Con l'inizio degli
anni sessanta il periodo di ricerca per così dire 'pionieristica'
va progressivamente cedendo il passo ad una crescente volontà
di sintesi e confronto delle varie esperienze maturate in ambito elettronico.
Gli aspetti maggiormente portati alle estreme conseguenze - il rigoroso
purismo elettronico praticato negli studi di Colonia, la marcata impronta
concretista ostentata dai compositori orbitanti intorno a Radio-France
- sebbene abbiano trovato quasi dal primo momento qualche polo esterno
di mediazione, il più importante dei quali presso la sede della
RAI di Milano con Berio e Maderna, hanno sempre dimostrato 'dall'interno'
un reciproco disinteresse.
Al contrario, nel decennio che va dal 1960 al 1970, ci si riscopre
via via più propensi alla reciproca contaminazione, meglio
disposti - o più pronti - verso innesti e trapianti, maggiormente
allettati dal panlinguismo elettronico.

Il nostro ideale Cicerone, Armando Gentilucci, nella sua 'Introduzione
alla Musica Elettronica', vede in questo mutato atteggiamento delle
avanguardie impegnate sul versante della ricerca elettroacustica i
sintomi di una crisi in piena regola: "... dall'esclusivismo
un po' fanatico per il suono sintetico, considerato capace di sostituire
ogni altro modo di produzione fonica, essi (i compositori elettronici,
n.d.a.) sono passati all'integrazione di musica elettronica e musica
concreta, e inoltre, più significativamente, di musica registrata
(sia elettronica che concreta o mista) ed eseguita dal vivo (voci
e strumenti). Altri musicisti hanno abbandonato addirittura il campo
elettronico tornando ai mezzi sonori consolidati dalla tradizione,
meno costosi, più facilmente reperibili e consolidati in formazioni
fisse, istituzionalizzate ( ... )".
E prosegue: "Luciano Berio, Henry Pousseur e Bruno Maderna sono
i compositori che più vistosamente hanno sfumato la loro presenza
nel settore di cui ci occupiamo".
Tuttavia, a parere di chi scrive, se è vero che gli eventi
segnalati da Gentilucci sono significativi, non necessariamente debbono
essere significativi di una crisi: mettendo senz'altro da parte motivazioni
che Gentilucci ama definire sociologiche, frutto di un credo politico
che il compositore leccese non ha mai mancato di palesare, la chiave
di lettura per quanto è accaduto in quel periodo va molto più
semplicemente cercata nel percorso in un certo modo standard di un
generico processo innovativo: alla primigenia fase sperimentale, spesso
votata a procedimenti di ricerca espressamente empirici ed il più
delle volte propensa a chiusure iniziatiche ed a provocatori estremismi,
fa naturalmente seguito un momento di apertura verso l'esterno, con
tutte le conseguenze che questo atto implica.
Questa apertura, per molti aspetti 'fisiologica', avviene in genere
quando gli artefici del processo innovativo sentono in qualche modo
la presenza alle loro spalle di una seppur minima tradizione, da loro
stessi edificata per mezzo della ricerca. Ed una tradizione era oramai
maturata alle spalle dei musicisti-ricercatori degli studi di musica
elettronica: il passo successivo consisteva, appunto, nel rendere
disponibili verso l'esterno i risultati di un tirocinio avvenuto al
riparo di quegli studi - moderne celle monastiche - ed al cospetto
di ingombranti apparecchiature-are. Non dunque crisi, ma apertura
del bozzolo.
L'allontanamento - tutt'altro che generalizzato, in realtà
- di alcune fondamentali figure responsabili della Svolta elettronica'
è anch'esso, a ben guardare, fisiologico, e d'altro canto non
sono mancati avvicendamenti né rimpiazzi. Esaurita la prima
fase, appare allo stesso modo esaurita la funzione di alcuni tra i
più validi artefici della stessa, e prendere atto della mutata
situazione non implica quale corollario la crisi; se crisi ci sono
state, queste sono da individuare sul piano delle conseguenze dell'incontro
tra la neonata tradizione elettronica e la ben consolidata tradizione
strumentale: se è vero che ogni incontro determina anche lo
scontro, il conflitto quale naturale e prevedibile conseguenza, in
questo caso, a complicare le cose sopraggiunge anche una crisi di
identità, o meglio di collocazione della prassi compositiva
elettronica rispetto al contesto più generale. Il problema
della mancanza di un più delineato inserimento nell'architettura
generale della musica colta occidentale è reso ancor più
grave dal fatto che questa è in realtà una questione
risolta - sul piano teorico - a metà, in quanto il compositore
elettronico è perfettamente consapevole del proprio ruolo e
del proprio campo d'azione: altrettanta chiarezza non si è
raggiunta, però, dall'altra parte, dalla parte cioè
del compositore estraneo all'esperienza elettronica; e questa situazione
causa uno sconfinamento nel non-riconoscimento: la musica elettronica
viene costretta - dall'esterno -entro l'ambito, e i limiti, della
sperimentazione un po' esoterica: non più territorio di confine,
ma margine. E' il forzoso ritorno al bozzolo, l'allontanamento dall'ecosistema
al quale dovrebbe - oramai a buon diritto - appartenere.
In questo consiste l'essere Nuova Atlantide: continente sommerso suo
malgrado.
Una presenza necessariamente rarefatta, illusione di suoni dal fondo
del mare.
La storia della musica elettronica coincide, ora, con la storia della
sua ricerca, tuttora in itinere, di una concreta integrazione nel
tessuto della cultura musicale d'occidente.

Dopo quanto detto, non c'è da stupirsi se si indica generalmente
Kontakte, composizione per suoni elettronici, pianoforte e percussioni
di Karlheinz Stockhausen come l'opera che apre questo nuovo periodo.
Il titolo stesso dell'opera è indicativo: i "... un'importante
opera di Stockhausen coronava il processo in atto del superamento
dell'antitesi tra musica registrata e musica eseguita dal vivo, compenetrando
fonti e atteggiamenti fonici di origine diversa scrive Gentilucci,
il quale, avendo ben presenti importanti precedenti nella ricerca
di un contatto tra due tradizioni, aggiunge subito che l'opera di
Stockhausen " ... partecipa, a un livello di superiore riuscita
o almeno di più tormentata ed impervia ricerca, a quel filone
che stava dando lavori quali Transición II di Kagel, Musica
su due dimensioni di Maderna, Différences di Berio".
I lavori a seguire del compositore tedesco opereranno in questa stessa
direzione fino a configurare, a partire da Prozession, l'inglobamento
dell'alea nelle proprie composizioni.
Lo strutturalismo esasperato, di chiara matrice weberniana, che ha
sempre contrassegnato le opere di Stockausen viene ora smussato da
prassi esecutive legate alla sensibilità dell'interprete, svincolato
ora in buona misura dalla parte scritta.
Non poteva durare. Stockhausen stesso riferisce: "Per ben quattro
mesi e mezzo ho ascoltato, minuto dopo minuto, gran parte delle opere
da me create fino a quel momento (in occasione della Fiera Mondiale
Expo '70 di Osaka, n.d.a.). Di qui la mia improvvisa insofferenza
nei confronti dell'alea. Lo squilibrio qualitativo delle esecuzioni
di Prozession, di Spiral, di Pole per due, di Expo per tre e perfino
di Hymnen, hanno provocato la mia diffidenza. Non riuscivo più
a sopportare le interpretazioni arbitrarie degli strumentisti".

Nel mentre, tuttavia, il compositore aveva lavorato anche in altre
direzioni: con Telemusik, nel 1966, fa uso per la prima volta in una
sua opera di materiali concreti - preesistenti, cioè - con
l'acquisizione di frammenti di musiche dalle provenienze le più
disparate. Attraverso l'uso di attrezzature elettroniche, Stockhausen
elabora dall'interno il materiale fonico così assemblato: è
quel che si dice 'endomodulazione'.
Stessi procedimenti si ritrovano alla base di un importante lavoro
successivo, Hymnen, per il quale adopera, in qualità di nuda
materia sonora, inni nazionali di differenti paesi, accostati secondo
una logica quadriregionale che è strutturante l'intera composizione.
Su un piano più squisitamente politico si muove un altro compositore,
Luigi Nono, la cui attività in ambito elettronico è
meno costante di quella di Stockhausen.
Ed ancora a proposito di Stockhausen, la distanza che lo divide da
Nono appare in tutta la sua evidenza da quanto dichiara il compositore
tedesco in una intervista rilasciata a Firenze, nel luglio del 1980,
a Mya Tannenbaum: "Dopo il nostro ultimo incontro (con l'intervistatrice,
n.d.a.) mi è capitato di sfogliare la 'Frankfurter Allgemeine
Zeitung'. All'interno, ecco, un articolo a firma di un tale Koch,
l'ineffabile scrivano titolare della 'rubrica musica' di quel giornale.
Uno sguardo alle prime righe: era tutto un elogio all'indirizzo di
Henze e Nono, definiti compositori vitali, i soli legittimi rappresentanti
dell'epoca in cui viviamo; e parlava di Henze lodando la sua scelta
di un brano di Allende nel quale si decanta 'El pueblo unido' e via
ad esaltare la musica 'impegnata' (appunto la sua) e la musica preoccupata
del futuro del terzo mondo. Mentre di Nono si metteva in risalto anzitutto
il contenuto ideologico delle composizioni ed. il fatto di aver definito
più volte determinante e decisiva la funzione del testo in
seno alla sua musica.
Quanto ai giovani, in questi anni in Germania bastava che rivelassero
un impegno politico per meritare ogni attenzione. Così sono
stato spesso costretto a battermi in difesa delle mie ragioni, anziché
comporre, il che è davvero assurdo. Ma badi che le mie battaglie
non sono affatto ideologiche".
In effetti ci troviamo di fronte a due approcci ben distinti rispetto
all'elettronica applicata alla composizione: laddove Stockhausen si
adopera nel senso della ricerca all'insegna del rinnovamento del linguaggio
musicale, Nono adopera i mezzi elettronici con finalità amplificative
a vantaggio del messaggio politico.
Lo studio di musica elettronica non èpiù, con Nono,
laboratorio di una nuova linguistica della musica, ma diventa cassa
di risonanza ideologica.

Le critiche si incrociano: Gentilucci taccia Stockhausen di vivere
"... le contraddizioni insanabili tipiche di un formidabile musicista
operante nel clima di benessere ottuso e socialmente rinunciatario
della Germania Occidentale, nel vuoto dell'esperienza comunitaria
ovviamente mancata dal capitalismo...", e contemporaneamente
Luigi Pestalozza riscontra nell'opera del tedesco "la stessa
tendenza a prevaricare l'ascoltatore mediante il discorso senza fine,
a bloccarlo così, per asservirlo, ( ... ) riconducibile, in
ultima analisi, ai meccanismi dell'ipnosi sociale che, come quello
pubblicitario, fanno strutturalmente parte del potere economico capitalistico".
D'altro canto, si rimprovera a Nono il solo incidentale utilizzo dei
mezzi elettronici, il suo essere scollegato dalla ricerca strettamente
musicale operata da altri, e si ricorda che la commissione di opere
elettroniche al musicista veneziano è stata spesso determinata
dalla necessità di avere in cartellone Un nome di grido, più
che dalla reale propensione dell'autore verso l'ambito elettronico,
come è accaduto in occasione del Prometeo, rappresentato in
occasione della Biennale di Venezia e realizzato con la collaborazione
dell'architetto Renzo Piano, responsabile della scenografia.
Detto questo, vale la pena ripercorrere il tracciato delle composizioni
elettroniche di Luigi Nono.
La vera Opera Prima, perfettamente compiuta, che sfrutta le possibilità
offerte dai nastri magnetici e oscillatori è La fabbrica illuminata,
del 1964, realizzata su testi di Giuliano Scabia e Cesare Pavese ed
attraverso l'uso di fonti sonore ottenute - tra l'altro - per mezzo
di registrazioni eseguite 'sul campo' presso l'Italsider di Genova-Cornigliano,
secondo criteri che Gentilucci definisce, a buon diritto, polimaterici.
Successivamente Nono comporrà Ricorda cosa ti hanno j'atto
a Auschwitz, in origine cori per L'Istruttoria di Peter Weiss, poi
opera autonoma, pregna anche questa di polimaterismo.
A floresta é jovem e cheja de vida, dedicato al Fronte Nazionale
di Liberazione del Vietnam, ideale proseguio delle opere precedenti,
si avvale della collaborazione di Giovanni Pirelli per il testo, di
uno studio fonemico condotto a stretto contatto con il Living Theatre
e della presenza di quattro attrici, oltre che di un clarinettista,
un soprano, un percussionista alle lastre di rame. E poi, in rapida
successione, Contrappunto dialettico alla mente, commissionato prima
e poi censurato in parte dalla RAI per troppo palesi riferimenti antiamericani;
il dittico Non consumiamo Marx, composto in occasione del Maggio francese;
Y entonges comprendió, dedicato ai movimenti rivoluzionari
dell'America centro-meridionale; Como una ola de fuerza y luz, composizione
elaborata tenendo conto della presenza di un interprete d'eccezione
quale Maurizio Pollini.
Se questi due autori possono essere considerati i più rappresentativi
di questa nuova fase, non sono d'altro canto mancati contributi -
quando incidentali, quando invece caratterizzati da una buona dose
di continuità - da parte di compositori in tutto o in parte
coinvolti nell'esperienza elettronica.
Sfoltendo molto, basterà citare la ricerca sempre alla ribalta
tecnologica di Koenig, gli esperimenti compositivi basati sulla stocastica
dell'architetto-compositore greco Xenakis, la breve ed isolata puntata
in ambito elettroacustico di Franco Donatoni con il suo Quartetto
III del 1961, i toni cupi e gravi delle composizioni-manifesto di
Giacomo Manzoni.

Nell'ambito del quadro delineato fin qui manca un settore della ricerca
sui suoni prodotti e riprodotti artificialmente il cui sviluppo, ripercorso
a ritroso, ci conduce ai primi anni cinquanta, e che avrà conseguenze
di enorme portata proprio a partire dagli anni ottanta.
Questo settore - la ricerca computazionale - fonda i propri studi,
idealmente, sulle intuizioni pitagoriche circa l'astrazione dell'evento
sonoro con l'aiuto del numero; ed è questo un balzo all'indietro
che, paradossalmente, ha prodotto una spinta in avanti addirittura
spiazzante per la maggior parte dei musicisti attivi compositivamente,
come anche per gli esperti di tutti gli altri ambiti - musicologico,
analitico, esecutivo - inerenti la sfera dell'indagine e della creatività
musicale.
Ma questa, storia di oggi, è anche storia del prossimo appuntamento
sulle pagine della Rassegna.
(2 - continua)