L'Italia degli
omicidi, l'Italia che si atterrisce, con i suoi elenchi di assassinii
a catena, con le spietate esecuzioni, con i professionisti del crimine,
con i ventenni della piccola borghesia arricchita che ammazzano i
genitori per andare in discoteca, non sembra diversa, statistiche
alla mano, dall'Italia di un secolo fa, monarchica ed edificante,
l'Italia crispina, popolata di maestrine dalla penna rossa e di ferventi
medici socialisti, che celebra le sorti dell'industrialesimo e culla
ambizioni africane. Ecco le cifre: gli omicidi volontari (consumati
e tentati) nel 1990 sono stati 3.796; nel 1880 erano stati 3.235.
Se si tiene conto dell'aumento di popolazione, si scopre che il Paese
in cui viviamo è meno feroce di quello in cui vissero i nostri
bisnonni o trisavoli: siamo passati da circa trenta milioni di abitanti
a quasi il doppio (calcolando anche tutti gli immigrati). Il che vuol
dire che il rapporto tra omicidi e abitanti è diventato migliore:
allora era di uno a novemila; oggi è di uno a sedicimila.
Questo confronto è possibile dopo le ricerche di un giudice,
Romano Canosa, che ha pubblicato una Storia della criminalità
in Italia 1845-1945. Nelle biblioteche si trovano diversi testi che
prendono in esame aspetti specifici della realtà criminale
e della natura dei criminali, dagli studi di Cesare Lombroso a quelli
di Eric Hobsbawm, da Brigantaggio in Sardegna di Emilio Lussu a Mafia
e politica di Michele Pantaleone; lo stesso Canosa ha pubblicato una
lunga serie di saggi sul carcere e sulla magistratura. Ma è
la prima volta che un libro affronta una vera storia della criminalità
italiana, dall'Unità ai nostri giorni.

Ogni storico di
professione può spiegarci che si tratta di una materia di per
sé ambigua. La stessa parola crimine sfugge a una definizione
univoca. Un medesimo comportamento è classificato diversamente,
dal punto di vista giudiziario, a seconda del momento storico: un
regime dittatoriale o un regime democratico significano anche una
diversa concezione (e repressione) della criminalità. Le fonti,
inoltre, presentano enormi problemi per lo storico. Gli archivi giudiziari
sono giganteschi magazzini cartacei, in ciascuno dei quali si rischia
di dover trascorrere l'intera vita per una decente consultazione.
I dibattiti parlamentari e le relazioni delle Procure rispecchiano
più il punto di vista della classe dirigente che l'autentico
stato delle cose. Per queste ragioni - scrive Canosa - "tra coloro
che si occupano di criminalità, gli studiosi di storia si trovano,
in ordine di tempo, all'ultimo posto".
In un secolo, il numero totale dei delitti è naturalmente cresciuto
a dismisura, al di là del rapporto proporzionale con la diversa
dimensione demografica del nostro Paese: si passa da 350 mila delitti
nel 1880 a due milioni e mezzo nel 1990. Ma a questo aumento non corrisponde
- lo abbiamo visto per gli omicidi - una recrudescenza della criminalità
più violenta.

Nell'Italia di oggi, il 92 per cento dell'illegalità è
prodotto dalla microdelinquenza: scippi, borseggi, furti con scasso
in negozi e in appartamenti, furti di automobili e di motociclette
o sulle auto in sosta, truffe, risse, piccolo contrabbando, piccolo
spaccio, e reati minori. E' in questi territori che si registrano
i peggioramenti, sia perché è aumentata la popolazione
sia perché è migliore l'accertamento, ma soprattutto
perché sono cambiati i modelli di vita. Nel 1880 i reati contro
gli averi erano intorno ai trentamila casi. Ma allora era diffuso
l'abigeato. Non si potevano (ancora) rubare automobili.
Ma la mafia e la camorra, con i loro derivati (droga e sequestri),
questa Italia cupa e nemica, da cui oggi ci sentiamo assediati e minacciati
fisicamente, questo mondo sotterraneo che ha scavato le sue nicchie
in tutti i gangli della nostra società, esistevano anche un
secolo fa, incombevano anche un secolo fa? Quella che chiamiamo la
criminalità organizzata (o il cartello del crimine) si era
già costituita, aveva già potere?
La relazione di un procuratore ci offre i dati dei delitti violenti
compiuti nel 1872 nel territorio della Corte d'Appello di Palermo:
202 omicidi premeditati, 363 omicidi volontari, 100 omicidi per furto,
99 "ferite seguite da morte", 356 "ferite costituenti
crimine", 268 reati a causa di libidine, 977 grassazioni. La
mafia a quel tempo era solidamente impiantata nella Sicilia orientale,
da Palermo alle province di Girgenti e di Caltanissetta, e aveva già
sviluppato il suo carattere di fondo: "è per lo più
in mano a persone della classe media".
Quando Franchetti e Sonnino, qualche anno dopo, conducono la loro
inchiesta sulle condizioni dei contadini nella regione, essi si convincono
che l'industria della violenza è "la sola che per adesso
prosperi realmente" e scrivono sulla mafia parole che possono
essere tranquillamente ripetute cent'anni dopo: "La forza che
le ha permesso di porsi in questa condizione e che la fa sussistere
sta nella classe dominante [ ... ]. Perché coloro che predominano,
se vogliono adoperare la classe facinorosa ai loro fini, devono pur
permetterle di curare i suoi interessi particolari".


Quanto alla camorra, nel 1901 una regia commissione presieduta dal
senatore Seredo pubblica in ben undici volumi i risultati di un'inchiesta
su Napoli. Vi si legge: "Il male più grave fu quello di
aver ingigantito la camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati
della vita pubblica e per tutta la compagine sociale".
Era nata, a partire dal Seicento, come organizzazione per il controllo
delle case da gioco e per la gestione clandestina delle carceri. Alla
fine dell'Ottocento aveva una sua specifica struttura, con una suddivisione
in gruppi (paranze), con rituali di iniziazione per i soci, con una
gerarchia di status per i membri (picciotti, annurate, proprietari),
con sanzioni disciplinari che andavano dalla sospensione allo sfregio
e alla morte. Alla base della sua attività c'era l'estorsione
organizzata, ma i suoi traffici si estendevano dal contrabbando alla
prostituzione e alle carceri: "Non v'era settore dove non avesse
piede", scrive Canosa. infine, "tutti coloro che svolgevano
un mestiere ambulante, i facchini, i cocchieri, i rivenditori di frutta,
di giornali, di chincaglierie, ecc., portavano il loro obolo all'associazione".
La differenza fra ieri e oggi è l'estensione territoriale della
criminalità. Mafia, camorra, brigantaggio, banditismo, erano
allora concentrati nelle regioni meridionali e insulari, mentre nel
resto d'Italia si aveva a che fare "con una criminalità
di piccolo conio e di scarsa pericolosità", spiega Canosa.
L'equivalente di Londra e di Parigi, come capitali della delinquenza,
erano Napoli e Palermo, non Milano con la sua teppa, né Torino
con la sua barabberia. La violenza delle nostre periferie industriali
è storia degli ultimi cinquant'anni.
Ma la natura mafiosa della criminalità organizzata, i suoi
legami con la società, le sue complicità con la politica,
erano già evidenti un secolo fa, come dimostrerà il
tentativo più efficace e famoso di sconfiggere la mafia, quello
diretto dal prefetto Mori, investito da Mussolini di poteri speciali.
Dopo oltre duemila arresti, quando si arrivo all'alta mafia, il prefetto
venne fermato e rimosso. Nel 1931 un avvocato gli scriveva: "Ora
in Sicilia si ammazza e si ruba allegramente come prima. Quasi tutti
i capi mafia sono tornati a casa. Dove andremo a finire?".
Crimine / Gli
investimenti
Denaro pubblico
e borghesia lazzarona
I terribili delitti
mafiosi di questi ultimi tempi hanno riproposto il tema dei rapporti
tra cartello del crimine organizzato e mondo economico e sociale del
Sud. Si è fatta, sulla stampa e nei discorsi di rito, molta
dietrologia, ma - come nota Giovanni Russo nessuno si è soffermato
ad esaminare le radici di questa situazione e i canali attraverso
cui si collegano iniziative pubbliche e private nel mondo dell'imprenditoria
e dell'economia, aspetti illegali o comunque in contrasto con un sano
indirizzo economico.
L'intervento della criminalità organizzata nella lotta politica
ha confermato, almeno per la Sicilia, quanto aveva affermato Giovanni
Falcone nel suo libro "Cose di Cosa Nostra", e cioè
che la droga non costituisce la fonte principale delle entrate della
mafia, anche se, a titolo personale, i vari boss si occupavano e continuano
talvolta ad occuparsi del traffico di stupefacenti. Secondo Falcone,
c'è stato un distacco dal commercio di eroina a partire dal
1985. Comunque, in questo settore la situazione non è ben chiara;
quel che invece è chiaro è che per la mafia, la camorra
e la 'ndrangheta la fonte di guadagno è rappresentata dalle
risorse erogate dallo Stato per opere pubbliche e dalle tangenti imposte
ai commercianti.
La droga ha costituito pertanto, sotto questo aspetto, una sorta di
alibi per esperti, studiosi e per le stesse istituzioni, che ha consentito
di eludere l'analisi del vero potere dell'organizzazione criminale
nei gangli pubblici, negli enti locali, nelle Usl, nelle Regioni.
Invece, gli ultimi ministri degli Interni hanno dovuto fornire denunce
su amministratori locali coinvolti in gravi reati, quasi tutti riconducibili
all'uso distorto del denaro pubblico.
Scrive Russo: per capire che tipo di economia si è affermato
in molte zone del Mezzogiorno occorre tener presente che la gestione
delle risorse pubbliche e dei finanziamenti dello Stato è controllata
spesso direttamente dal potere mafioso. Questo processo si accentua
da oltre un decennio, accelerato dalle somme erogate per la ricostruzione
dopo il terremoto in Basilicata e in Irpinia del 1980. Se si considera
quindi la droga come un'attività fluttuante e collaterale a
quella principale, che è il controllo capillare di ogni iniziativa
pubblica e privata affinché parte dei proventi finisca per
arricchire la mafia e la camorra, si riesce anche a capire chi sono
i personaggi della nuova borghesia del Sud.
Si tratta di professionisti, geometri, tecnici, che di fatto costituiscono
l'ossatura di un ceto dirigente dai piccoli centri alle grandi città
meridionali che si è arricchito in questo modo e che ha un
ruolo determinante in quel "nuovo blocco sociale" a cui
faceva riferimento un rapporto del 1990 che Pasquale Saraceno redasse
poco prima di morire.
E in quel rapporto si afferma che il "nuovo blocco" è
costituito dai rapporti che intercorrono tra il continuo emergere
dei bisogni sociali, il controllo politico sulla gestione delle risorse
pubbliche e l'interesse delle imprese coinvolte.
Secondo l'autore, alle origini di questo sistema vi è la coincidenza
di interessi tra grandi imprese, anche del Nord, e il complesso degli
apparati pubblici. Per esempio, l'impianto siderurgico di Taranto,
che fu poi raddoppiato e dove c'è ora una grossa crisi d'impiego
e di manodopera, non solo ha condizionato lo sviluppo urbanistico
della città, ma ha anche provocato la rottura dell'equilibrio
sociale e civile. In quella zona, come in tante altre del Sud, le
prime attività economiche controllate da elementi della criminalità
organizzata cominciarono a svilupparsi proprio per i lavori di movimento-terra
e di sbancamento per i cantieri destinati alla costruzione di impianti
petrolchimici o siderurgici rimasti inutilizzati e per le strutture
varie.
E' nata così un'alleanza tra l'industria pubblica, i grandi
imprenditori e gli amministratori degli enti locali. Dei consorzi
per le opere pubbliche fanno parte sia le imprese pubbliche dello
Stato sia gli imprenditori privati sia la Lega delle cooperative.
Essi si sono spartiti i finanziamenti dello Stato per tutte le grandi
opere del Mezzogiorno, come quella di Gioia Tauro, destinata ad un
centro siderurgico mai sorto. Gioia Tauro è un caso di convergenza
d'interessi tra queste imprese privilegiate, gli agrari arricchiti
dagli espropri e la proliferazione di piccole imprese criminali legate
al monopolio dei lavori e all'industria del cemento. Questo sistema
ha funzionato a tutto motore durante la ricostruzione dopo il terremoto
in Campania e ha sviluppato il collegamento tra consulenti, tecnici,
esperti e persino magistrati, a cui toccava il compito di fare i collaudi,
ricevendo ricchi compensi.
Allora? Allora "si tratta di vere e proprie finanziarie di natura
neofeudale che si dividono il territorio, distribuiscono favori, pagano
tangenti, impongono i loro candidati nelle elezioni politiche, nelle
banche, negli uffici e sono diventate i veri detentori del potere
nel Sud. Accade così che anche grossi interessi economici settentrionali
desiderano che continui a persistere questa situazione che è
il frutto della restaurazione dell'istituto della concessione di opere
pubbliche la quale esclude ogni rischio d'impresa e dà notevole
anticipazione ai concessionari". Grandi gruppi e consorzi di
imprenditori di lavori edili diventano così titolari di un
enorme potere finanziario di intermediazione parassitaria che sta
all'origine delle rovinose condizioni in cui si svolgono i lavori
e si perpetuano i completamenti. Una parte della borghesia imprenditoriale,
senza correre alcun rischio, ha' accumulato in poco tempo fortune
con lo Stato. Lo Stato è stato accantonato. Solo i concessionari
progettano le opere, le danno in appalto a condizioni esose, che solo
le imprese mafiose possono accettare, dal momento che non temono concorrenza,
Questo nuovo ceto costituisce quella che è stata chiamata la
"borghesia lazzarona" del Sud. L'istituto della concessione
rappresenta quindi la rinuncia dello Stato a controllare la gestione
dei propri finanziamenti e l'opportunità di lucrare su dì
esso senza controllo. Le opere pubbliche, date in concessione alle
grandi imprese e ai consorzi, i quali incassano anticipi fino al 50
per cento da parte dello Stato, vengono eseguite senza alcuna procedura
di legge che tuteli l'interesse pubblico. Le concessioni hanno favorito
quindi interessi privati e spesso illeciti, per le ragioni accennate,
e permettono di dare in subappalto le opere a imprese molto vicine
alla malavita o da questa appositamente messe in piedi per l'occasione.
E' nato così un collegamento tra questi nuovi feudatari, i
concessionari e un ceto borghese che ha rinunciato a ogni funzione
di guida civile, diventando subordinato a questo sistema. Intorno
a questi nuovi feudatari ha prosperato la mentalità mafiosa
e camorristica, che ha avuto un ruolo profondamente diseducativo sui
giovani che hanno cominciato a cedere alle lusinghe di facile arricchimento
che la criminalità organizzata fa balenare.
Il Sud è diventato così terra di conquista proprio per
l'effetto delle risorse erogate dallo Stato, che invece di promuovere
il risanamento civile ed economico hanno riprodotto, sotto altre forme,
il vecchio sistema baronale.
Così, le enormi anticipazioni di denaro pubblico non raggiungono
lo scopo di accelerare l'esecuzione delle opere, bensì quello
di ritardarle e di renderle perpetue. I "tecnici" offrono
tutti gli espedienti e i trucchi "legali" per modificare
i progetti e per ritardarne le conclusioni. Ovviamente, questo blocco
parassitario ha tutta la convenienza a lasciare spazio a questa situazione
e alla stessa criminalità organizzata. Così il denaro
pubblico diventa una delle fonti principali dell'economia malavitosa.
Con buona pace di chi è vittima di questo sistema: il Sud onesto
e pulito.