Dal secolo scorso,
anche se gli antichi greci ed egiziani pare non lo ignorassero, il
favismo ha vivamente e vivacemente attirato l'attenzione dei medici
e dei botanici, con discordanti interpretazioni ed opinioni, velocemente
accavallantesi nel tempo, sulla sua patogenesi. Precisiamo che per
favismo è da intendersi una sindrome acuta o acutissima emolitica,
secondaria alla ingestione di fave fresche o secche, cotte o crude,
o alla inalazione degli effluvi dei baccelli e dei fiori.
Non sappiamo se Pitagora che, a dire di Ermippo, preferiva "cadere
nelle mani dei suoi nemici che lo inseguivano, piuttosto che sfuggir
loro traversando un campo di fave" si riferisse al loro potenziale
danno ematologico. Sappiamo che Ippocrate ed Aristotele ne sconsigliavano
l'uso perché responsabili di stitichezza e flatulenze, ed Erodoto
perché le loro piante erano ritenute "impure" dai
sacerdoti egiziani.
Dei romani e del Medio Evo non abbiamo riferimenti storici e bisogna
arrivare alla metà del secolo scorso (1843) perché venisse
fatta esplicita menzione, da parte di un medico portoghese (Mira Franco),
della malattia e della responsabilità della leguminosa.
Fu nella seconda metà del secolo scorso, però, ad opera
di un nutrito gruppo di medici siciliani, da Messina (1851) a La Grua
(1856), da Di Pitro-Leone (1858) a Mulé Bertolo (1873), da
Rizzo Matera (1878) a Morici (1879), che vennero codificati i dati
epidemiologici, il quadro clinico, con alcune sue varianti, ed il
carattere eredo-familiare. la malattia ebbe poi battesimo ufficiale
col nome di favismo nel Congresso di Medicina Internazionale di Roma
del 1894 ad opera di Montano (medico lucano), con una magistrale comunicazione
nella quale vennero espressi alcuni concetti fondamentali:
a) per la prima volta si parlava esplicitamente di emoglobinuria;
b) si sottolineava l'importanza del binomio causa determinante (fave)
e causa predisponente (particolare idiosincrasia individuale);
c) veniva messa in evidenza la diversità del potere "patogeno"
delle fave fresche e di quelle secche;
d) si escludeva l'influenza del clima, del terreno e del tipo di coltivazione;
e) si sosteneva l'importanza causale di un principio chimico, tossico
e non batterico contenuto nelle lave;
f) veniva raccomandata l'astensione dai salassi nel periodo di crisi
(Sansone e coll.).
D'allora ebbero inizio studi e ricerche sperimentali nell'affannoso
e competitivo tentativo di dar corpo e conferma alle tesi di Montano
e di precisare le rispettive responsabilità anche nei confronti
di alcuni cofattori endogeni (talassemia) ed esogeni (malaria, clima,
ambiente, famiglia delle leguminose). La schiera dei medici, dei pediatri,
degli igienisti, dei botanici che successivamente ebbero ad occuparsi
dell'intricato problema della patogenesi fu talmente folto che è
davvero fatica improba volerli citare. E' importante però sottolineare
che, una volta caduta la teoria parassitaria (De Semo) e quella batterica
(Cipriani), altre quattro ipotesi furono avanzate:
- la tossica (Piga, Fermi, Ferrannini, ecc), che colpevolizzava la
tossicità della leguminosa versa soggetti idiosincrasici;
- la allergica, sostenuta dalla maggioranza degli Studiosi e dei Clinici
(Lusena, Lotti, Luisada, Macciotta, Auricchio, Frontali, Careddu,
ecc.) e suffragata più che da prove sperimentali dal concetto
che la eritrolisi si verificasse in soggetti con predisposizione ereditaria
o acquisita e sensibilizzati da un precedente contatto con la leguminosa;
- la auto-immunitaria, da Marcolongo a lungo ed ostinatamente prospettata
e difesa per avere egli evidenziato nei fabici in crisi emolitica
"anticorpi atipici, soprattutto anticorpi incompleti di tipo
caldo, e con molta minore frequenza anticorpi completi di tipo Freddo
e raramente di tipo caldo";
- la eritro-enzimopenica (Sansone, Larizza, Carcassi), che è
da considerarsi l'ultima e definitiva interpretazione patogenetica.
La presenza nei fabici di una meiopragia eritrocitaria, carenza di
glutatione (GSH) e di glucosio-6-fosfatodeidrogenasi (G-6-PD) consentì
di stabilire che essa costituiva la "conditio sine qua non"
perché elementi chimici, contenuti nella fava fresca o secca,
cotta o cruda, o nei suoi baccelli e fiori (fitoagglutinine e sostanze
proteiche), scatenassero per ingestione o inalazione l'accesso emolitico.
Enzimopenia che si appurò poi essere di carattere eredofamiliare.
E' da rilevare che, oltre ad un favismo "maior", esiste
un favismo "minor" che è una forma attenuata o larvata
e/o prolungata della classica sintomatologia acuta, soggettiva ed
obiettiva.
Il favismo "maior" si presenta due-tre ore o unotre giorni
dopo il contatto con la leguminosa e con un quadro clinico variabilissimo,
fino a situazioni drammatiche. "Più che il polimorfismo
sintomatologico - scrivono Sansone e coll. - (Il Favismo, Ed. Minerva
Medica, 1958) - colpisce la diversa intensità del processo
morboso, il cui arco di ingravescenza si svolge, attraverso tutta
una gamma di gradualità intermedie tra quadri clinici appena
abbozzati e quadri clinici di impressionante gravità, dalle
forme cioè ambulatorie a quelle addirittura fulminanti".
In linea di massima la crisi emolitica e, successivamente, ittero-emoglobinurica,
esplode dopo il contatto con la noxa fabica ed è caratterizzata
generalmente da prostrazione, malessere generale, cefalgia, nausea
e/o vomito, febbre, pallore progressivo e compromissione del sensorio,
talvolta fino al coma.
L'emissione di urine decisamente ematiche, la notevole anemizzazione,
la presenza di un ittero o subittero, la compromissione degli organi
ipocondriaci sono gli elementi obiettivi di maggiore risonanza e spie
utili ai fini diagnostici, in mancanza di dati anamnestici personali
e/o familiari denuncianti il trait enzimopenico. La velocità
e l'entità della eritrolisi non sono uniformi, variando da
soggetto a soggetto e tra primo e successivi accessi, in rapporto
anche alla modalità di contatto con la leguminosa.
Gli esami emato-chimici confermeranno il sospetto diagnostico quando
denuncino la presenza della particolare enzimopenia e le anomalie
dei globuli rossi descritte da Sansone e coll. (ibidem), fino alla
presenza di corpi di Heinz endoglobulari, di una reticololeucocitosi,
talora elevate. La rapidità della diagnosi, con la conseguente
terapia, ci aiuterà a migliorare la prognosi ed a suggerire,
per il futuro, adeguate misure profilattiche.
Nell'assenza di dati utili anamnestici, la diagnosi differenziale
dovrà porsi con le anemie auto-immunologiche e con quelle da
tossici esogeni (farmaci, composti chimici industriali, veleni microbici,
vegetali ed animali, ecc.).

La prognosi è subordinata alla tempestività della diagnosi
eziologica e dall'immediatezza dell'intervento terapeutico, ma soprattutto
alla velocità ed intensità della crisi emolitica. Una
riserva prognostica non è da ritenersi azzardata né
avventata per la potenziale contemporanea compromissione del cervello,
del fegato e dei reni.
Se fino al secolo scorso il favismo si riteneva circoscritto nell'area
mediterranea, esso è oggi considerato un'affezione ubiquitaria,
anche in rapporto ai flussi migratori, con molta maggiore frequenza
per i Paesi del bacino mediterraneo (Fig. 1). La forma più
frequente è provocata dall'ingestione di fave fresche e la
meno quella per via inalatoria. Le età più colpite sono
l'infanzia e l'adolescenza e ciò è ragionevole spiegarlo
con i primi contatti che si hanno con la leguminosa. Il sesso maschile
è il più esposto.
Paradossale sembrerebbe la constatazione che familiari sani di soggetti
fabici, pur se eritroenzimopenici, possano mangiare le fave impunemente.
La spiegazione può forse ritrovarsi nel grado di deficit enzimatico,
nella presenza di sue varianti (ne sono state segnalate più
di duecento) e nel concorso di altri fattori, che ancora sfuggono
alle indagini sperimentali. Annotiamo, infine, che altre leguminose
(piselli, fagioli, ceci, ecc.) possono, negli eritroenzimopenici di
G-6-PD, indurre sindromi emolitiche, ittero-emoglobinuriche. Per quanto
attiene la terapia, ci si atterrà ad un trattamento sintomatico
ed emotrasfusionale, ove quest'ultimo sia necessario per sopperire
alla massiva eritrolisi. Non sono ritenuti utili i cortisonici né
l'ACTH.
Eravamo a conoscenza del favismo, ma non ci risultava che nel Salento
fossero stati descritti dei casi quando, nell'aprile del 1946 in S.
Cesario, ci fu dato osservare un caso gravissimo, oltre che per la
velocità e la gravità della crisi emolitica, anche per
la notevole compromissione encefalica e renale, in una persona di
47 anni, per aver mangiato, alcune ore prima in campagna, delle fave
fresche. Nella anamnesi personale figuravano due precedenti episodi
di ittero, in pochi giorni e spontaneamente regrediti, senza che n'e
fosse stata formulata una diagnosi certa. Dalla anamnesi familiare
emergevano due significativi elementi: un fratellino di nove anni
era deceduto, parecchi anni prima, dopo aver mangiato delle fave ed
una sorella presentava intolleranza verso alcuni medicinali, tra cui
il chinino e l'aspirina (il Policlinico, Sez. Prat., n. 32, 1947).
Altri casi di favismo vennero in seguito alle nostre osservazioni,
ma accadde Che. nello stesso giorno, il 14 aprile 1959, tre pazienti,
due fratellini di Alliste, rispettivamente di due e quattro anni,
ed un bambino di cinque anni di Ugento venissero ricoverati nella
nostra Divisione dell'Ospedale di Gallipoli. Ad essi si aggiunsero,
nello stesso mese di aprile e nel luglio successivo, altri due casi,
il primo di 17 anni di Taviano ed il secondo di undici anni di Taurisano.
Di essi, due erano in condizioni molto gravi. E' da sottolineare che
il quinto paziente, ricoverato nel luglio, era già stato da
noi curato, in Ospedale, due anni prima per altre due crisi emolitiche
dopo ingestione di fave fresche la prima volta e di fave secche la
seconda (Comunicazione alla Società di Medicina e Chirurgia
del Salento, 21 dicembre 1959). In tutti e sei i casi, compreso quello
del 1946, la prognosi fu favorevole.
In quella Comunicazione del 1959 (un anno cioè dopo l'identificazione
del trait eritroenzimopenico nei fabici) esprimemmo il seguente concetto:
"Se nel determinismo della improvvisa deglobulizzazione fattori
eredo-familiari e costituzionali (gruppo etnico, tara microcitemica,
costituzione emolitica, allergia, malaria, ecc.) ed elementi esogeni,
inerenti alla noxa fabacea (fitoagglutinine: confavalina e vicina
elettivamente), rivestono un ruolo rilevante, fondamentale ed indispensabile
è considerata oggi la presenza negli eritrociti dei fabici
di alcune anomalie bioenzimatiche che Sansone e Segni, Panizzon e
Puyatti, Larizza e coll., in analogia a quanto da Beutler e coll.
e da Corso e coll. comprovato per l'anemia emolitica da primachina,
avrebbero identificate in una carenza della glucosio-6-fosfatodeidrogenasi
e del glutatione ridotto".
Ad integrazione di quel concetto ed a distanza di 31 anni v'è
solo da aggiungere che è stata accertata la localizzazione
genetica dell'enzima. "Il gene strutturale della G-6-PD si trova
nel braccio lungo del cromosoma X -scrivono Russo e Schilirò
(Aggiornamento Medico, n. 4, 1988) - e si trasmette secondo i meccanismi
della eredità X - linked (Fig. 2).
Prima della nostra segnalazione del 1947, casi di favismo in Puglia
erano stati segnalati da Ferrannini a Bari (1928) e da Mallardi a
Trani (1932). Contemporaneamente e successivamente al nostro altri
casi di favismo (editi ed inediti) furono osservati da Chini, Trambusti
e Frola a Bari, da Moro a Taranto, da Zambrano a Brindisi, da Pintozzi
e Limoli a Lecce.
La conoscenza dell'anemia emolitica acuta da fave (favismo), esplodente
soprattutto nella stagione primaverile, oltre ad evitare disguidi
diagnostici e ritardi terapeutici, con aumento del rischio prognostico,
permette ai medici di suggerire ed ai familiari di applicare adeguate
norme profilattiche.
