E'
ancora la famiglia il luogo migliore per allevare i bambini?
La domanda è sicuramente provocatoria, specie per chi è
legato alle tradizioni, alle frasi del tipo: è più valida
la peggiore famiglia del migliore istituto.
La risposta naturalmente non è semplice e certamente non è
valida per tutti i bambini e per tutte le età.
Lo studio va articolato tenendo conto dei seguenti elementi:
1) Evoluzione della famiglia dall'epoca preindustriale a quella industriale
e post-industriale (struttura, ampiezza, funzioni, con particolare riguardo
alla funzione assistenziale per i minori e gli anziani).
2) Struttura, funzioni, validità delle comunità o comunque
delle istituzioni che si sono avvicendate nei tentativi di sostituire
la famiglia.
3) Conclusioni in rapporto all'età, alla salute, alle condizioni
sociali e familiari dei minori.
Evoluzione
della famiglia
Notevole, anzi radicale, è il mutamento dell'ampiezza, della
struttura e delle funzioni della famiglia dall'epoca pre-industriale
ad oggi.
Anche se non si può fare (per la natura di questo intervento)
una storia dell'istituto familiare, né delle teorie sulla genesi
della famiglia occidentale pre-industriale, non si può però
prescindere, per una esatta comprensione della storia delle istituzioni
di consulenza e di assistenza alla famiglia, da una valutazione dell'evoluzione
della famiglia nel corso dell'ultimo secolo.
La famiglia occidentale dell'epoca pre-industriale è caratterizzata
dal racchiudere in sé, inscindibilmente, i valori della procreazione,
della sessualità e del matrimonio.
Le sue origini sono nella famiglia agnatizia romana, nella famiglia
ebraica, nel Cantico dei Cantici, ed in particolare nel modello della
Sacra Famiglia; l'aspetto agnatizio è mitigato, specie nei
popoli di cultura germanica, dai valori dei legami cognatizii, il
che spiega, presso quei popoli, la maggiore autonomia della donna.
In questo tipo di famiglia la consultazione sui problemi familiari
era svolta con la collaborazione del sacerdote, del medico di famiglia
ma, in gran parte, nasceva dalla saggezza degli anziani (cioè
il consultorio era nella famiglia).
Naturalmente i problemi che affioravano erano pochi e le soluzioni
prevedibili e conformiste.
Epoca industriale
La società industriale è caratterizzata dalla migrazione
dei nuclei verso le zone di attrazione; mentre nelle zone di fuga
si ha depopulazione ed invecchiamento dei nuclei, nelle zone di attrazione
i nuovi nuclei si caratterizzano così:
Si ha così una perdita di funzioni con trasferimento, a volte
delle stesse a strutture pubbliche e, a volte, con vera e propria
scomparsa della funzione.
Si modificano di conseguenza anche i valori gerarchici.
E cambiano la condizione e i ruoli dei membri. Vediamo in particolare
quello della donna.
Ma all'epoca industriale fa seguito un'epoca post-industriale, caratterizzata
oltre che dalla preminenza delle attività terziarie e cioè
dei servizi anche da:

Numerose sono in tale epoca le cause di fragilità familiare.
Di particolare interesse è la trasformazione dei concetti relativi
alla procreazione e alla sessualità:
Nell'epoca preindustriale, in sintesi all'inizio del secolo, la famiglia
era agnatizia, patriarcale, plurinucleare (convivenza di più
generazioni) con unità tra luogo di lavoro ed abitazione, i
figli erano una fonte di ricchezza e di prestigio, le funzioni familiari
molteplici:
a) trasmissione di religione e riti, patrimonio e risparmio familiare;
b) assistenza ai membri incapaci (bambini, vecchi, minorati);
c) attività pedagogica (modelli familiari, apprendistato);
d) difesa del nucleo.
Con l'epoca industriale, mentre nelle zone di fuga si ha una depopulazione
ed un invecchiamento dei nuclei, nelle zone di attrazione migratoria
i nuovi nuclei cedono allo Stato e comunque a strutture extrafamiliari
i compiti relativi al capitale di lavoro, al risparmio, alla previdenza,
all'assistenza ai membri incapaci, all'istruzione e di conseguenza
vengono sbiaditi anche i modelli materno e paterno perché i
genitori vivono con i figli, nel migliore dei casi, solo i momenti
di riposo e non quelli significativi del lavoro. i figli divengono
responsabilità e non investimento.
Nascono, specie per il lavoro extradomestico della donna, necessità
di nidi e di ospizi per vecchi. Le cause di fragilità della
famiglia nella nostra epoca sono nella esiguità delle sue strutture,
nella mancanza di funzioni, nelle scarse capacità assistenziali,
nella svalorizzazione della gerarchia, nelle motivazioni solo affettive
e sessuali delle unioni, e nella idealizzazione, da parte di forze
politiche e mass media, dei ruoli sociali extradomestici. Vengono
allontanati dalla famiglia anche i membri normali in condizioni di
bisogno (nidi di infanzia, ospizi per vecchi); vengono rifiutati anche
i futuri membri perché bisognosi di assistenza (contraccezione,
aborto).
Le previsioni sull'avvenire della struttura e dell'ampiezza della
famiglia sono state elaborate dall'ISTAT. Si parte da una fecondità
bassissima in Italia, la più bassa di tutto il mondo (1,32
figli a donna) scavalcando in circa 35 anni i Paesi tradizionalmente
a più bassa natalità (Inghilterra, Svezia, Germania,
Austria, Svizzera) e si fanno 3 previsioni: la media, la massima e
la minima:
Una visione mondiale del fenomeno, secondo una previsione media (medium
variant) può essere la seguente:
I primi dati tendono però a smentire le previsioni dell'OMS;
si è toccata in Italia nel 1991 la cifra record di 1,27 figli
a donna e, a mio parere, il dato tenderà ad abbassarsi ulteriormente,
perché è un dato molto composito; vi sono regioni con
valori sotto 0,8 (Liguria) e regioni ancora al di sopra di 2-2,2 (Campania,
Puglia); vi sarà, come è avvenuto per tutti i fenomeni,
una assimilazione del Sud alle regioni più ricche; pertanto,
non solo siamo ora la regione a più bassa natalità del
mondo, ma ci staccheremo molto dagli inseguitori. Il Nord Italia fa
ora circa la metà dei figli degli altri Paesi europei e degli
Usa. Come è avvenuto altrove, alla lunga il fenomeno si invertirà,
ma pensare che nel prossimo futuro ci possa essere un bambino con
un fratello èuna illusione.
In complesso, nei popoli ad elevato sviluppo, il tasso di fecondità
è circa una volta e mezzo quello italiano e circa due volte
quello dell'Italia del Nord. L'allarme è stato già lanciato
dall'Accademia dei Lincei, dalla Fondazione Agnelli nel 1990 e ultimamente
dai vescovi italiani, in occasione della giornata per la vita. I vescovi
propongono una politica della famiglia con revisione degli assegni
familiari, facilitazioni di accesso alla casa, tutela della donna
lavoratrice e provvedimenti a favore delle casalinghe e delle famiglie
monoreddito, con sgravi fiscali.
La ricerca delle cause di questa particolare denatalità italiana
è molto difficile. Non può trattarsi di infertilità
o di sterilità, perché il numero dei matrimoni senza
alcun figlio è di circa il 15% sul totale dei matrimoni (273
mila primogeniti su 321 mila matrimoni); sempre dell'85% era nel 1960
ed era addirittura dell'80% nel 1932 (Tagliacarne).
L'indice di nuzialità è sceso verticalmente in Italia
dal 1960 al 1991 (da 7,7 a 5,3 / 1000 abitanti), così come
in Francia ed ancor più in Germania (dal 9,5 a 5,7), ma tale
fenomeno può, in parte, spiegare la diminuzione del numero
dei nati nel Paese, ma non la diminuzione del numero di figli a coppia,
che è il fenomeno più appariscente italiano.
L'Italia è tra i Paesi con discreto livello di provvidenze
per la donna lavoratrice; si pensi che solo ora, sotto l'amministrazione
Clinton, negli Stati Uniti una madre può godere della conservazione
del posto per tre mesi di assenza post-partum e senza retribuzione;
da noi da molti decenni (nelle forme attuali dal 1971) tale diritto
esiste e con retribuzione. Più favorevole della nostra è
solo la legislazione inglese, con 40 settimane complessive di riposo
di maternità, di cui 30 post-partum. Non altrettanto favorevole
è da noi l'assistenza economica alla maternità e alla
famiglia (calcolata in potere di acquisto standard, l'Italia elargisce
per la maternità e l'allevamento di figli inferiori a 15 anni
una somma che è circa un terzo di Danimarca, Inghilterra e
meno della metà di Germania e Francia; i risultati si potrebbero
vedere in un confronto tra Italia ed Inghilterra in rapporto alla
percentuale di primogeniti sul totale dei figli:
L'età media delle spose è aumentata di un anno dal 1960
al 1990 (da 25,1 a 26,1), altrettanto si è innalzata (da anni
25,8 a 26,7) l'età di primiparità, ma nel complesso
il picco di maternità complessiva (tasso di fecondità
in rapporto all'età) è più spostato (circa 29
anni).
Si potrebbe pensare che con il diffondersi delle tecniche contraccettive
il numero dei figli risponda al desiderio di autolimitazione della
coppia, ma una indagine multiscopo sulle famiglie dell'ISTAT svolta
attraverso un questionario somministrato a donne da 15 a 44 anni mostra
che almeno per le donne si ha realmente un numero di figli inferiore
al numero considerato ideale, al numero desiderato e al numero concretamente
programmabile.
Vi è corrispondenza tra il numero di figli che si hanno nella
realtà e il numero di figli ritenuto ideale, desiderato e ritenuto
programmabile per quel che riguarda gli aspetti regionali; in pratica
le regioni dove si fanno meno figli sono anche quelle in cui meno
si ama e si idealizza la maternità e sono anche quelle a maggior
lavoro extradomestico della donna, ma in ogni caso sia nelle regioni
con meno figli sia in quelle con più figli (gli estremi sono
Liguria e Campania) si finisce con l'avere molti meno figli di quanti
siano ritenuti ideali, desiderati e programmabili. Certamente le difficoltà
di allevamento del primo figlio giocano successivamente un ruolo negativo.
In sintesi, il 44,3% delle donne interpellate ha meno di 2 figli,
mentre solo il 21,5% desiderava averne così pochi.
Bisogna però pensare che non abbiamo un numero di lavoratrici
extradomestiche maggiore di altri Paesi occidentali, anche se il lavoro
nell'industria e nel commercio da noi è molto più recente
(le grandi migrazioni interne sono tra gli anni '50 e '70) e l'organizzazione
sociale della nuova famiglia è ancora incerta.
Da noi gioca anche sfavorevolmente la rigidità degli orari
di lavoro. Il part-time è stato a lungo avversato da imprenditori
e sindacati, cosicché nel 1989, mentre a part-time in Europa
era il 28,8% delle lavoratrici, con punte del 58,3% in Olanda, del
43% in Gran Bretagna e del 40,6% in Danimarca, in Italia la quota
era del 10%. Sembrerebbe da questi dati che la percentuale di part-time
sia in rapporto con il maggior avanzamento della legislazione sociale.
E' anche sfavorevole la rigidità del mercato del lavoro, specie
nell'impiego comunale, statale, parastatale, bancario; qui si conquista
un posto per tutta la vita e se lo si lascia per 2-3 anni per fare
la madre non lo si afferra più! In sintesi, o si fa la madre
o si mantiene il posto.
Dovrebbe giocare un certo ruolo anche la diffusione in Italia del
lavoro nero, che non è accompagnato da provvidenze sociali;
si tratta di donne che debbono tornare a lavorare appena dopo il parto!
Le separazioni personali sono circa il 22% dei matrimoni nel Centro-Nord
ed il 9% nel Mezzogiorno e per circa il 75% sono separazioni che avvengono
nell'età feconda della donna (sotto 39 anni), ma si tratta
di problema comune ad altri Paesi (Inghilterra, Germania, Olanda,
Danimarca, Francia ed anche, nel suo complesso, l'Europa, hanno più
interruzioni di matrimoni dell'Italia); i procedimenti sono però
molto più frequenti, in Italia, nelle regioni a più
bassa natalità e comunque sono circa raddoppiati negli ultimi
10 anni.
Una certa influenza sulla denatalità può avere una legislazione
sulla interruzione volontaria della maternità tra le più
liberali; ma non è affatto detto che i circa 160.000 aborti
legali l'anno sarebbero stati dei neonati, e comunque negli ultimi
10 anni il fenomeno è in diminuzione, mentre la denatalità
è aumentata. il tasso di aborti è ugualmente elevato
in Inghilterra, Olanda e Francia, mentre la spiccata denatalità
è la nostra (tasso di fecondità di 1,26 contro 1,7 medio
di questi tre Paesi).
Anche se, come medico, ho in orrore l'aborto volontario, non intendo
approfittare della denatalità per appoggiare le mie tesi!
Certo, una famiglia nucleare, come la nostra, per povertà di
rapporti e problemi logistici svolge con estrema difficoltà
i compiti di allevamento ed istruzione dei figli. Unico vantaggio
è che forse si potranno meglio recuperare i nonni, trattandosi
di nonni con un solo nipote, sempre che vi sia una idonea ubicazione
delle abitazioni; le nostre città tendono a disperdere le famiglie
e non ad aggregarle. Se le due abitazioni sono vicine, una figlia
unica, a sua volta con un figlio solo, per di più avuto in
relativamente tarda età, potrà meglio assicurarsi l'assistenza
dei nonni.
LE COMUNITA'
A parte le tradizionali comunità religiose, che partivano comunque
anche esse da un rifiuto della struttura sociale e della famiglia,
che ne era il perno, comunità di sostituzione della famiglia
si sono tentate (Fourier e Owen) nel secolo scorso nel Nord America.
Analogamente nella Russia, nei periodi rivoluzionari, accanto ad una
codificazione libera dell'istituto familiare (Codice della donna,
della famiglia, del matrimonio del 1917 ed analogo del 1927) si sono
tentate delle esperienze comunitarie (le dom Kommuna). Sempre in periodi
rivoluzionari, in Cina vi sono state le comunità dei villaggi
ed in Israele le ben più note esperienze dei Kibbutz.
Nel complesso le comunità possono essere così suddivise:
1) Comunità di alcune popolazioni (studi antropologici ed etnologici),
in cui i figli sono allevati in comune da tutti i genitori (Mead).
L'ambiente è troppo diverso dal nostro per trarne insegnamenti
e confronti.
2) Comunità basate sul desiderio di rottura con il sistema
capitalistico in una vaga aspirazione ecologica, spesso basata su
nuovi sistemi di agricoltura o di un vago ritorno all'artigianato.
Interessano poco il nostro studio perché non necessariamente
mettono in discussione la coppia o il gruppo familiare, che viene
integrato e non annullato dalla comunità. in genere i figli
vengono allevati dai genitori.
3) Comunità "culturali", di attori ambulanti, di
scrittori, di pittori. Esperienze particolari.
4) Comunità di religiosi (conventi, monasteri), in genere con
voto di castità e perciò senza problemi per l'allevamento
dei figli; altre comunità ad impronta mistica o comunque religiosa
in cui predominano spesso gli influssi orientali; a volte con rifiuto
dell'attività sessuale, della coppia e della famiglia.
5) Comunità per la libera sessualità (anche omosessualità),
rifiuto della coppia, della famiglia e di figli.
6) Comunità assistenziali. Si tratta di istituzioni che nascono
in contrapposizione con brefotrofi ed orfanotrofi tradizionali e che
cercano di imitare la famiglia, creando gruppi pseudo familiari in
una struttura comunitaria, con padri e madri putativi (comunità
di Don Zeno, gruppi famiglia di Descovich, gruppi famiglia di Narni,
etc.). La famiglia non viene qui negata, viene imitata. Nella mia
attività assistenziale mi sono trovato spesso a dover scegliere
per un bambino tra una di queste comunità ed una famiglia affidataria
ed ho deciso in base all'età del bambino ed al prevedibile
tempo della carenza del nucleo familiare originario. La comunità
integra più facilmente, crea distacchi meno traumatici, permette
un maggiore fiancheggiamento e controllo da parte dei pubblici servizi,
ma ha una maggiore fragilità e la necessità di forti
motivazioni oblative da parte di chi vi si dedica.
Le comunità terapeutiche (ad es. per tossicodipendenti) non
interessano il nostro studio perché si occupano di problemi
di soggetti al di là del periodo infantile.
7) Comunità nate da preoccupazioni sociali ed educative, basate
più sulla creazione di servizi comuni per le varie famiglie
che su negazione della famiglia; sono comunità che ricercano
la collaborazione delle autorità locali.
8) Comunità con rifiuto della società che vogliono creare
un mondo diverso con mitizzazione della vita del fanciullo (ad es.
Hippies). Sono comunità che si spingono avanti nella ricerca
di nuove forme di vita; le loro esperienze che appaiono "utopie
vissute" sono sicuramente interessanti.
9) Comunità a chiara impronta politica, spesso rivoluzionaria.
Si tratta ad esempio delle "dom Kommuna" o dei Kibbutz,
di cui in premessa abbiamo accennato, e che forse rappresentano gli
esempi più realizzati della sostituzione dell'istituto familiare.
Però la persona (Bartolehmy) che più autorevolmente
si occupò delle Maisons des Enfants dei Kibbutz, pur confermando
le esperienze positive, sottolinea che la "Maison des Enfants"
del Kibbutz ha senso solo nel Kibbutz ed è in certa misura
valida solo nella prospettiva di vita dello stesso.
Ora i Kibbutz non si sono ulteriormente estesi in Israele; persino
nel settore agricolo, culla del Kibbutz, vi sono ben altre quattro
forme di organizzazione (Moshab obedim, Moshab, Moshab shitufi, Moshabad),
tutte pianificate, ma con ruoli familiari molto più conservati.
Neppure l'alta spiritualità di dette forme associative e gli
aspetti della vita collettiva alla fine hanno teso a sostituire la
famiglia. Se poi si guarda al Kibbutz, si deve riconoscere che la
famiglia non viene negata, ma anzi esaltata; i bambini sono tenuti
in comune dalle anziane della comunità, alla sera però
al ritorno dei genitori si svolge il momento più significativo
della giornata; la figura dei genitori viene perciò esaltata:
avviene cioè la sostituzione di alcune funzioni della famiglia,
non la negazione della famiglia.
Naturalmente ho del tutto trascurato di parlare di quelle forme di
comunità tradizionali che sono i collegi e gli orfanotrofi
per il ben noto fallimento di dette istituzioni nel compito di sostituzioni
integrali delle famiglie, mentre una certa funzione possono avere
se usate in aiuto di famiglie bisognose e scarsamente integrate.
Nel complesso, le comunità (anche quelle elencate al comma
9) non si sono dimostrate in grado di sostituire la famiglia e di
corrispondere ai desideri dei genitori.
Servizi d'integrazione
della famiglia: i nidi
Oggi il sistema più comune di assistere durante il giorno (specie
durante le ore in cui i genitori, ed in particolare la madre, sono
addetti al lavoro extradomestico) i bambini al di sotto dei 3 anni
è il nido. Naturalmente non si pone affatto in questa nostra
relazione il problema delle necessità per bambini al di sopra
di 3 anni di socializzare con coetanei e di acculturarsi, sia per
la disponibilità e la tradizionale validità di questi
servizi. Indipendentemente dall'esistenza o meno di un nucleo familiare
valido, nessuno penserebbe mai di non mandare i bambini a scuola!
Tornando ai nidi, dobbiamo dire che in Italia, già una trentina
di anni fa, l'ONMI ne aveva creato circa 500, ma si era sempre trattato
di nidi assistenziali, utilizzati cioè per particolari situazioni
di emergenza. I movimenti politici hanno teso invece al nido per tutti,
al nido come servizio sociale; il piano quinquennale di sviluppo 1963-68
e l'UDI facevano programmi per molte centinaia di migliaia di bambini
nei nidi, al di sopra del numero dei bambini delle stesse madri lavoratrici
extradomestiche. Il nido veniva concepito come una tappa obbligata
della socializzazione del bambino, e tra l'altro, liberando la madre,
era fattore determinante anche della socializzazione materna! Iniziai
una campagna nel 1967, sul periodico dell'ONMI, contro tali tesi,
ma nel 1971 venne la legge per il contributo pubblico per la costruzione
e la gestione degli asili nido.
Quello che era più sconcertante, sia nel piano UDI sia nel
piano quinquennale di sviluppo, sia nella legge del 1971, erano le
previsioni di spesa di gestione, assolutamente ridicole, da una decima
parte ad una quinta parte della realtà.
Frequenza dei
bambini nei nidi
Abbiamo a disposizione il numero degli assistiti e le giornate di
presenza degli stessi. La prima osservazione che possiamo fare è
che le assenze sono frequentissime; se si calcola che i nidi hanno
un minimo di 250 ad un massimo di 310 giorni l'anno di apertura, in
Italia le giornate di frequenza di un assistito sono in media 128,8
e cioè meno della metà comunque delle giornate di apertura
del nido. Le assenze sono dovute in gran parte a ragioni di salute
del bambino (possono esservi alcuni casi dovuti a ragioni di salute
delle madri, a permessi della stessa dal lavoro, a turni di lavoro
notturni al di fuori degli orari di apertura del nido). Nei nidi delle
regioni molto fredde sia per la maggiore frequenza delle malattie
dell'apparato respiratorio, sia per non far uscire il bambino in condizioni
climatiche sfavorevoli, la frequenza è più bassa. Alcuni
esempi:
Le altre regioni hanno frequenza più elevata:
Al Sud la sola Campania ha frequenze pari alle regioni fredde (circa
102), forse per lavoro saltuario delle madri.
Stando ai bilanci ufficiali dei Comuni, la spesa per ogni posto nei
nidi dovrebbe essere di circa 10 milioni, che divengono 20 se si calcola
in rapporto ad un bambino effettivamente presente (date le assenze
di cui abbiamo parlato). Poiché appena due anni prima (nel
1985) la spesa era di 6.239.000 dovremmo ritenere che nel 1993 la
spesa non possa essere assolutamente inferiore a 16-18 milioni a posto
e cioè oltre 30 milioni a bambino presente (sia negli ospedali
che negli istituti assistenziali la retta si calcola a bambino effettivamente
presente). Le spese sono diverse a seconda delle varie regioni; più
basse in Emilia-Romagna, massime a Roma. A carico dell'utente vi è
spesso una quota che difficilmente supera il 10% della spesa reale.
Se il nido dovesse divenire un servizio per i figli della maggior
parte delle donne lavoratrici, converrebbe lasciare i figli con le
madri a casa continuando a pagare gli stipendi e non facendo ammalare
i bambini!
Torniamo alla salute dei bambini. Le ultime ricerche avvalorano sempre
più l'importanza dei nidi per una patologia infettiva: frequenti
circa 3 volte rispetto ai bambini allevati a domicilio sono le affezioni
faringee, bronchiali, broncopolmonari, 5 volte maggiori le infezioni
da hemophilus (causa tra l'altro anche di meningiti); diffusissimi
il citomegalovirus e la giardiasi; sembra siano anche molto più
rappresentate le affezioni asmatiche.
Per ciò che concerne l'aspetto psicologico, i difensori del
nido parlano di socializzazione precoce; non ho mai visto una socializzazione
tra le culle, perciò fino ad un anno e mezzo non vi può
essere vantaggio dalla frequenza in un nido. Dopo il 18° mese
dipende dalla validità relativa dell'istituzione e dell'ambiente
familiare: il nido potrebbe essere valido se la famiglia non lo è!
E' solo a 3 anni che domina l'esigenza di socializzazione. Da quanto
detto si evince che non dovrebbero esistere nidi per bambini sotto
18 mesi, salvo che per gravi e transitorie emergenze assistenziali
(altro che il nido per tutti!); ve ne dovrebbero essere pochi e ben
fatti, sempre per prevalenti ragioni assistenziali da 18 mesi a 3
anni e vi dovrebbe essere la scuola materna per tutti!
Oltre ai prolungati sussidi di maternità (12-18 mesi), si dovrebbero
valorizzare le nonne (spesso non si vogliono affidar loro i bambini
perché li ... viziano! Mai un atto di cattiveria più
crudele è stato fatto nei confronti dei figli e dei vecchi!).
Si potranno poi fare dei cauti esperimenti di nidi di palazzo: una
famiglia controllata dai servizi sociali può tenere 3-4 bambini
a costi sicuramente inferiori a quelli dei nidi, a tasso di infezioni
molto ridotto rispetto a questi e con rapporti affettivi sicuramente
più personalizzati.
L'ambiente
familiare è ancora il più sicuro?
E' chiaro che i soggetti cui si riferisce l'esigenza di sicurezza
siano i bambini, anche se la sicurezza degli adulti è a sua
volta un elemento della sicurezza del bambino.
Quanto alla definizione di sicurezza non vi è dubbio che dobbiamo
riferirci all'esigenza di impedire danni al bambino di qualunque tipo.
Esemplificando:
- prevenzione delle malattie, specie se invalidanti;
- prevenzione degli incidenti;
- prevenzione dei maltrattamenti (abuse child);
- prevenzione dell'abbandono e della trascuratezza affettiva (neglect
child) e comunque prevenzione dei danni sulla psiche, l'affettività,
il carattere.
Per quanto riguarda la prevenzione delle malattie la famiglia è
stata finora il luogo più idoneo e si deve presumere che lo
sarà ancora; persino il bambino che prima si ricoverava in
ospedale si tende ora a curare a casa o in day hospital.
L'elevata patologia dei nidi contrasta anche con la finalità
del nido, che è spesso quella di permettere alle madri il lavoro
extradomestico. Per quanto riguarda la prevenzione degli incidenti
la famiglia non mostra avere una vera azione protettiva. Lo scarso
interesse che, fino a qualche anno fa, hanno destato gli oltre 10.000
morti l'anno in Italia per incidente domestico e del tempo libero,
di cui oltre 6.000 proprio fra le pareti di casa, deriva principalmente
dalla mancanza di contenzioso assicurativo e giudiziario. Gli incidenti
stradali causano un po' meno morti (circa 9.000) e quelli del lavoro
da 2.000 a 8.000, ma questi e quelli hanno sempre un ente tenuto a
risarcire: investitore, assicurazione, datore di lavoro; sono interessati
sindacati, avvocati e stampa. L'incidente domestico non ha responsabili,
oltre la vittima o, in caso di minori, i familiari della vittima,
che dovrebbero perciò, come esercenti la patria potestà,
fare causa a se stessi: l'incidente perciò avviene (come un
magistrato concluse in una istruttoria per la morte di un bambino)
per colpa della vittima!
Solo recentemente l'incidente causato da prodotti difettosi ha trovato
interesse con la direttiva CEE (1985) sulla responsabilità
oggettiva del produttore (recepita in Italia nel 1988), ma riguarda
unicamente la difesa del consumatore; la quasi totalità degli
incidenti domestici rimane priva di contenzioso e di copertura assicurativa.
L'esperienza degli altri popoli dimostra che le vie principali della
prevenzione sono due: la legislazione adeguata e l'educazione della
popolazione attraverso i mass media e la scuola.
Due sono le considerazioni che permettono di essere ottimisti sui
risultati di un'opera di prevenzione ben organizzata: i risultati
degli altri Paesi e la tipicità della gran parte degli incidenti.
I mass media non dovrebbero limitarsi ad agitare il problema, ma programmare
degli spots ripetitivi, organizzando annualmente campagne su singoli
problemi (ustioni, pericoli da cadute, annegamenti) e verificandone
con osservazione epidemiologica i risultati; la scuola, in attesa
che si possa giungere ad un insegnamento "salute e sicurezza"
nelle scuole di ogni ordine e grado, dovrebbe dare spazio al problema,
sia nei programmi e nei libri di testo, sia in attività parascolastiche
ed in incontri con i genitori. Si hanno ora dei dati incoraggianti.
Le morti per incidenti domestici, che erano state 1.673 tra 1 e 14
anni, e cioè a tasso molto elevato (14,7 su 100.000) nel 1951,
si erano attestate negli anni '60-'80 ad un tasso di 7-9 per centomila;
una rapida diminuzione hanno subito in questi ultimi anni fino ad
un tasso di 2,8 nel 1988, con 273 morti. La situazione attuale colma
in larga misura il gap che avevamo nei confronti di Paesi come l'Inghilterra,
la Svezia, l'Olanda, la Danimarca. La diminuzione va attribuita in
parte alla notevole attività di informazione fatta in questi
ultimi 10 anni, per iniziativa dell'I.S.S., di molte Regioni ed in
questi ultimi tre anni dalla Commissione per la prevenzione degli
incidenti domestici, presieduta dal sottoscritto, presso il ministero
Affari Sociali; ha influito anche un certo fermento legislativo, sia
italiano che comunitario, ma probabilmente il maggior beneficio si
è avuto per la diminuzione di figli per le singole coppie (attualmente
1,3), che rende più agevole la sorveglianza dei bambini.
Nonostante tali notizie incoraggianti, bisogna però dire che
gli incidenti rimangono la più elevata causa di morte da i
a 14 anni, e meritano la massima attenzione da parte di medici, genitori,
educatori, dirigenti politici ed operatori dell'informazione. Si tenga
conto che gli incidenti per ogni decesso provocano circa 3 invalidi
permanenti, il che moltiplica ancora l'impatto sociale di questi eventi.
I maltrattamenti in casa sono purtroppo frequenti. Negli Stati Uniti
circa 2.000 bambini l'anno muoiono e 6.000 rimangono invalidi per
maltrattamenti gravi da parte dei genitori; la sindrome di Kempe è
conosciuta dal 1962. Anche in Italia la cronaca registra numerosi
casi e la gran parte sfugge ad ogni censimento perché la caratteristica
della famiglia è di chiudere nel suo interno ogni problema;
l'abuso sessuale a carico di minori per il 50 per cento avviene in
casa e per un altro 45% ad opera di parenti o amici della famiglia.
Però mettere i bambini nelle istituzioni non li preserva certamente.
La cronaca è piena di episodi terribili nelle istituzioni per
l'infanzia ed in particolare negli istituti per subnormali.
L'abbandono, una volta molto più frequente, viene curato con
l'adozione, cioè con un'altra famiglia o con l'affidamento
familiare. E' sintomatico che, nonostante le difficoltà dell'istituto
familiare, gli esperti trattino questi casi limite proprio con un'altra
famiglia, non essendovi tuttora niente di meglio. Salvo casi di grave
patologia familiare, l'igiene mentale (conformemente al parere degli
esperti OMS) viene garantita in famiglia.
Conclusioni
La famiglia è ora molto contestata, anzi non è mai stata
così radicalmente contestata, ma è ancora il luogo di
rifugio affettivo e di mantenimento subconscio di alcune realtà
tradizionali, anche se la gran parte delle sue funzioni è perduta;
il matrimonio resiste anche se è mutato nei rapporti gerarchici.
Il problema è di sapere se, nonostante la perdita di funzioni,
la famiglia rimarrà il posto in cui si trovano riuniti procreazione,
sessualità ed amore. Se la famiglia in quanto istituzione sociale
tenta di controllare rigidamente la coppia diviene impossibile la
scoperta di nuovi rapporti necessari a vitalizzare l'istituto. Naturalmente
questa famiglia dovrà attenuare la sua funzione stabilizzatrice
sociale, eliminare la gerarchia nel rapporto maschio-femmina e nei
rapporti generazionali.
Sul fronte assistenziale per i bambini, si dovranno trovare delle
soluzioni, a spese, almeno parziali, della comunità, per consentire
un allevamento dei figli senza annullare (ma solo deprimendo in maniera
accettabile) il desiderio di realizzazione extradomestica dei genitori
ed in particolare della madre. Senza sacrifici nulla si fa!
i padri dovranno dare sempre di più la loro opera per l'allevamento
dei figli, come già comincia ad avvenire, le madri dovranno
contentarsi che sia loro conservato un lavoro extradomestico, specie
ad "orario parziale", la società dovrà porre
a suo costo un lungo periodo di allontanamento della madre dal lavoro
a parziale retribuzione. Dovranno essere favorite forme di associazioni
comunitarie, ma tra famiglie, rivalorizzato il ruolo degli anziani
nella custodia dei nipoti e favoriti dei micronidi di palazzo.
Sarà necessario portare nelle scuole un corso di salute e sicurezza
che prepari il cittadino e perciò i genitori nei problemi di
puericultura, di psicologia ed educazione dei figli, nella prevenzione
delle malattie infettive e sessuali, nella prevenzione dei tumori,
delle tossicodipendenze, del tabagismo e dell'alcolismo, nella prevenzione
degli incidenti domestici e stradali.
Sarà altresì indispensabile fiancheggiare le famiglie
(si ricordi che sono tutte famiglie inesperte quasi sempre al primo
ed unico figlio).
In altri Paesi la natalità è ripresa; forse avverrà
anche da noi con provvedimenti sociali ed urbanistici intelligenti
e con una diversa cultura per quel che riguarda l'aborto ed una nuova
politica del lavoro.
Non va abolito lo stato sociale, va trasformato; bisogna spendere
meglio di quanto si faccia oggi con i servizi di sostituzione della
famiglia (rette dei nidi, degli istituti, degli asili per vecchi)
e creare invece un aiuto economico e consultoriale per la coppia e
servizi di aiuto familiare per handicappati, anziani e bambini.
De iure condendo, dovremmo adeguarci all'Inghilterra e alla Danimarca
per quel che riguarda le spese di protezione della famiglia.
Da J. Bowbly abbiamo imparato che si spende molto meno e si ottiene
molto di più aiutando direttamente chi ha bisogno e non creando
istituzioni.