tanto da raccontare. Chi non c'è stato ha tanta voglia di ascoltare. Così è nato questo libro. Più che un libro è una serie di appunti di impressioni, una raccolta di favole che ho immaginato durante le lunghe ore di marcia sotto il cielo stellato o nella gloria del sole africano [...]" (1). Ancora una volta,
le premesse dei suoi libri si rivelano illuminanti per chiunque voglia
capire lo spirito che li pervade. Se i recensori del tempo avessero
prestato maggiore attenzione non solo alla premessa, ma a tutta l'opera,
liberandosi dai retaggi politico-culturali dell'epoca, non avrebbero
commesso l'errore di ascrivere La mia Africa tra le opere intenzionate
a celebrare l'imperialismo fascista. Anzi, è proprio a partire
da questo momento che comincia ad incrinarsi il rapporto tra de Sanctis
ed il regime: infatti ne La mia Africa l'autore contribuirà,
anche se inconsapevolmente, alla diffusione di un neorealismo ante
litteram, sia su un piano linguistico, sia su un piano ideologico. "[ ... ] nella vecchia decrepita Europa, viluppi inestricabili di reticolati avvolgono i cuori, i cervelli, le coscienze e [ ... ] gli egoismi si sono barricati dietro fittissimi reticolati fatti di misconoscenza, di ignoranza, di avidità, di follia, di tradimento [...]" (2). De Sanctis invoca una Giustizia che riesca a spezzare quei reticolati: "[ ... ] una Giustizia urge. O verrà dagli spiriti pacificati, dalle coscienze ravvedute o verrà, tremenda, la Giustizia delle baionette, delle mitragliatrici, delle 3 bombe e dei moschetti" (3) Questa Giustizia,
tanto acclamata, si sarebbe scatenata di lì a poco, con il
suo carico di tragica violenza, scuotendo gli animi di tutti, a lungo
intorpiditi da ideologie assurde e suicide. ""Lia", disse a mezza voce e gli parve di aver gridato. La donna si voltò di scatto, sgomenta. Si guardò attorno. Fece un passo verso di lui, con le braccia tese, e le tremavano le mani. "Tu, Giacomo, tu... ". Giacomo dimenticò ogni proposito: disperatamente se la strinse al petto, e cercava di baciarla, ma ella gli si teneva avvinghiata, la testa premuta contro la spalla, in un fremito convulso" (4). Nonostante il
tempo trascorso, i suoi sentimenti non erano affatto cambiati, anzi
erano più vivi che mai. Ma Dalla Piccola doveva arrendersi
alla realtà: Lia non gli apparteneva, la donna che aveva sempre
amato era legata a Walter Lucenti, rude, violento, sicuro di sé,
una personalità agli antipodi rispetto a quella di Giacomo.
Il viaggio che per il medico già non si apriva sotto i migliori
auspici, cominciò, dopo l'incontro con Lia, a sembrargli insostenibile;
l'unica persona capace di comprendere il suo travaglio interiore era
il capitano Curdis. La tensione tra Giacomo e Walter cresce di giorno
in giorno fino ad esplodere nel momento in cui Giacomo vedrà
Lia selvaggiamente picchiata dal suo antagonista. Egli interverrà
in suo aiuto, ma ne avrà la peggio; Walter lo minaccia addirittura
di morte davanti a tutti, ma ciò che lo turba maggiormente
è che i passeggeri della nave conoscano la sua storia e ne
parlino sogghignando. Inoltre, lo scontro con Walter gli ha provato,
una volta per tutte, che Lia ormai prova nei suoi confronti solo sentimenti
di pietà. Quanto di quello
spirito che tenne uniti gli animi nei giorni della Resistenza, quanta
di quella volontà di rinnovamento che alimentava le speranze
di gran parte degli italiani al tempo della Liberazione e che costituiva
il naturale e necessario incentivo alla lotta, è rimasto negli
animi a distanza di non molti anni da quegli avvenimenti? Se, per Giuseppe
Neri, Il violino della Quinta Armata poté passare inosservato
nel 1961, anno di pubblicazione dell'opera, oggi, a cinquant'anni
dalla fine della seconda guerra mondiale, con il crollo delle ideologie
comuniste e con la rivisitazione sotto certi aspetti per nulla edificante,
di una pagina di storia italiana ancora tutta da scrivere, la lettura
di questo libro nella genuinità degli intenti ripropone alcuni
temi che, pur se trattati già da altri scrittori, conservano
intatti la loro efficacia. Il libro, che si compone di sei racconti, alcuni dei quali comparvero per la prima volta sulle colonne di "Europa Libera", la rivista curata dallo stesso de Sanctis, conserva una sua involontaria intrinseca unità per l'identica atmosfera, per l'identico clima, per l'identica tensione che in esso si riscontra. Ed è grazie a tutti questi motivi che Il violino della Quinta Armata può essere annoverato, a pieno diritto, un libro appartenente alla letteratura neorealista e, soprattutto, a quel delicato momento definito da Maria Corti di "passaggio dalla preistoria alla storia del neorealismo" nel quale alcuni scrittori, fossero o no dei potenziali neorealisti, si incontrarono con i modelli della scrittura clandestina e memorialistica. De Sanctis fu tra coloro che avvertirono l'impulso di mettere su carta le esperienze eccezionali di quell'esaltante periodo tramite strutture compositive tipiche dei fogli clandestini: resoconti compromessi col racconto, racconti brevi di eventi veri, pagine di diario (7). La Corti considera il racconto di de Sanctis Tre piani di scale uno dei testi più rappresentativi della narrativa neorealistica: Tre piani di scale, autore Partisan, [ ... ] inizia con un topos della memorialistica resistenziale: "Il fatto è vero. Zeta potrebbe raccontarlo lui, ma non vuole. Bisogna allora che lo narri io" (8). Il primo racconto,
intitolato Il volto del nemico, è sicuramente il più
importante e originale del libro, narra la lotta cruenta per la sopravvivenza
di un gruppo di dieci persone, tra italiani e tedeschi, che si ritrovano
ostaggi del mare su un piccolo curley in seguito all'affondamento
di una nave militare. Il volto del nemico, per i colpi di scena che
riserva e per le pagine di vibrante drammaticità che contiene,
si legge con il fiato sospeso, in un crescendo continuo di emozioni
e crudeltà le quali precipitano, senza commenti da parte dell'autore,
nella tragica soluzione finale. In Due litri di benzina, de Sanctis
è il testimone delle imprese spavalde e impietose di un gruppo
di tedeschi in una zona della Russia i quali, costretti a battere
in ritirata, per una insensata vendetta, cospargono di benzina una
giovane russa e la ardono viva, mentre ne I fiori gialli della primavera
e Tre piani di scale, ci narra, con accenti di composta e antiretorica
umanità, alcuni episodi di lotta partigiana dove chiunque era
disposto a perdere la vita e a collaborare nell'ombra pur di poter
riscattare l'Italia da quell'infame condizione. "mosso da un amore per l'Europa pari all'esecrazione per l'hitlerismo [ ... ], sono una preghiera alla bellezza perché scendesse sul mondo, un canto di struggente amore su un'umanità deforme d'odio e di miseria" (9): in definitiva rappresentano il simbolo della civiltà che vince sulla barbarie della guerra, l'amore che trionfa sull'odio. (1 -continua)
Stazione di posta (1993) Anima mia,
Note 1) G. DE SANCTIS,
La mia Africa, Milano, Mondadori, 1939, p. 15. Preciso che, a tutt'oggi,
si sta lavorando ad una catalogazione completa della bibliografia
critica di Gino de Sanctis, costituita essenzialmente da recensioni
apparse su riviste e quotidiani, alcune delle quali portano la prestigiosa
firma di Pancrazi, Titta Rosa, Personè. |
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