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Un secolo fa
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Tangentopoli Umbertina |
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Tonino
Caputo, Gianfranco Langatta, Edoardo Franchi
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Gli
storici (tragici) avvenimenti del 1993 hanno fatto fiorire interpretazioni
secondo Cui le grandi svolte di altre stagioni avrebbero punti di riferimento
molto precisi con il giorno d'oggi. L'estate del 1943, con il crollo
del regime e la scoperta che l'Italia tutta fascista il giorno prima
era diventata improvvisamente tutta antifascista, sarebbe molto simile
all'estate 1993, quando tutta l'Italia che cinicamente aveva saputo
e persino vissuto grazie a corruzione si scopriva tutta indignata e
tutta moralista.
Renzo De Felice si ribella: nella storia non c'è mai niente di uguale, dice; i corsi e ricorsi sono soltanto generici, altrimenti si potrebbe dire che Catilina equivale a Mario Chiesa. Ma anche se i paragoni non sono storicamente a prova di bomba, il gioco di mettere a confronto epoche diverse quanto meno aiuta a capire. Così si moltiplicano le ingegnose interpretazioni che accostano momenti lontanissimi. A riprova che la nostra storia unitaria è sempre stata densa di corruzione, velleità dittatoriali, governi che volevano trasformarsi in regimi e intrecci impropri tra politica e affari e tra cartelli del crimine organizzato e affari, ecco ora il ricordo del 1893, anno nel quale uno scandalo bancario, il più grave della nostra storia unitaria, quasi inabissò il Belpaese. Napoleone Colajanni, il veemente parlamentare sici liano che con le sue denunce in Parlamento innescò lo scandalo: come Antonio Di Pietro, il magistrato che ha messo in ginocchio mezza classe politica. Giovanni Giolitti, il presidente del Consiglio dell'epoca, travolto dallo scandalo ma destinato in seguito a fare la più importante carriera nella storia dei governi d'Italia: paragonabile a Craxi o ad Andreotti, probabilmente solo nella prima parte di questa avventura. Lo scandalo della Banca Romana 1893: un micidiale intreccio tra affari, finanza, politica, che lambì le soglie del Quirinale, coinvolse decine di ministri e deputati, scoppio come una spaventosa autobomba nel cortile già poco quieto di una politica italiana che in pochi anni avrebbe assistito ad avvenimenti devastanti come il fallimento della guerra d'Africa del 1896, la crisi di fine secolo, le velleità autoritarie dei generali del re, le stragi a Milano e infine, punto di non ritorno, il regicidio di Monza. Una materia scottante, intricatissima, romanzesca, e soprattutto di grandissimo interesse. Senza dubbio, è ardito paragonare quello smisurato scandalo di corruzione dell'Italietta" umbertina all'attuale Tangentopoli che ha quasi raso al suolo la Prima Repubblica. E' persino ovvio dire che ogni periodo storico ha le sue peculiarità, la sua logica interna, le sue forze in gioco: e che quindi paragonare Bernardo Tanlongo, lo spregiudicato banchiere-senatore che architettò la grande rapina, a Mario Chiesa o a qualcun altro sopra di lui è un esercizio intellettuale divertente ma da non prendere alla lettera. Eppure il legame c'è: e chi ha letto con immensa curiosità, con forte disgusto e con crescente amarezza e rabbia le cronache degli ultimi due anni troverà materia di paragone in un bel volume che Enzo Magri ha dedicato alla catastrofe economico-morale della Banca Romana. E' trascorso un secolo: ma riteniamo senza ombra di dubbio che la cronaca più appassionante e il saggio storico definitivo su quella vicenda sia questo I ladri di Roma. 1893 scandalo della Banca Romana: politici, giornalisti, eroi del Risorgimento all'assalto del denaro pubblico. A distanza di cento anni, dunque, storie emblematiche di corruzione italiana. Tangentopoli la spunta per numero di parlamentari coinvolti, per furore popolare, per autotreni di lire rubate. Ma la rapina dell'istituto bancario sgovernato da Bernardo Tanlongo resta un paradigma insuperato della spregiudicatezza di una classe politica che si sentì e si mise al di fuori e al di sopra della legge. Nel 1893, come cento anni dopo, si arrivò a vette insospettate di imprudenza e di disonestà. Un intero ceto politico era convinto di essere immune e irresponsabile. Rubava a man salva, nella convinzione che nessun giudice, nessun Parlamento, nessuna opposizione lo avrebbe mai messo in mora. E, anche qui secondo una consolidata tradizione italica, rubavano tanto i partiti di governo quanto quelli dell'opposizione. Naturalmente, con le rispettive quote e secondo un perfetto "manuale Cencelli" del saccheggio. La Banca Romana favorì le tangenti estorte da sovrani, da primi ministri, da deputati di maggioranza e di minoranza, da funzionari statali, da giornalisti (a magra consolazione, si potrebbe dire che quelli del 1893 erano anche peggiori dei confratelli del 1993), da Padri della Patria risorgimentali. E stampò denaro falso per cifre che per quell'epoca erano semplicemente vertiginose: dai nove ai trenta milioni di lire dell'epoca, e a quel tempo la lira era proprio buona. Il solito, poverissimo e disgraziato popolo italiano subì tutto, esattamente come ora. A quei tempi non c'era il modello 740, ma soltanto nove anni prima era stata divelta a furor di popolo l'odiosa tassa sul macinato che affamava i contadini e di cui splendidamente racconta Riccardo Bacchelli nel suo Mulino sul Po. Ci furono tentativi disperati per adottare provvedimenti-spugna che cancellassero le pene. Francesco Crispi, gran tenore garibaldino del Risorgimento e dopo poco tempo primo imperialista dell'Italia liberale, attacco violentemente Giolitti. Il patrimonio ideale del Risorgimento venne quasi disperso. "Dove andiamo?", si chiese con angoscia Pasquale Villari. E' un grido che si ripete anche ai nostri giorni. Un vero e proprio romanzo, una storia intrigante e drammatica. Napoleone Colajanni, da soli due anni in Parlamento, deputato siciliano (con cattedra a Napoli) della Sinistra Estrema, il sabato 10 dicembre 1892 ricevette un biglietto sorprendente: "Illustre onorevole, venga questa sera alle 10 nella prima sala d'attesa della Camera. Le verranno forniti dettagliati elementi su un gravissimo scandalo nel quale è coinvolto il governo. Sono in gioco le sorti del Paese. Non manchi, l'aspetto. Un amico". Nelle storie di questo genere non manca mai una gola profonda. E per trovare la sua, quella notte, come nel più classico dei romanzi gialli, sospettando di essere preso in giro, Colajanni si recò nella sala del Parlamento densa di ombre, mentre i commessi attizzavano le fiamme dei lumi a petrolio. E si vide venire incontro Maffeo Pantaleoni, grande nome dei nostri studi economici. Pantaleoni gli fece vedere (glielo consegnò in un secondo momento) il micidiale rapporto Alvisi-Biagini che scoperchiava tutto l'immondo verminaio governativo. Da questo momento si snoda una "storia all'italiana" come un'appassionante sequenza di scene teatrali in cui si muovono decine di protagonisti e di caratteristi: il viscido Tanlongo, l'irruente Crispi, la volpe piemontese Giolitti, il Papa desideroso di uscire dal Vaticano per riprendersi "Roma usurpata", l'arrogante Nicotera, i funzionari fedeli, l'implacabile accusatore Colajanni, e quel discusso re Umberto I che passerà dagli scandali interni alla disastrosa avventura africana finita nella catastrofe di Adua, che con le congiure della corte farà pensare a un colpo di Stato, che applaudirà alle cannonate di Bava Beccaris e ai massacri di Milano e infine avrà la sua tragica "punizione" in quel di Monza, il 29 luglio 1900. Se poi si esclude l'incipiente questione africana che fa da prologo al tramonto umbertino, altri temi dominanti dell'epoca erano la diffusa criminalità e la riforna elettorale, che nell'andirivieni dei governi ballerini e instabili veniva continuamente riproposta e ritirata tra l'ostilità dei conservatori. Vent'anni dopo l'Unità, l'"Italietta" debole e scollata era alle prese con problemi che attenevano la pura sopravvivenza, uno straccio d'istruzione per tutti, l'incolumità fisica, così che i tempi non sembravano meno calamitosi e cupi di quelli di Leopardi, il quale scrivendo al padre da Roma diceva che conveniva sempre tremare per gli amici e i parenti che si trovavano fuori la sera, "non passando sera che non accada qualche assassinio ... ". Nel 1875 il ministro dell'Interno Cantelli aveva proposto due provvedimenti straordinari di Pubblica Sicurezza per combattere "mafia e camorra". Ma Crispi, siciliano, era insorto, più che mai sdegnato. I provvedimenti governativi ledevano la dignità del Mezzogiorno, criminalizzavano un'intera popolazione e dividevano il Paese in cittadini onesti da una parte e in reprobi dall'altra. E' brutto - disse il vecchio garibaldino - dividere l'Italia in due pezzi anche moralmente. Non è carità di patria supporre che la moralità delle popolazioni del Mezzogiorno sia inferiore alla moralità di quelle che sono al Nord". In quella stessa circostanza fecero scalpore le dichiarazioni dell'onorevole Diego Taiani, già Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Palermo, che incominciò definendo i mafiosi "oziosi, i quali non avendo mestiere di sorta intendevano di vivere e talvolta di arricchire per mezzo del delitto". Qualcuno era convinto che l'affievolimento del sentimento religioso fosse in gran parte causa del fenomeno mafioso. Al contrario per Taiani lo sviluppo del fenomeno criminale era dovuto al pervertimento del sentimento della religione. E in proposito raccontò un episodio. Nel 1868 alla Procura gli era venuto sott'occhio uno strano documento, una bolla pontificia che non aveva ancora ottenuto l'exequatur. In sostanza, con questa bolla la Curia romana autorizzava tutti i confessori della Sicilia a transigere con coloro che avevano perpetrato ogni sorta di delitto e la transazione si faceva a suon di denaro. Stupro, omicidio, rapina: tutto aveva un prezzo. Assassinii, furti, rapine, grassazioni rimanevano in gran parte impuniti grazie alle connivenze tra questura e malavita. Nel 1871 il questore di Palermo, Albanese, era stato rimosso per collusione con la mafia. Il degrado morale non risparmiava la vita pubblica e l'occasione di una sterzata venne col ritorno al potere nel 1880 di Agostino Depretis da Stradella, il quale nell'intento di allargare la base del consenso aggregò alla maggioranza di sinistra elementi di destra, dando luogo ad un esperimento tipicamente italiano: il trasformismo. Depretis presentò alla Camera un disegno di legge per la riforma elettorale basato sul principio dello scrutinio di lista e dell'allargamento del suffragio universale. La base si ampliò, ma non più di tanto. E' vero che il progetto abbassava l'età dell'elettore da venticinque a ventuno anni, dimezzava la quota d'imposta necessaria per esercitare il diritto di voto, ma restavano esclusi, oltre a tutte le donne, anche i maschi che non avessero frequentato almeno la quarta elementare o servito nell'esercito per almeno due anni. Cavallotti, a nome dei circoli democratici, protestò contro questa ipocrisia legale che dava diritto di cittadinanza soltanto ad una minoranza della popolazione. il 24 marzo ebbe inizio la discussione in aula sulla riforma elettorale. La sinistra storica vedeva nello scrutinio di lista un mezzo per colpire le clientele elettorali dei moderati che dominavano nei collegi uninominali dei piccoli centri, in particolar modo nelle regioni del Mezzogiorno, con poche centinaia di elettori facilmente manovrabili. Il nuovo sistema elettorale raggruppava e diminuiva il numero dei collegi, presentava liste con più candidati, rompendo, nelle intenzioni, il rapporto di complicità tra candidato unico ed elettore. Ma non tutti la pensavano in questo modo. Fedele interprete delle tesi governative fu l'onorevole Lacava il quale, parlando in favore dello scrutinio di lista, affermò che esso avrebbe elevato la coscienza degli elettori facendo sparire ogni idea di campanilismo; avrebbe, abolendo i feudi elettorali, reso più degni e liberi gli stessi deputati; avrebbe favorito l'organizzazione e lo sviluppo dei partiti e impedito l'ingerenza governativa e il dilagare della corruzione. Giustino Fortunato, meridionalista e galantuomo, difese invece a spada tratta il collegio uninominale. A parte che il suffragio universale l'avrebbe voluto universale per davvero e che esso era punitivo per il Sud perché là c'erano molti più analfabeti che al Nord, affermò che semmai lo scrutinio di lista accresceva la corruzione e il dominio dei grandi elettori. Inoltre snaturava il principio della rappresentanza. Lo snaturava perché l'elezione era la scelta di un uomo, non di un partito o di una bandiera. Con lo scrutinio di lista non si badava alle qualità personali, all'ingegno, alla probità. Concluse che il Collegio uninominale, ravvicinando il candidato all'elettore, dava la garanzia di un criterio di scelta più coscienzioso. Il nuovo sistema, approvato nel 1882, favorì le camarille e i gruppi di potere che manovravano il Parlamento a danno delle rappresentanze singole e della volontà popolare. Il degrado sfociò nello scandalo della Banca Romana, il più sensazionale del secolo. Nel 1891 lo scrutinio di lista venne abolito e si tornò al collegio uninominale. Ma la crisi del regno era irreversibile. Le leggi le fanno gli uomini e forse non bastano. Resta il rammarico che non cambino la natura umana. La fine delle
Grandi Famiglie Roma docet Ricordare Bisanzio Colpe & discolpe Il silenzio complice dei "savants" Qualche tempo
fa leggemmo un libro, Perché odio i politici, di Guido Almansi.
Si trattava di un 'indagine: un centinaio di intellettuali veniva
invitato a dichiarare il proprio dissenso nei confronti dei potenti
e dei potentati della terra, arbitri del conseguimento di un incarico,
di una licenza amministrativa, di un posto, di una speculazione. Il
libro non ebbe gran fortuna, circolò a fatica. Creava troppi
imbarazzi. Eppure, diceva molte verità. Gli intellettuali interpellati
parlavano all'epoca del referendum sull'abolizione delle preferenze.
A quel tempo, la corruzione dei partiti era assodata, ma le dimensioni
del .fenomeno erano pressoché sconosciute, e ci sarebbe voluta
l'inchiesta "Mani pulite" perché crollasse la sottostima
delle cifre relative e assolute. Quell'inchiesta avrebbe messo in
luce una delle maggiori ruberie collettive della storia italiana,
con entità e modalità sconosciute anche in altri, e
non puliti, Paesi europei, a differenza del nostro non disgregati
da due milioni di miliardi di debito pubblico, dal disservizio permanente
dei servizi pubblici, dalla rovina del paesaggio, dai saccheggi delle,
acque e delle coste, dall'abbandono delle opere d'arie.
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