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Teogonia del rito - 1
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Sul ponte dell'iniziazione |
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Nicola
Gasbarro
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L'etnologo
francese Arnold Van Gennep pubblicò nel 1909 un libro intitolato
I riti di passaggio, che segnò una svolta radicale nel campo
degli studi antropologici e storico-religiosi: da allora la sua teoria
è diventata una vera e propria "moda culturale". Ancora
oggi se ne parla in termini enfatici e laudativi, tali da alimentare
un sospetto: cosa nasconde la teoria di Van Gennep al di là delle
sue geniali intuizioni? Non richiede forse più un'analisi su
noi contemporanei che sull'etnologia dei primi anni del secolo?
In fondo il rituale, a volte più del mito, affascina la nostra ragione analitica, coinvolge le nostre abitudini festive, stimola il nostro immaginario religioso che spesso si nasconde, come cultura implicita e come determinazione soft, nella nostra ricerca di "valori" e di "senso". Riscopriamo e amiamo Van Gennep perché la nostra cultura non sa fare a meno dei rito e delle implicazioni simboliche che spesso comporta: il quotidiano e il banale ci annoiano e cerchiamo "orientamenti" nell'entusiasmo strutturale dell'esperienza rituale. Esiste un rapporto tra queste esigenze culturalmente condizionate e la moda dei riti di passaggio? Il nocciolo teorico di Van Gennep è che la celebrazione dei riti è connessa con i cambiamenti fondamentali, con le crisi esistenzialmente più forti, come direbbe De Martino, della vita di una persona, di un gruppo o di un'intera società: sono "di passaggio" perché questi riti sanciscono appunto un passaggio da una condizione a un'altra; sono un attraversare, rischioso e spesso fisicamente doloroso e nello stesso tempo entusiastico e socialmente gratificante, il "ponte" simbolico che l'immaginario culturale ha frapposto tra le varie condizioni (status e ruoli) sociali. La tribù degli antropologi e più ancora quella dei fenomenologi della religione hanno trovato, dal 1909 ai nostri giorni, in questa teoria la regola che implicitamente organizza le loro osservazioni storicamente diverse: ogni problema teoricamente generale o storicamente contingente posto dall'"alterità" di un rito, esoterico o selvaggio che sia, è risolto con l'equazione quasi matematica di Van Gennep. Oggi i ricercatori più accorti cominciano a diffidare di questo schema onnicomprensivo: ne parlano più per consapevolezza "modale" che per convinzione teorica; se ne servono più per adeguarsi all'uso diffuso che per rispondere a nuovi interrogativi. In definitiva, come accade spesso alle piccole mitologie che regolano i comportamenti del mondo scientifico, Van Gennep è insegnato e trasmesso perché "buono da pensare" per il consumo di massa dell'avventura esotica del rituale. Come mai allora la comunità scientifica continua a usare un modello che non spiega adeguatamente la -complessità dei sistemi? L'interrogativo sembra stimolare più la sociologia della scienza che lo specifico della ricerca antropologica e richiede una storicizzazione della cultura occidentale che, unica al mondo, ha inventato l'antropologia e si èoggettivata in essa. Nel mondo discontinuo e disperso della modernità siamo riusciti a fare a meno del fascino del mito, ma non riusciamo a sfuggire alle trappole della seduzione del rito. La nostra vita, per quanto frenetica e ossessivamente rivolta ai cambiamenti radicali, continua ad avvertire l'esigenza di regole, codificazioni e strutture sintattiche che diano ordine sociale alle nuove acquisizioni e rendano i continui spostamenti della vita "significativi" e carichi di valore. Di qui, il richiamo ai riti di passaggio: essi restano validi grazie alla nostra passione per la regola, per il mistero strutturale che le grammatiche evocano in noi, a mezza strada tra l'efficacia della formula magica e la suggestione del miracolo religioso. Le regole del rito restano un orizzonte di riferimento al valore che in qualche modo ci salva dalla mera evenemenzialità. Come mai allora il modello comincia ad avvertire l'usura del tempo? Anche qui la risposta viene dalla vita sociale: la nostra storia comincia a reinventare proprie procedure di comportamento, particolari ritmi di cambiamento, forme specifiche di acquisizione di valori, che sembrano codificarsi in rituali di rapporti sociali che nulla hanno a che fare con il religioso o con ciò che la tradizione occidentale ha nascosto nel suo mistero di speranza. Il contrasto scientifico sembra allora nascondere l'opposizione tra l'esigenza della regola e le forme della sua codificazione culturale. Non è in discussione la necessità della regola: la storia ne ha bisogno per salvarsi dall'indeterminismo dell'occasionalità, per dar valore all'evento minimale della durata, per costruire significati al di là dell'arbitrarietà dei significanti; ma quali regole? Quelle fisse e indeterminate di Van Gennep o quelle che la storia rinnova continuamente? L'alternativa ètra l'esigenza sintattica che si risolve in un cortocircuito tra obbligo sociologico e prescrizione religiosa e i riti continuamente rinnovati dalla pratica della vita. Forse l'occidente non ha ancora deciso se ubbidire alle transustansazioni - passaggi da una sostanza all'altra - sacramentali le cui regole sono stabilite una volta per tutte, o essere soggettività attiva che rende queste regole storicamente mutabili. Gli interrogativi diventano allora più complessi ed esigono risposte che vanno al di là della pratica scientifica. Sono i "riti di passaggio", la cui efficacia èinscritta in una alterità fuori dal mondo, a farci passare dai fatti ai valori, o siamo noi a "passare" da una condizione all'altra, reinventandoci le regole rituali? Sono i riti a dare senso alla storia o siamo noi i soggetti anche dei riti? Esistono i riti di passaggio o i passaggi storici che noi scegliamo volta per volta di vivere secondo diverse regole rituali? Insomma: riti di passaggio o passaggi del rito? Teogonia del rito - 2 Lacrime di re per il dio Bel Dal buon esito dei festeggiamenti d'aprile dipendeva a Babilonia anche la legittimità del potere del monarca Il nuovo anno
dei Babilonesi iniziava con lo grande Festa dell'Akitu, durante la
quale venivano ricordati al sovrano i suoi doveri verso gli dei e
verso il popolo. Nel corso della cerimonia iI re veniva sottoposto
alla penitenza di uno schiaffo, che doveva essere tanto forte da farlo
piangere. |
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